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Julius Evola e l’esperienza del Gruppo di Ur. La storia “occulta” dell’Italia del Novecento – Stefano Arcella

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In Italia gli anni fra il 1927 ed il 1929 sono segnati da una vicenda spirituale, esoterica e culturale, sconosciuta al grande pubblico e poco esaminata dagli storici, ma che, nondimeno, è una esperienza importante perché é la più significativa della cultura esoterica italiana (ed anche europea) del Novecento: il Gruppo di Ur, diretto dal filosofo Julius Evola – e l’omonima rivista Ur negli anni 1927-28, poi divenuta Krur nel 1929. Di questo gruppo esoterico facevano parte le personalità più significative dell’esoterismo italiano di quel tempo, quali Arturo Reghini (studioso del pitagorismo e fondatore del Rito Filosofico Italiano), Giulio Parise, Giovanni Colazza (antroposofo, interlocutore diretto e fiduciario di Rudolf Steiner in Italia), insieme ad altri insigni esoteristi quali, ad esempio, Guido De Giorgio, il poeta Girolamo Comi, forse lo psicanalista Emilio Servadio (ma la partecipazione di quest’ultimo è controversa), il kremmerziano Ercole Quadrelli e vari altri altri.

La peculiarità di questo sodalizio stava nell’essere un momento ed un tentativo di sintesi fra varie correnti di spiritualità esoterica, quindi élitaria, selettiva, non accessibile a tutti. Tale sintesi veniva cercata anzitutto sul piano spirituale, “magico-operativo”, poi anche su quello dell’elaborazione culturale, in termini di dottrina esoterica, quale si esprimeva sulla rivista Ur-Krur. Erano infatti presenti nel gruppo una certa corrente massonica (impersonata da Reghini e Parise) che intendeva riportare la massoneria ai suoi significati originari, depurandola delle degenerazioni profane e mondane che l’avrebbero caratterizzata dall’illuminismo francese in poi, insieme alla corrente di ispirazione kremmerziana (impersonata dall’esoterista che sulla rivista Ur si firmava Abraxa), richiamantesi cioè agli insegnamenti di Giuliano Kremmerz (fondatore della Fratellanza Terapeutica di Myriam) alla corrente antroposofica, fino a quella dell’esoterismo cristiano. Evola impersona la linea di un paganesimo integrale distante sia dall’indirizzo massonico (col quale vi fu una rottura nel 1928), sia dall’esoterismo cristiano.

Ciò che noi conosciamo di questa esperienza lo evinciamo dai contenuti della rivista, nonché da quanto lo stesso Evola racconta nel suo libro autobiografico Il Cammino del Cinabro.

Diamo al lettore un sia pur sommario inquadramento storico-culturale per contestualizzare il senso e la funzione di Ur. Siamo nell’Italia del fascismo-regime, per dirla col linguaggio di Renzo De Felice. Le leggi speciali che introducono il regime a partito unico sono del 1926. Gli anni di Ur sono quelli delle trattative fra Stato e Chiesa per risolvere la questione romana, rimasta irrisolta dal 1870 con l’annesso problema del rapporto fra cattolici e Stato unitario.

Sul piano internazionale, il Trattato di Versailles del 1919 ha messo in ginocchio la Germania ed ha lasciato nell’opinione pubblica italiana un profondo e diffuso senso di frustrazione per quella che viene considerata la “vittoria mutilata”. L’economia internazionale è alla vigilia di una crisi – quella di Wall Street del 1929, che influirà profondamente sullo sviluppo delle relazioni fra gli Stati. La nascita del fascismo nel 1919 – ossia di un movimento che si richiama al simbolo romano del fascio littorio – e i primi anni del governo Mussolini dal 1922 in poi segnano un momento importante di apertura di nuovi spazi di influenza della cultura esoterica nei confronti del nuovo indirizzo politico e quindi nei confronti dello Stato.

E’ un tema complesso, inedito fino a pochi anni orsono ed approfondito in modo scientifico, per la prima volta, nel libro Esoterismo e Fascismo (a cura di Gianfranco De Turris, Mediterranee, Roma, 2006), cui hanno contribuito ben 35 studiosi, di diversa provenienza culturale e delle più diverse specializzazioni e che ha rappresentato lo sviluppo elaborativo di una monografia della rivista Hera (al tempo in cui era diretta da Adriano Forgione) sullo stesso tema, pubblicata nel 2003, dallo stesso curatore.

Per entrare meglio in argomento, è bene lasciare la parola allo stesso Evola, in un suo brano significativo nel Cammino del Cinabro: “Già il Reghini, quale direttore della rivista Atanor e poi Ignis… si era proposto di trattare le discipline esoteriche e iniziatiche con serietà e rigore, con riferimenti a fonti autentiche e con uno spirito critico. Il “Gruppo di Ur” riprese la stessa esigenza, però accentuandone maggiormente il lato pratico e sperimentale. Sotto la mia direzione esso fece uscire dei fascicoli mensili di monografie destinate ad essere riunite in volumi epperò coordinate in modo che si avesse, in buona misura, uno sviluppo sistematico e progressivo della materia… Fu adottato il principio dell’anonimia dei collaboratori perché – era detto nell’introduzione – “la loro persona non conta, quel che possono dire di valido non è loro creazione o escogitazione ma riflette un insegnamento superindividuale e oggettivo”… Nell’introduzione, come punto di partenza veniva posto ancora una volta il problema esistenziale dell’Io, la crisi di chi non crede più ai valori correnti e a tutto ciò che dà abitualmente, sul piano sia intellettuale, sia pratico, sia umano, un senso all’esistenza. Il presupposto ulteriore era che di fronte a tale crisi non si scartasse, non si ricorresse a dei lenitivi, ma nemmeno si crollasse, che in base al fatto irreversibile ormai determinatosi si fosse invece decisi assolutamente a “dissipare la nebbia, ad aprirsi una via”, volgendo verso la conoscenza di sè e, in sé , dell’Essere” (J.Evola, Il Cammino del Cinabro, Scheiwiller, Milano, 1972, pp.83-84).

Questa conoscenza ha il carattere di una scienza che, pur non avendo a che fare con cose e con fenomeni esteriori, ma concernendo le forze più profonde dell’interiorità umana, procede in modo sperimentale, con gli stessi criteri di obiettività e di impersonalità delle scienze esatte. Ad essa si lega “una tradizione unica che, in varie forme di espressione, si può ritrovare in tutti i popoli, ora come sapienza di antiche élites regali e sacerdotali, ora come conoscenza adombrata da simboli sacri, miti e riti le cui origini si perdono in tempi primordiali, da Misteri e da iniziazioni”.

Il punto di partenza è quindi il rifiuto dei valori correnti, di tutto ciò che abitualmente dà un senso alla vita; il riferimento è ai valori del mondo cattolico-borghese, verso i quali si avverte una profonda insoddisfazione esistenziale. E’ un tema che già compariva, in forme diverse, nella fase artistica di J. Evola, quella del dadaismo, di cui fu il maggiore esponente italiano; il linguaggio artistico del dadaismo si configura infatti, come una rottura verso i canoni tradizionali dell’arte dell’800 e di tutto il mondo che quell’arte esprimeva.

Tale rifiuto non è però fine a se stesso, ma sfocia in una ricerca costruttiva di diversi e più alti orizzonti,verso una conoscenza di sé e, in sé, dell’Essere, che non è una speculazione astratta, ma una concreta e sperimentale ricerca interiore, secondo una precisa metodica che non è una escogitazione individuale di questo o quell’autore, ma il frutto di una scienza antica, millenaria e universale, al di là delle sue varie forme espressive, secondo le diversità di tempo e di luogo.

Il fine di Ur, sul piano operativo-spirituale, è dunque quello di evocare una forza metafisica, attirandola col magnete psichico costituito dalla “catena” di Ur e dalle correlative operazioni di catena sulle quali, nella rivista omonima, si leggono precise istruzioni. Questa “forza” doveva poi trovare un suo sbocco, una sua estrinsecazione sul piano dell’azione culturale ed anche su quello politico.

Le monografie della rivista furono poi raccolte in volume col titolo della rivista e poi, nella loro prima riedizione (1955, a cura dell’editore Bocca di Milano, poi per le Edizioni Mediterranee di Roma nel 1971) presero il titolo di Introduzione alla Magia, aggiungendo come sottotitolo “quale Scienza dell’Io”.

Nell’introduzione del testo si precisava che il termine “Magia” non era adoperato nel senso popolare e nemmeno in quello adoperato nell’antichità, perché non si trattava di certe pratiche, reali o superstiziose, volte a produrre fenomeni extra-normali. Il Gruppo di Ur si riferiva essenzialmente al senso etimologico del termine (nella lingua iranica la radice “Mag” vuol dire sapiente), ossia ci si riferiva al sapere iniziatico in una sua speciale formulazione, ispirata ad un atteggiamento “solare”, ossia attivo e affermativo rispetto alla sfera del sacro. A tal riguardo si può ricordare una celebre frase di Plotino “Sono gli Déi che devono venire a me, non io agli Déi”, per rendere l’idea di questo peculiare orientamento spirituale. Peraltro la radice Ur in caldaico significa fuoco, ma vi era anche un senso aggiuntivo, quello di “primordiale, di “originario” che esso ha come prefisso in tedesco.

I contributi del Gruppo di Ur davano dunque orientamenti, spunti, sollecitazioni con l’esposizione di metodi, di discipline, di tecniche, insieme ad una chiarificazione del simbolismo tradizionale; inoltre con relazioni di esperienze effettivamente vissute e infine con la traduzione e la ripubblicazione di testi delle tradizioni occidentali e orientali integrati da opportuni commenti, quali, ad esempio, il Rituale Mithriaco del Gran Papiro Magico di Parigi, i Versi aurei di Pitagora, testi ermetici come la Turba Philosophorum, alcuni canti del mistico tibetano Milarepa, passi del canone Buddhista, brani scelti di Kremmerz, di Gustav Meyrink, di Crowley. Un quarto profilo di Ur riguardava i contributi di inquadramento dottrinario sintetico nonché puntualizzazioni critiche.

Evola scrive al riguardo “Indirizzi molteplici di scuole varie venivano presentati, a che il lettore avesse modo di scegliere in base alle sue particolari predisposizioni o inclinazioni”.

Ur si presenta quindi come una elaborazione critica della spiritualità esoterica tradizionale e, correlativamente, della cultura esoterica sia sul piano tecnico-operativo che su quello dell’esegesi testuale e dell’inquadramento dottrinario. Esso è, al tempo stesso, un momento di confronto pluralistico fra vari indirizzi iniziatici, in modo che il lettore possa scegliere avendo una panoramica generale, una visione d’insieme dei molteplici indirizzi operativi presenti nella spiritualità esoterica della prima metà del Novecento.

Va peraltro evidenziato che Ur fu il primo sodalizio a pubblicare il Rituale Mithriaco, fuori da ogni consorteria accademica e fu la prima rivista a pubblicare in Italia alcune pratiche del Buddhismo Vajrayana sotto il titolo La Via del diamante-folgore (si tratta della pratica di Vajrasattva – il Buddha della purificazione – e della sua “Sposa”, cioé la sua Shakti), dimostrando una apertura mentale ed una lucidità che ne facevano una vera e propria avanguardia sia sul piano spirituale-operativo, che su quello dell’elaborazione culturale che anticipava di gran lunga, cioè di molti decenni, la diffusione in Italia delle religioni orientali…

Peraltro la pubblicazione del Rituale Mithriaco si inseriva in un disegno – cui lo stesso Evola accenna espressamente nel Cammino del Cinabro – volto ad esercitare una influenza sul regime politico allora vigente, per svilupparne le potenzialità legate all’assunzione del fascio littorio come simbolo. In altri termini, una influenza volta a radicalizzare e potenziare l’anima “pagana” del fascismo, con ripercussioni concrete in termini politici e di orientamento culturale. Il commento di Ur al Rituale Mithriaco non sembra lasciare dubbi al riguardo, visto che si parla di un conflitto fra paganesimo e cristianesimo tuttora attuale e non confinato nella lontana antichità del IV secolo d.C. E’ un tema che, in altra sede, ho già ampiamente approfondito, poiché il disegno spirituale e di sistematizzazione dottrinaria aveva anche un suo profilo politico preciso, forse contando anche sul sostegno di alcune componenti interne al Partito nazionale fascista, sull’anticlericalismo di una certa area liberal-risorgimentale e, come ho già dimostrato altrove, sul tacito sostegno – quantomeno in termini di tolleranza – dello stesso Mussolini, poiché altrimenti non si spiega la libertà di movimento di questa rivista che, in un momento delicatissimo del rapporto diplomatico fra Stato e Chiesa, interviene con una affermazione di antagonismo nei confronti della religione cristiana. Le confidenze del Duce al suo biografo Yvon De Begnac sono eloquenti al riguardo (Y. De Begnac, Taccuini Mussoliniani (con prefazione di Renzo De Felice), Il Mulino, Bologna, 1990). Negli stessi anni – e precisamente nel 1928 – Evola pubblica Imperialismo Pagano, col significativo sottotitolo Il fascismo dinnanzi al pericolo eurocristiano. Le tesi del libro – ossia la necessità per il fascismo di attuare una rivoluzione spirituale in senso “pagano” – suscitarono le proteste dell’Osservatore Romano e contrasti anche nell’area della pubblicistica fascista.

Ur e Imperialismo Pagano si collocano quindi nell’ambito del medesimo disegno – poi storicamente fallito – volto a influire sulla direzione spirituale e politica del regime fascista (cfr. J. Evola, La Via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mithra (a cura di Stefano Arcella), Fondazione J.Evola-Controcorrente, Napoli, 2007).

Al di là di questo profilo esoterico-politico, intendo soffermarmi sui contributi di Giovanni Colazza (che si firmava Leo) e sull’influenza che il suo orientamento ebbe sulla formazione di Evola.

I contributi di questo esoterista si distinguono per una impostazione tutta concentrata sulla interiorizzazione personale di una visione animata e attiva della realtà, del mondo e della vita. Il primo contributo, dal titolo “Barriere”, è molto eloquente in questo senso. Non vi sono riferimenti a rituali magici, né a cerimoniali, ma tutto è imperniato sulla elaborazione cosciente di una visione e percezione più sottile e profonda delle cose. Si insiste quindi sulla responsabilità personale, sullo sviluppo di un percorso di consapevolezza in cui l’uomo opera su sé stesso per trasformarsi.

Nella prospettiva di Colazza, gioca quindi un ruolo fondamentale la volontà unita all’autoosservazione con la calma interiore di un critico. E’ una via dell’anima cosciente in cui ci si osserva come se si stesse osservando un altro. E’ evidente che sulla formazione di Colazza gioca un ruolo fondamentale l’influenza di Steiner e delle sue opere nelle quali viene tramandata la “scienza dello spirito”, che l’esoterista austriaco definisce antichissima e millenaria, non confondibile quindi con una escogitazione intellettuale soggettiva.

I contributi successivi di Leo vanno nella stessa direzione e sono un ulteriore approfondimento della medesima impostazione. Peraltro egli contribuisce all’introduzione ed al commento del Rituale Mithriaco insieme a Pietro Negri (Reghini), a Luce (Parise) e ad EA (Evola), come in Ur è esplicitamente attestato.

Ho avuto modo, già in altra sede, di evidenziare come la lettura evoliana dei Misteri di Mithra risenta dei contenuti della Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner soprattutto nel punto in cui parla di questa volontà individuale che afferma la centralità di una coscienza calma ed autosufficiente e rifiuta la dimensione dell’agitazione e della perenne insoddisfazione della vita profana e ordinaria. E l’incontro con Colazza contribuì sicuramente a questo ampliamento di orizzonti del giovane filosofo romano.

E’ degno di attenzione che, nel III volume di Introduzione alla Magia (che corrisponde alla raccolta della rivista Krur del 1929) venga pubblicato un contributo non firmato – e quindi riferibile al direttore di Ur, ossia ad Evola – che si intitola “Liberazione delle facoltà”; si tratta di una sequenza metodica di esercizi personali, che riguardano il dominio del pensiero, il dominio dell’azione, l’equanimità, la positività come nuovo stile di pensiero, l’apertura mentale o spregiudicatezza e, infine, il riepilogo contestuale dei 6 esercizi.

Ognuno di questi esercizi dura 1 mese e vanno praticati nell’ordine in cui li abbiamo menzionati. Il primo riguarda la fortificazione del principio cosciente rispetto al flusso dei pensieri e consiste nella “concentrazione sull’oggetto insignificante”. Il secondo concerne la fortificazione della volontà cosciente rispetto al proprio agire che da agire abitudinario deve trasformarsi in agire consapevole. Il terzo riguarda lo sviluppo di un calmo distacco rispetto agli eventi, piacevoli o spiacevoli che siano, della propria vita, senza che ciò implichi insensibilità o indifferenza, ma la capacità di non lasciarsi trascinare né dalla gioia né dal dolore. Il quarto esercizio attiene allo sviluppo del pensiero positivo, ossia la capacità di saper cogliere gli aspetti positivi, benefici, di ogni cosa e di ogni evento, senza che ciò significhi scadere in un ingenuo ottimismo o non vedere gli aspetti negativi della realtà, ma sapendo valorizzare ciò che, in ogni cosa, può aiutare la nostra evoluzione di coscienza. Il quinto concerne l’apertura mentale, la capacità di saper uscire fuori dagli schemi ordinari, ammettendo la possibilità che della realtà facciano parte altri aspetti non ordinari. Il sesto è un momento di sintesi e di coordinamento dei 5 esercizi precedenti. Ognuno di questi esercizi è integrato da una precisa pratica di visualizzazione di una corrente eterica allo scopo di mettere in movimento le nostre energie che, nella fisiologia occulta, sono quelle del cosiddetto “corpo eterico” e dei “centri energetici”(i “chakra” della tradizione esoterica indiana).

Orbene tali esercizi di liberazione delle facoltà del pensiero, dell’agire, della calma e della solarità nel modo di affrontare la vita, sono esattamente, con un sola variante tecnica nel 1° esercizio, i sei esercizi fondamentali insegnati da Rudolf Steiner e ripubblicati in Italia dall’editrice Antroposofica di Milano. Steiner muore nel 1925 mentre il Gruppo di Ur si colloca negli anni fra il 1927 ed il 1929, per cui l’influenza di Steiner su Ur, sotto questo particolare aspetto, è storicamente documentata.

Eppure lo stesso Evola, nel suo libro Maschera e Volto dello spiritualismo contemporaneo (ora: Mediterranee, Roma, 2008), critica chiaramente e duramente la visione storica e cosmologica di Steiner che giudica come una visione evoluzionista e quindi antitradizionale (Evola si richiamava infatti alla dottrina dei cicli e della “regressione delle caste”, la storia venendo vista come un processo regressivo) ma in Krur riprende un preciso insegnamento operativo steineriano, anche se non cita Steiner.

Orbene, è evidente, a questo punto che, sotto alcuni specifici aspetti operativi, Evola risentì dell’influenza di Steiner attraverso la mediazione e l’insegnamento di Colazza che partecipava ad Ur con precisi insegnamenti di carattere operativo. A volte, i rapporti fra gli studiosi di esoterismo e fra i ricercatori spirituali sono più complessi di quanto possa apparire a prima vista.

Stefano Arcella * * * Articolo originariamente pubblicato su Hera di settembre 2012. Ringraziamo l'autore ed il sito del Centro Studi La Runa per la collaborazione e l'autorizzazione alla riproduzione di questo saggio.

La Tradizione di Giandomenico Casalino: Romanità, Ermetismo e Platonismo – Giovanni Sessa

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Da tempo, i libri di Giandomenico Casalino si muovono attorno al significato ultimo del concetto di Tradizione. In questo sforzo va inserita anche la sua ultima fatica, Sigilum Scientiae. L’essenza vivente ed ermetica della Romanità e il Platonismo, da poco nelle librerie per la casa Editrice e Libraria edit@ di Taranto (per ordini: editaonline@libero.it, fax, euro 15,00). Il libro, una raccolta di saggi comparsi sulla rivista telematica EreticaMente, è impreziosito dall’ Introduzione di Luca Valentini. Questi esordisce sostenendo che la Via dell’autore “è quella sanguigna, eroica e solare della Tradizione di Roma, quale espressione marziale di una trasmutazione interiore” (p. 11-12). La definizione è, da un punto di vista generale, propedeutica all’effettiva comprensione dell’esegesi presentata da Casalino. Il libro muove dal Proemio, per svilupparsi in due ulteriori momenti. L’autore, preliminarmente, spiega il senso del titolo: il testo non fa altro che “sigillare” e custodire i principi della Scienza, e testimonia un’esperienza sofferta e vissuta di autentica conoscenza.

Nel Proemio, lo studioso leccese presenta, in modalità dicotomica, la visione del mondo tradizionale e quella moderna. La prima è qualcosa che va necessariamente “ri-cordata”, recuperata, in quanto consustanziale, da sempre, all’essere uomini. Consiste sostanzialmente nel riconoscere che microcosmo e macrocosmo hanno lo stesso logos, lo stesso ordine che è forma, cosmo, spazio ordinato da leggi e misure. L’uomo, dio mortale, può ri-conoscere tale ordine. L’ universo è ciò che tende all’Uno, che, sulla terra, si mostra nell’ordinamento giuridico-religioso e politico. All’ordine solare e virile si accompagna quello femminile, che preside alla funzione tellurica, riproduttiva, economica e, grazie ad Eros, congiunge la Terra al Cielo, unisce in Uno i due mondi. Sul piano macrocosmico, nel caos, abisso originario, penetra il raggio solare, principio della verticalità, obelisco divino che, illuminando la Caverna caotica, dà luogo al Cosmo. L’ordine politico tradizionale svolge la medesima funzione anagogica “ricondurre l’uomo quanto più possibile vicino al Cielo, verso Juppiter” (p. 18), come Roma seppe fare con Leggi e Rito.

A ciò si contrappone la visione moderna: individualista, utilitarista, economicista e materialista. Per Casalino la Modernità “è una progressione evidente di sovversioni che gradualmente hanno scardinato l’ordine tradizionale” (p. 23). Da ciò discende il compito prioritario assegnato ai combattenti dello spirito. Quanti si muovano in tale ambito hanno contezza, con Hegel, letto dall’autore quale estremo rappresentante della Verità platonica, che il Vero è l’Intero. La Tradizione, quindi, è viva non soltanto nell’Età dell’Oro ma anche in quella della Distruzione. In essa va “ri-cordata”, riportata nel cuore “la lucida e ferma mistica intellettuale apollinea, evitando tanto la deriva sacerdotale quanto il dionisismo cristianista” (p. 27). Mentre la concezione “asiatica” interpreta il mondo quale deserto, o mare senza limiti e confini, la visione pluralista indoeuropea, greco-romana, dà luogo ad una Città augēscens che espandendosi, non solo accoglie l’estraneo, ma diffonde se stessa, i propri valori e la propria visione del mondo. Roma ha illuminato il mondo con la concezione organica e gerarchica dell’Autorità. Nel sapere filosofico tale idea si è mostrata da Eraclito ad Hegel. In essi “la parte è vista quale ‘momento’ […] del viaggio verso il Risultato che è l’Assoluto cioè l’Idea” (p. 37).

Roma giunse, lungo tale iter, ad identificare la dimensione pubblica con quella sacra ed il privato con il profano. Ciò avvenne nel momento in cui, argomenta Casalino, gli abitanti dei villaggi sorti lungo il Tevere rinunciarono a concedere il primato religioso al fanum, il tempio locale, e al patres delle gentes, assumendo finalmente la coscienza di essere divenuti Populus “riconoscendo come propri gli dei poliadi[…]Juppiter, Mars, Quirinus” (p. 43). Allora nacque il Pubblico, che fu subito Sacro. Per questo i Romani seppero sollevare la moralità all’Eticità “con la spiritualità dello jus, divenendo Mos Maiorum, realtà metafisica […] sovrapersonale, sacra e quindi immodificabile ed indiscutibile” (p. 54). Roma si presenta con valore onfalico, Tradizione che consente il contatto divino-umano nel mondo e nell’eternità. Come riconobbe Giuliano Kremmerz, la Città Eterna realizza la realtà fenomenica in forza della sua Azione sull’Realtà invisibile, con un Atto dello Spirito attivo e magico “l’Ordine, il Fas che è la Divina armonia musicale si manifesta e si riverbera […] nel visibile come Jus: la coincidentia oppositorum, l’abbraccio ermetico degli Elementi dell’ Athanor è l’Impero” (p. 80).

Un simbolo domina l’esegesi di Casalino, più di altri: la Spirale di Stefanio. Essa è al medesimo tempo icona dell’universo, delle civiltà in espansione e della Via. La storia di Roma, in senso ermetico, si è realizzata agitando Mercurio e fissandolo in Marte, per giungere con guerre e conquiste, a Giove. A tanto riuscì Cesare che chiuse l’Età degli eroi. Quello di Cesare fu però Regno senza stabilità. Seguendo la Spirale, dopo Cesare ci fu la discesa nella regione lunare, e la successiva risalita a Saturno, Re della Prima Età. Augusto rifonda la Città. “E’ il ritorno di Amor, ‘sposato’, posseduto, dal puro principio apollineo[…] che è tale proprio per l’avvenuta riconquista di Amor-Venere” (p. 136). A dire dell’autore in Filosofia tale via è stata testimoniata da Platone, che riunificò momento Religioso e Conoscenza. Ciò permise di superare i rischi della sofistica e del misticismo orfico e il ripristino del cosmoteocentrismo ellenico Il Sapere platonico è così sintonico a quello ermetico per la corrispondenza tra “Astri-Numi-Metalli sia interiori che esteriori”(p. 143). Sapere riproposto a beneficio dai moderni da Evola e da Hegel. Esso si differenzia dalle riemersioni della matematizzazione del mondo, di origine pitagorica che, al contrario, Casalino ritiene essere la matrice “femminile” da cui sarebbe sorta la Modernità, come attesta il Discorso del metodo di Cartesio. Per Platone e la Tradizione sapienziale, invece, è solo la Dualità ad essere numero, mentre “il Tre[…] è l’Uno” (p. 93). Il numero platonicamente inteso è l’Indeterminato, l’hegeliana “cattiva infinità”. Questi, tra gli altri, alcuni dei plessi teorici presenti nel libro che ci auguriamo aprirà il dibattito intorno al pensiero di Tradizione.

Giovanni Sessa

Le SACRE, voilà l’ennemi! (1) – Vittorio Vanni

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PREMESSA

Sui muri dell’Università di Nanterre, durante il maggio 1968, apparve questa scritta che esprime al meglio il carattere di questo scritto, che vuole esprimere il disagio concettuale e ideologico di un antico tradizionalista, in cui il sacro esprimeva un assoluto valore spirituale. Non è più questione di esprimere il carattere dell’arte, della religione, della filosofia, della letteratura nell’ambito del sacro, quanto di mettere in evidenza che il sacro è stato oggetto di manipolazioni nel corso dei secoli e oggi ancor più. Il sacro è stato sempre l’alibi della prevaricazione, dell’oppressione, dello sfruttamento di un’umanità spesso ignorante e quindi superstiziosa e pavida. O sacro, quante idiozie, censure, proibizioni, crimini si commettono in tuo nome! Tutto è sacro quando conviene ai potenti, la religione, la famiglia, la patria, le costituzioni, e anche l’arte, quando è asservita, come spesso avviene. Nel 1938 Michel Leiris espose una sua teoria del sacro, affermando:

Che cos’è per me il sacro? Più esattamente, in cosa consiste il mio sacro? Quali sono gli oggetti, i luoghi, le circostanze che svegliano in me questa mescolanza di timore e di attrazione, questa attitudine ambigua che determina l’approccio a una cosa spesso attirante e pericolosa, prestigiosa e reietta, questa mistura di rispetto, desiderio e terrore che può passare per il segno psicologico del sacro?”. L’eventuale risposta individuale di Leiris, come spesso avviene, è meno importante della domanda. Ogni conoscenza si basa sull’esperienza individuale e irripetibile di ognuno. Ogni oggettività, da questo punto di vista, può essere essenzialmente incidentale. Il pensiero è utile solo quando mette alla prova il pensiero “oggettivo”, evertendolo, in nome di un progetto, di una convinzione individuale. Il sacro esiste solo sotto una finzione filosofica o religiosa, ed esprime illusoriamente l’incomprensibile e l’ineffabile per produrre le consolanti ed ignobili superstizioni che sono gli strumenti dei manipolatori. La lotta che Giacobbe affronta ogni notte con l’angelo del reale e della verità rende, al mattino, sublimemente claudicanti. Si può affermare che il nostro tempo confina il sacro nelle affabulazioni del passato? La conoscenza moderna ha ucciso definitivamente Dio, ritenendolo l’espressione di una trascendenza tanto destituita quanto nostalgicamente persistente? Il processo di secolarizzazione della nostra società affosserà definitivamente il senso del sacro o ne prepara il ritorno? Sono domande oggettive la cui risposta non può essere che soggettiva. Le risposte possibili delle concezioni fideistiche, in questo senso teleogicamente corrette e dialetticamente conformi, sono che il sacro è morto oggi solo per risorgere, forse, domani. Ma la storia e la società non potranno dimenticare che l’illuminismo del XVIII secolo, lo scientismo e il positivismo del XIX, gli orrori del XX, sia nel sublime che nell’atroce, sono elementi evolutivi imprescindibili. Forse il sacro e il divino risorgeranno quanto le dolorose doglie della modernità saranno compiute e dimenticate, ma è delirante l’accusa di ateismo o di relativismo a chi diffida del divino e del sacro stessi. Come afferma Lacan, “l’ateismo ha necessità di una dimostrazione teologica”e René Giraud insiste nell’indicare nel cristianesimo un’impresa di desacralizzazione, nel rifiuto degli dei e degli idoli, nella demistificazione del mondo magico. Il Cristianesimo – in Girau (2) – si oppone al sacro attraverso la rivelazione e la mistificazione della Passione, che indica come in realtà sia un meccanismo mitico - sacrificale. L’odio-amore del cristianesimo per il simbolismo, e nel contempo l’uso dell’arte sacra come principale simbolo di rivelazione e illuminazione è stato ben descritto da Antonio D’Alonzo (3) “Le grandi religioni hanno spesso avuto dei rapporti conflittuali con le immagini. Lo spauracchio dell'idolatrismo pagano soffia sovente sul fuoco dell'iconoclastia: ma l'anelito religioso ha bisogno di postulare un filo rosso tra il cielo e la terra. Il trait d'union tra il regno delle essenze ed il mondo della caducità è sempre stato individuato nelle immagini. Esse servono ad orientare l'orazione o la meditazione, impedendo la dispersione mentale e, al contempo, facendo sentire il fedele meno solo. Le religioni in quanto sistemi di credenze devono necessariamente appoggiarsi su dei complessi simbolici in grado di manifestare e giustificare l'assenza del sacro. Da questa istanza deriva l'atteggiamento ambivalente della teologia verso le immagini, l'oscillare tra il pericolo dell'iconoclastia apofatica e la presunta deriva panteistica dove tutto è allegoria, significante di significante e quindi arbitrarietà, assenza di significato, nichilismo”. Il sacro può essere definito come un fenomeno sociale di carattere relativistico, che nelle religioni si pretende pragmatisticamente come fenomeno concettuale teologico o teleologico ma che a un’indagine razionale o, meglio, intellettuale appare come uscente dall’immaginario puro. Ma ciò che si oppone veramente al sacro - e ne è l’opposto - è l’arcano. Perché il sacro, al contrario dell’Arcano, può essere ideato oggettivamente e quindi applicato sociologicamente e politicamente, usato strumentalmente, denaturato, degenerato. L’Arcano, secondo Remy Boyer, è eminentemente soggettivo, quindi non utilizzabile collettivamente. Secondo la sua definizione (4). “Esistono davvero l’Arcano e gli arcani. In certe tradizioni, le pratiche più segrete sono date a tutti, subito, ma ben pochi le realizzano. Il segreto non è l’arcano ma la realizzazione dell’arcano. L’arcano non è realizzato che sull’asse centrale, nella verticalità dell’essere. L’arcano non può essere compiuto che in certi stati di coscienza, stati ottenuti accidentalmente, artificialmente. Anche se è necessaria una propedeutica, anche se un allenamento psicofisiologico si dimostra più sovente indispensabile, sono, l’uno e l’altra, non sufficienti. Il paradosso risiede in quel che è la pratica stessa dell’arcano che conferisce la giusta attitudine, il giusto stato che autorizza la realizzazione dell’arcano. Appare allora chiaro che manca una sequenza, che un segmento rimane a-logico (A-logico), che non è un processo, che vi è un salto nel vuoto, quel famoso intervallo, tanto ricercato, di cui nulla può essere detto. È qui che risiede il segreto, e soltanto qui. È quello di cui si parla quando si dice che la via deve essere trovata, conquistata, che i segreti non sono trasmissibili che per mezzo degli dei. Ma, altro paradosso, gli dei non si confidano che coi loro pari!”.

Sacer, nella lingua latina è ciò che appartiene al Dio. È quindi sacro per una sua qualità interiore, ma esprime anche una separazione, in quanto proibito al contatto umano. Sacer può essere Fas o Nefas, fausto ma anche infausto. Ciò che è sacro possiede un “mana”, un’energia potente, un Arcano a cui ben pochi possano avvicinarsi senza distruggersi.

IL SACRO E LE RELIGIONI

Ciò che si chiama “sacro” è un concetto puramente immaginario delle religioni. Il sacro, come lo ha definito la scuola antropologica francese di Marcel Maus, Marcel Granet ecc., è l’iscrizione nel tempo e nello spazio di ciò che da essi esula. Qual è il senso dei fondamentalisti cattolici americani che, opponendosi proiezione dell’Ultima tentazione di Cristo di Martin Scorzese, bruciarono diversi cinema? E la condanna a morte di Rushdie da parte dei fondamentalisti islamici per la pubblicazione dei suoi Versetti satanici non è la stessa idiozia che inserisce il sacro nel tempo cronologico e nello spazio quaternario piuttosto che su uno stato dell’essere che travalica la materia? Quando questa sorta di delirio interpretativo si trasferisce nel politico e nel sociale non possiamo meravigliarsi delle atrocità del XX secolo. Hitler, Stalin e tutti i sistemi totalitaristi del XX secolo, in cui l’ateismo fu eretto a religione di stato, trovano comunque le loro radici nel monoteismo e la sua concezione di verità assoluta e incontrovertibile. Le camere a gas e i gulag hanno i loro modelli nelle torture e nei roghi dell’Inquisizione. Anche il loro antisemitismo ha un’origine cristiana pur rinnegata e repressa, in nome di una supposta colpa originale giudaica mai dimenticata. Anche gli ideologi neo-pagani o relativisti, da Voltaire a Wagner, non rimproverarono agli ebrei solo di essere tali, ma di non essere omologabili nel romanticismo celto-nordico, greco classico, ariano, cristiano. Voltaire rilegge attentamente i testi sacri (La Bibbia infine spiegata) per affermare che era stata copiata da Omero! In Wagner, Chamberlain o i nazisti, l’antisemitismo diventa un progetto antropologico generale, una sorta di favola romantica di una civiltà indo-europea alternativa al giudeo-cristianesimo. Ancora una volta, gli argomenti razionali e scientifici o anche mitici diventano i servi sciocchi della fede, una ricerca di un sacro alieno dai parametri dei secoli precedenti, ma in realtà ed esso strettamente collegato e conseguente. Il XX secolo non ha potuto resistere a questa variazione ideologica e teologica fasulla, la creazione romantica di una tradizione eterna quanto degenerata nel ciclo del grande Manavantara, di cui la nostra era rappresenta la fine oscura, il Kaly Yuga, l’età del ferro, quella del Lupo, in cui il ribaltamento dei valori porta la feccia di ogni cosa al potere. Ma l’equazione del XXI secolo è quella di permanere inevitabilmente nella Storia, o perlomeno in ciò che dopo Hegel si definisce “Storia” rimanendo liberi da essa. Se siamo nel Tempo c’è forse possibile rifiutare il tempo? Come è possibile che, come in una psicologica coazione a ripetere, il sacro si sia ripresentato al XX secolo con una maschera metafisica sopra un volto ancora mistico, fideistico, confessionale? Il circolo Eranos, che ha riunito per più di cinquant’anni menti come Corbin, Puech, Danielou, Sholem attorno a Jung, nella sua creazione grandissima di conoscenza, ha tuttavia riproposto un’errata concezione della “immaginazione creatrice”. Il sacro è legato a questa facoltà umana da un principio semplice: se esiste un’immaginazione trascendentale è facile farne un’immaginazione trascendente. Gli uomini, se si abbandonano al loro inconscio collettivo, dando più forza al sentimento, all’intuizione, all’emozione che alla ragione - abbandonando così l’equilibrio di queste due forze fondamentali della loro umanità - non possano che immaginare gli stessi cieli tanto consolatori che ingannatori. Immaginazione deriva etimologicamente da imago. Mag è una radicale indoeuropea che indica forza, energia, grandezza. Immaginare è usare la propria energia interiore per la costruzione di una propria realtà, che può essere oggettiva di fronte alla comunità dell’inconscio collettivo ma deve essere soggettiva di contro alla ricerca e il raggiungimento dei molteplici stati superiori dell’essere, secondo la definizione guénoniana. Questa oggettività trova una definizione a mio parere troppo quaternaria - umana troppo umana - in Mircea Eliade quando afferma che esisterebbero in tutte le anime degli archetipi universali che sono quelli del sacro e che formano l’inconscio di cui la psicoanalisi si è occupata. Tuttavia, nel suo testo Trattato elementare di storia delle religioni, ciò che non trova spazio è la Storia. A volte, per superare la dicotomia fra mito e storia, gli storici delle religioni affermano l’esistenza di un tempo eonico (o mitico) e un tempo cronologico che a volte, casualmente o causalmente coincidono. Ma questa affermazione trova oggi dei limiti ben precisi. Ciò che coincide fra questi due termini forse obsoleti è il concetto di reale dei nostri tempi. Semplificando al massimo, si può definire il concetto di realtà in Einstein nella sua affermazione che questa dipende dal punto di vista dell’osservatore. In Planck la realtà si modifica secondo il punto di vista dell’osservatore. Queste affermazioni, che concordano con gli antichissimi assiomi della conoscenza universale, non possono che contrastare con la teoria degli archetipi quando se ne induce che siccome gli uomini credono nella stessa cosa questa è reale e se ne deve far rivivere questa stessa cosa. Gli archetipi sono un’espressione psicologica fondamentale nella conoscenza di sé e del mondo, ma la loro valenza non supera l’ambito animico dell’uomo e non può assumersi quella di definizione del metafisico, dello spirituale, del divino. Il divino che è, per sua natura, infinito, eterno, inconoscibile e ineffabile alla finitezza e determinatezza della nostra percezione globale, non ha nessun rapporto con il sacro che essendo legato alla nostra percezione del tempo e della storia, avendo quindi un valore esclusivamente sociale, può e deve variare nella sua concettualità nell’arco delle evoluzioni, o involuzioni che siano, dell’umanità e del suo divenire. L’aspetto più profondo del sacro, e il pericolo oscuro che si annida in esso è stato descritto da Georges Battaille (5) in questi termini, che è necessario meditare di là dai propri pregiudizi e sentimentalità: “Il sacro vuole la violazione di ciò che è ordinario oggetto di un rispetto atterrito. Il suo dominio è quello della distruzione e della morte”. Chi entra in una chiesa cattolica dei secoli passati, ad ammirare l’arte che la adorna, non può non concordare con Bataille. Il sacro è espresso in termini di tortura e morte, in resti reliquiari di arti ed organi mummificati, in una kermesse allucinante del dolore da cui non si può esulare in una prospettiva di una consolazione troppo lontana, evanescente, ingannatoria.

LA TRADIZIONE E IL SACRO

Negli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo le giovani generazioni dei tradizionalisti erano orgogliosamente emarginate e si consideravano un’élite intellettuale solitaria, i Figli del Sole e delle Vette. Evola e Guénon, Mircea Eliade, Elémire Zolla erano i loro maestri e, secondo gli orientamenti (6) di Evola, rappresentavano, perlomeno nelle intenzioni, un particolare tipo umano, che: “pur trovandosi impegnato nel mondo d’oggi, perfino là dove la vita moderna è in massimo grado problematica e parossistica, non appartiene interiormente a questo mondo né intende cedere ad esso, e in essenza sente di essere di una razza diversa di quella della grandissima parte dei nostri contemporanei.” Nell’espressione evoliana, Tradizione non è consuetudine o folklore, e si può considerare una società come tradizionale quando sia retta da principi trascendenti a ciò che è umano e individuale. Il dominio è formato e ordinato dall’alto e verso l’alto. È la trascrizione della città ideale di Platone che; ”non potrà mai altrimenti essere felice se non ne tracceranno il disegno quei pittori che dispongono del divino esemplare” (7). Il mondo tradizionale non è retto secondo la teoria protagorea, in cui un ordinamento democratico si fonda sul concetto che ogni cittadino possegga una virtù politica, né secondo la teoria di Gorgia, che nega a ognuno il possesso di tale virtù e afferma la legge del più forte. La Tradizione, secondo Zolla: “…è la trasmissione dell’Idea dell’Essere nella sua perfezione massima. Dunque di una gerarchia fra gli esseri relativi e storici fondata sul loro grado di distanza da quel punto o unità. Essa è trasmessa non da uomo ad uomo, bensì dall’alto: è una teofania. Essa si concreta in una serie di mezzi: sacramenti, simboli, riti, definizioni discorsive il cui fine è sviluppare nell’uomo quella parte o facoltà o potenza o vocazione che si voglia dire, la quale lo pone in contatto con il massimo di essere che gli sia consentito, ponendo in cima alla sua costituzione corporea o psichica lo spirito o l’intuizione intellettuale”. In questa definizione, la semplice adesione all’idea tradizionalista diviene una vocazione o potenza trasmessa dall’alto, una facoltà sacrale frutto di una teofania, determinando una gerarchia dell’essere indiscussa.Non possiamo dimenticare, in questo senso, la profonda influenza del pensiero di René Guénon, i cui testi sono pubblicati sia dagli editori dell’ambito esoterico che da altri - molto ufficiali e integrati - come Adelphi. La tesi ripetuta in ogni testo guénoniano è l’esistenza di una tradizione rivelata, anteriore a tutte le religioni, che sono soltanto le forme exoteriche di essa, forme impoverite e ingannatorie, adatte al volgo. In questa tesi, se i moderni si sono allontanati dalle religioni, che rappresentano la necessaria quanto volgare apparenza della tradizione, ciò deriva dalla perdita concettuale della continuità fra i due aspetti, appunto tradizione e religione. Ma vi è fortunatamente, secondo il pensiero guénoniano, un’élite che ha conservato questa famosa tradizione. Ma a coloro che si dichiarano élitariamente tradizionalisti è impossibile chiedere a che titolo parlano e quali siano le fonti di questo supposto sapere. Si sostituisce così alla figura del sapiente, che deriva la sua trasmissione da fonti perfettamente chiare, analizzabili e verificabili, all’autorità spesso caricaturale dei maestri, che hanno tramandato, attraverso i secoli, una verità che avrebbero appreso orizzontalmente, attraverso una catena temporale continua. Vi è, in questa concezione della tradizione, una tendenza teologizzante e dogmatizzante che non può non concordare con quella puramente religiosa, e che rappresenta in realtà il vero filo di Arianna delle cosiddette fonti tradizionali. Lo Schuon (8), autore della scuola guénoniana, ribadisce questo concetto quando afferma: “L’aspetto exoterico d’una tradizione è dunque una disposizione provvidenziale che, lungi dall’essere biasimevole, è necessaria, visto che la via esoterica non può riguardare, soprattutto nelle condizioni attuali dell’umanità terrestre, che una minoranza, e che non c’è niente di meglio, per il comune mortale, della via consueta della salvezza.”

In questo senso, vi è una contraddizione dei termini, in quanto fede e conoscenza sono concetti antitetici. La fede è acritica, basandosi su una verità comunque indimostrabile, ma aprioristicamente determinata e definita. La sua certezza fideistica chiude la ricerca, mentre la conoscenza si apre a essa mediante il dubbio che è la chiave dell’infinito e dell’eterno. Ammettendo che la tradizione sia la primigenia forma della spiritualità, la via più reale e diretta ai molteplici stati dell’essere, come può aver necessità di un exoterismo religioso considerato comunque volgare e adatto solo ai comuni mortali? Le religioni combattono il sincretismo tradizionalista, che tende a omogeneizzarle tutte in una sorta di comparativismo pervertito inaccettabile ai fondamentalisti incalliti. Ma questo sincretismo in realtà forma una sorta di religiosità intercambiabile e ineluttabile, che non può comunque esulare dall’inevitabile contrasto fede-conoscenza. I tradizionalisti si assumano quindi, surrettiziamente, la funzione di una clericalità superiore gerarchicamente a quella delle varie caste sacerdotali, quanto altrettanto basata su l’affermazione di una verità rivelata e indiscussa. Questa tesi è stata riproposta anche da Mircea Eliade (9), attraverso l’interpretazione dell’inconscio junghiano. Secondo Eliade, esisterebbero in ogni anima degli archetipi universali che sono gli archetipi del sacro e che formano quell’inconscio di cui la psicoanalisi si occupa. Se nell’anima umana vi sono dei simboli e degli archetipi che si ripetono, allora la storia delle religioni non è che l’ermeneutica di questi. Si induce quindi che gli uomini, di là dalle forme, credono alla stessa cosa, ed è quindi giusto di farla vivere o rivivere nella sua alienità dalle forme stesse. I vantaggi consisterebbero nel fatto che la fede costituita nelle varie religioni particolari non “spoglierebbe” quindi il sacro e che si potrebbe così sfuggire al pericolo dei vari dogmatismi. Eliade definisce la “universalità” del sacro, e quindi l’oggettività di esso in questo modo(10):

L'occidentale è avvezzo a riferire spontaneamente le nozioni del sacro, della religione, e perfino della magia, a certe forme storiche della vita religiosa giudeo-cristiana, e quindi le ierofanie straniere gli sembrano in gran parte aberranti. Anche se fosse disposto a considerare con simpatia certi aspetti delle religioni esotiche - anzitutto delle religioni orientali - soltanto con difficoltà riuscirà a capire la sacralità delle pietre, per esempio, o l'erotica mistica. Ε anche supponendo che tali ierofanie eccentriche possano in qualche modo giustificarsi (per esempio considerandole «feticismi »), è quasi sicuro che un uomo moderno sarà refrattario alle altre ierofanie, ed esiterà a riconoscere il loro valore di ierofanie, cioè di modalità del sacro”.

Ma il rischio, in questa visione, è quello di ricostituire una chiesa di coloro che non hanno chiesa, di ricostituire dogmi inverificabili e, come tali, oppressivi e prevaricatori.

IL SACRO, LA TRADIZIONE E I TRADIZIONALISTI.

I tradizionalisti, nel suddetto periodo, erano di una composizione sociale piccola o medio-borghese colta, alieni dalla politica corretta della loro epoca, liceali o universitari di un tempo in cui le classi popolari erano escluse dalla cultura accademica. Per lo più legati a ciò che si potrebbe definire destra rivoluzionaria, antiliberale e antiborghese i loro riferimenti erano la filosofia di Evola e Heidegger, Junger, ma anche alla sociologia politica di Ezra Pound, Berto Ricci, Romano Bilenchi e al romanticismo letterario della sconfitta di Ernst Von Salomon e di Vintilâ Horia. Sarebbe interessante analizzare il pensiero effettivo di questi filosofi, politici, scrittori, sociologi, comparandolo con quello della cosiddetta “destra metafisica” e potremmo verificare che la loro concettualità non sempre coincide con quella dei loro discepoli. Quali sono stati gli assiomi di questi tipo di “destra”?

1. La società deve essere governata da una tradizione obliata in un periodo di estrema decadenza. 2. Più indietro si va nel passato e più questa tradizione è pura e luminosa. 3. La risposta e la critica verso le ideologie del presente è carente, in quanto il carattere “numinoso” della tradizione è incontestabile e non necessita di verifiche nel contingente. 4. La finalizzazione della storia, “l’eterno ritorno” è molto simile alla Parusia cristiana e probabilmente da essa deriva, nell’ammirazione della “linearità orizzontale” del cattolicesimo, e della sua arcaicità concettuale. Da qui le tentazioni cristianeggianti e anche cattoliche di alcuni tradizionalisti, nonostante il loro neo-paganesimo di fondo.

Raramente ci si occupa più della metafisica introspettiva individuale del postulato tradizionale che della questione socio-politica, involuta in un pessimismo sociologico che è, specularmente, lo stesso errore dell’ingenuo ottimismo del “progressismo”. Dato che i contemporanei sono naturalmente stupidi, cattivi, decadenti, che la società materialista dell’oggi non recupera i valori spirituali del passato, che la scienza e la tecnologia sono gli strumenti stessi del male, i tradizionalisti rifiutano qualsiasi concetto di evoluzione storica, qualsiasi solidarietà con un popolo che considerano comunque sfruttato, ingannato, prevaricato.

L’ego diventa così introverso, ipetrofico, eccessivamente individualista, dicotomico di contro alle premesse universalistiche tradizionali, che prevedono una società globale in cui ognuno si situa al posto che gli compete intellettualmente e spiritualmente. È questo l’ego della cosiddetta corrente tradizionalista del XX secolo, nelle sue utopie regressive, le sue considerazioni fumose e astruse. Il suo fatalismo metafisico produce inattività e perdita di energia, rinforzando la figura borghese del pensatore come perno immobile della storia, giustificando così la sua fragilità e debolezza intrinseche. Le radici nietzschiane della volontà di potenza sono così dimenticate, come la filosofia delle vette di Evola. Di fronte alla ripulsa contro il mondo moderno, ricordiamo l’aforisma di Nietzsche:

una cosa buona non ci piace, se non ne siamo all’altezza”.

Vi sono però, nell’era attuale, delle variazioni concettuali nell’immaginario tradizionalista. Si inizia a intravedere che le qualità liriche, poetiche, estetiche di una cultura sono strettamente integrate nei loro valori materiali e spirituali, e che non vi è, come nel pregiudizio cristiano, separazione fra materia e spirito. La scienza fisica oggi è sconfinata nella metafisica e il suo progredire produrrà unità e identificazione fra il reale oggettivo e quello soggettivo. Si inizia a intravedere che la tecnica non produce soltanto effetti materiali e meccanici, ma variazioni profonde nella psiche umana, che è la porta stessa dell’anima e degli stati molteplici dell’essere. Se il tradizionalismo del XX secolo ha rappresentato il museo di una vita borghese rinnegata quanto praticata, quello del XXI secolo potrà rappresentare il suo cimitero. L’idea tradizionale non potrà più essere il lato oscuro e opposto - ma complementare - della modernità, il collezionismo melanconico delle contemplazioni, delle distrazioni, degli esercizi estetici fini a se stessi. Questi strumenti di sonno e di morte potranno divenire mezzi di azione, trasformazione del mondo, della cultura e della società.

Come affermò Goethe, l’azione precede tutto, e i valori e le idee non esistono prima di agire.

IL SACRO E LA TRADIZIONE NELLA VIA INIZIATICA L’Uomo di Desiderio, nella ricerca di equilibrio e di quiete interiore, è sottoposto più di ogni altro alle tensioni quaternarie, alle contraddizioni delle correnti psichiche provenienti da una civiltà in decomposizione, alle difficoltà economiche e sociali sempre crescenti e impellenti. La via iniziatica mette in contraddizione una raggiunta sensibilità, sempre più acuta ed esasperata tanto più lontano è stato l’inizio del cammino, con la necessità di mantenersi in un centro di neutralità e pace interiore. Se “l’uomo del torrente” vive in preda delle contingenze, e soprattutto delle passioni che gli avvenimenti gli producano vi è forse qualcuno, anche e soprattutto fra gli Uomini di Desiderio, che può dichiararsene immune? Ed è possibile, e soprattutto giusto, reprimere impulsi biologici come, ad esempio, l’aggressività quando dobbiamo far fronte all’ingiustizia, o difendere che è meno fortunato di noi e non si può difendere? Il rituale massonico di origine francese e scozzese dimostra una secolare esperienza umana e una filosofia stoica di alto livello quando recita:

M.V. Per quale motivo si riuniscono i liberi Muratori? 1° Sorv.: Per scavare oscure e profonde prigioni al vizio ed innalzare templi alla virtù.

Non si tratta quindi di eliminare il vizio, perché anche il male che vi è nell’uomo è parte ineliminabile della legge degli opposti e della polarità. A che servirebbe amputarsi un braccio paralizzato che fa parte comunque del nostro destino e del nostro male? Regolare e reprimere le tendenze eccessivamente egoistiche, distruttive e autodistruttive è l’unica strada possibile all’uomo, così come pensare di poter veramente praticare le virtù è illusorio e fuorviante. Possiamo solamente lodarle e tentare di praticarle, nella coscienza che il principio materico di imperfezione che esiste nell’universo si riflette inevitabilmente nella nostra natura biologica e nella nostra umana, umanissima, interiorità. I Filosofi Unitarie e Triunitari a cui ci sentiamo affini, credono e affermano l’esistenza dell’anima. Ma cosa è quest’anima, se non ciò che ci anima, e come possiamo credere di abolire, ingannandoci, le reazioni di sentimenti ed emozioni di fronte agli imprevedibili e spesso non voluti avvenimenti della nostra vita? Per Jacob Boehme, l’anima non è un principio immateriale (11). Nasce dalla nostra stessa fisicità, dai geni e dagli zigoti che i nostri antenati ci hanno trasmesso, dalle esperienze di tutta una vita, reali o oniriche che siano, ed è forse più formata da sogni, miti e misteri che da atti e accadimenti reali. L’anima è una sostanza, cioè un insieme di qualità o proprietà sensibili. L’unica sostanza dell’anima è la sensibilità, cioè la capacità individuale di reazione, elaborazione, trasformazione, sublimazione ed elevazione di fatti esteriori o interiori. Anche se, per un gratuito atto d’amore di Dio, l’anima fosse abitata per un eterno istante dallo Spirito di Dio, sarebbe ugualmente un prodotto materico della nostra sensibilità (12). Se è vero che è lo spirito la radice incomprensibile dell’anima, preesistente alle cose e alla stessa emanazione della natura e dell’uomo, è vero nel contempo che lo spirito ha, per la sua stessa suprema esistenza e coscienza, qualità sensibili non materiche e totalmente sottili. Sono queste che preformano l’anima sensibile dell‘uomo, come forme misericordiose che non accolgono e non disperdono inutilmente le esperienze gioiose e dolorose della vita umana, il cui senso non è quindi nella loro essenza in sé ma nella forma radicale in cui sono collazionate e comprese. La nostra anima, in sé pura maschera di un individuo caduco è, nonostante questo, il sensorium che può comunicare con il piano divino.

Vi è una parte tenebrosa dell’anima, che percepisce grossolanamente il percepibile, ma vi anche una parte luminosa che sa percepire l’impercepibile. Lo spirito è assolutamente inconoscibile. Solo i riflessi della sua luce sono percepibili nell’ombra della nostra anima, sensibile solo alla materia e ai suoi avvenimenti. La scintilla dello spirito in noi è emanata direttamente da Dio. L’anima sensibile è creata e imperfetta, ma è l’unica intermediaria capace di sentire l’eco della grande voce. Vi sono quindi due letture possibili di ciò che Dio ha emanato scrivendo nella materia. Il primo libro, il Liber M[undi] dei rosacroce, è la lettura di ciò che è creato e visibile. Anche i libri più sacri dell’umanità sono espressione dell’anima sensibile dell’uomo, e quindi sottoposti all’imperfezione della sua interpretazione. L’uomo non è che la natura (13), solo l’anima eterna è la natura eterna. In Boehme, quindi l’anima sensibile, pur essendo materica ha origine e radice dall’anima spirituale, la sola che può amare e comunicare, se non comprendere, il piano divino. L’uomo, nella sua libertà e dignità, unifica in sé spirito e materia e in ciò consiste la sua grandezza, superiore a quella di tutti gli esseri intermedi con l’Essere Supremo, che possiamo indifferentemente chiamare angeli o demoni. La materia dell’uomo, che è la sua estasi e la sua miseria, il suo effimero piacere e il suo eterno dolore, è il Mysterium Magnum di Boehme. Come si può conciliare il male di ogni giorno, che conosciamo senza necessità di fede, con la suprema bontà che presumiamo in Dio? L’Ungrund boehmiamo, che è l’inconscio individuale e collettivo, produce Brama, che è passione spasmodica della materia, ma ha la stessa natura del Desiderio, tanto che spesso le loro polarizzazioni si alternano e la Brama diviene Desiderio e viceversa.

La spinta verso la vita, verso l’esaltazione dei sensi, verso l’ebbrezza dionisiaca, bacchica e iacchica è la maschera materica della sobria e spirituale solarità di Apollo. La filosofia dell’Uno e del Tutto non può spingere verso la mortificazione, l’annullamento, il senso di colpa e la relativa autopunizione. Se il crimine attribuito ad Adamo-Eva è la ricerca della coscienza di sé, della conoscenza, dell’eternità di un pensiero che si accresce nello scorrere delle generazioni, dell’orgoglio di essere creatura di un Creatore, questo preteso crimine è in realtà ciò che da, finalmente, un senso all’emanazione della nostra anima e della nostra vita. Non è forse lo stesso Vasaio dell’umana argilla, come afferma Omar Kajiam (14), ad averci formato di questa creta? L’umanità deve solo imitare Dio, che ha limitato la sua stessa libertà con la sua stessa legge, perché lo spirito soffia dove vuole, ma solo nella corrente del bene. Nemo noli nocere è regola di assoluta libertà e dignità. Se gli dei ci concedono qualche istante di felicità, ce la fanno pagare con secoli di dolore. Ben cara paghi, Uomo di Desiderio, la gioia del riso e della danza, l’effemericità splendente e meravigliosa dell’amore, la lieve ebbrezza del vino, tutto ciò che nella vita è ti è giustamente caro. Tuttavia, niente vale l’esaltazione di un istante di illuminazione e di unificazione con il divino, stati reali in cui l’essere vive e coincide con l’Essere. Il soffio tenebroso dell’Ungrund non produce così solo Brama materica, di solipsistica separazione da sé, dagli altri e dall’Uno, ma, nel contempo, retto Desiderio di vita spirituale e materiale assieme, di amore ardente e dissetato di se e degli altri, di nostalgia bruciante per un inconoscibile sacro.

Note: 1- Michel Leiris, sociologo, surrealista. La citazione è tratta da una sua conferenza al Collège de Sociologie di Parigi; 2- Cfr. Girard René La violenza e il sacro; 3- D’Alonzo Antonio, Genealogia dell’immaginazione; 4- Boyer Remy, Briciole di assurdità sacra, Nona proposizione; 5- Bataille George Oeuvres completes, Gallimard, Paris, 1988. 6- Evola Julius, Cavalcare la tigre, Vanni Scheiwiller, Milano, 1973. 7- Platone, La Repubblica; 8- Schoun Frithjof Dell’unità trascendente delle religioni, Edizioni Mediterranee, Roma, 1997; 9- Eliade Mircea Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino, 1976; 10- Op.cit; 11- Mysterium Magnum, 15-16; 12- op.cit 6,19; 13- De electioni gratia, 9, 16; 14- Robajat   Vittorio Vanni

Ricominciamo da capo (prima parte) – Antonio Filippini

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Per rimediare un po’ all’invasamento quantitativo e meccanicista di cui siamo vittima, niente di meglio che dare una bella rispolverata ai concetti più elementari della metafisica. Questa fa partire tutto dall’Alto, dal Superiore, dal Completo, dal Perfetto, dall’Infinito, dall’Incondizionato, la ragione di ciò sta nel fatto che “Niente può manifestarsi e venire in esistenza che non sia già stato presente fin dall’inizio, sia pure in forma di semplice possibilità o potenzialità, nel Principio originario”. La seconda ragione è che “il più non può derivare dal meno”, non si può concepire o creare ciò che sta di là dalla propria comprensione; per poter andare “avanti”, deve esistere o preesistere un “avanti” in cui andare, specie se questo “avanti” è verticale. Un inferioreessenziale o qualitativo non può determinare o creare un superiore qualitativo o essenziale; la quantità monta dal basso ma la qualità può solo discendere dall’alto. La ragione di questo è molto facile da comprendere, la qualità essendo l’opposto della quantità, non è soggetta alle leggi aritmetiche, perciò non può aumentare né evolvere per semplice addizione o accumulazione, o diminuire per semplice sottrazione, può solo trascendere o lasciarsi trascendere, in un senso o nel senso opposto. La qualità non è sensibile al numero, che significa che 1+1 farà sempre 1. Assommando il singolo individuo umano a miliardi di altri individui, si ottiene soltanto il collettivo umano, l’uomo è e rimane “uomo”, semplice espressione dell’ordine di realtà umano. La qualità “uomo” o l’ordine di realtà umano è insensibile al numero, che ne esista uno solo o miliardi, per tale qualità la cosa è del tutto indifferente.

La prima proiezione-distinzione che procede dal Principio originario, è appunto la doppia valenza: Essenza e Sostanza, che più in basso diventeranno Qualità e Quantità, queste sono il basamento dell’ordine di realtà manifesto e la sua ragion d’essere, assurda quindi la pretesa di certi maniaci dell’unificazione di far sparire anche questa coppia, perché, secondo loro, sarebbe una dualità che come tale negherebbe l’unità, ma il concetto di unità non si addice molto al Principio originario, perché tale concetto marcia sempre assieme a quello di molteplicità. Unico o singolo e molteplice, unità e separatività, l’intero e la parte, queste sono cose che risentono un po’ troppo della logica quantitativa, non si addicono al fattore qualitativo, caratterizzato com’è dalla differenziazione gerarchica verticale, né ha senso riferirle al Principio originario, che permane sempre di là da ogni differenziazione. La differenziazione qualitativa verticale dà luogo agli ordini molteplici di realtà (da non confondere con gli “universi paralleli” dei moderni, solita grottesca imitazione parodistica), e il rapporto tra questi ordini di realtà non è né può essere meccanico, ma è basato sull’analogia, perché c’è di mezzo la trascendenza, ed è pure basato sulla trasposizione di significati. Gli immanentisti non accettano la trascendenza perché questa sarebbe separativa, mentre in realtà ciò che trascende contiene in sé ed è anche ciò che è stato trasceso, ma non può essere ridotto solo a questo, perché è anche “altro” (possiede una valenza realizzativa propria). Gli immanentisti non accettano questo “altro” perché sarebbe separativo e incomprensibile, ma si tratta di un’impostazione sbagliata e di un equivoco, per giunta un po’ idiota, perché per l’inchiostro della penna, per esempio, il pensiero che scrive sulla carta e colui che lo ha concepito, sono senz’altro “altro” rispetto alla sua natura! A ciascuno il suo, non è minimamente richiesto all’inchiostro della penna che debba per forza comprendere il pensiero che scrive! Io sono anche l’inchiostro della mia penna, poiché è una mia produzione, ma l’inchiostro della penna, finché permane tale, sarà solo inchiostro senza essere me! Quello degli immanentisti è un ragionare a rovescio. Si è perfino avuta l’incomprensione se non addirittura lo scimmiottamento del “quello” vedantino, che là si riferisce al Brahman Supremo e non certo all’“altro” orizzontale, cioè agli altri, alla molteplicità quantitativa, che nella sua totalità può essere solo un simbolo del Principio Supremo, ma non è affatto identificabile con questo.

L’unità ricercata ossessivamente da Hegel è ottenuta mediante una logica che è francamente da bari intellettuali, si tratta dell’identificazione forzata di fattori che in realtà si trovano o possono trovarsi in rapporto gerarchico, quindi si stabilisce un rapporto orizzontale e egualitario tra fattori che magari si trovano in rapporto gerarchico, tutto questo allo scopo di negare il rapporto trascendente che sarebbe separativo, con l’aggravante del capovolgimento del significato dei fattori in gioco. L’“essenza” è data come un obbligo, un “dover essere”(1), mentre l’“esistenza” sarebbe il “ciò che è”, invece tradizionalmente l’“esistenza” è un’apparenza esteriore dell’“essenza”; lo stesso vale per il “reale” anteposto o valutato superiore all’“ideale”, mentre si è già visto che si tratta di due stadi diversi di un medesimo processo manifestativo o “realizzazione discendente”. Hegel ha capovolto il rapporto gerarchico tradizionale esistente fra la Realtà non manifesta, data come originaria e principiale, e la Realtà manifesta; fissandosi su quest’ultima, Hegel è come se avesse rovesciato in basso le potenzialità della Realtà non manifesta, applicandole all’esistenza manifesta. Altro che fare di Hegel un “maestro”, un “iniziato”! Quella di Hegel è un’iniziazione a rovescio, un ridurre o ricondurre il superiore all’inferiore, perfettamente in linea col decadentismo moderno, e il mondialismo che stiamo subendo, è la fatale conseguenza logica di quell’unità immanentista che piace così tanto a questo autore, quando non ne sia il suo massimo responsabile. Non facciamola tanto lunga, si tratta del banale processo manifestativo: prima si concepisce un’idea, poi la si realizza in forma autonoma. Per quale motivo io dovrei essere soltanto ciò che realizzo esteriormente? Io, come Spirito, sono e sarò sempre anche “altro”, ciò che ho manifestato è solo una mia banale possibilità del momento. Identificando completamente conoscente e conosciuto, essenza e esistenza, reale e razionale, invisibile e visibile, sovrasensibile e sensibile, divino e mondano, ecc. in questo modo si nega il rapporto gerarchico che può esistere tra questi fattori, e il tutto sfocerà fatalmente nel livellamento verso il basso, che è anche inversione gerarchica; in omaggio a un altro principio che afferma: “Se tu neghi una cosa che è vera e reale, questa, non potendo sparire, tu allora sarai costretto a subirla o realizzarla a rovescio”. Si identificano completamente tra di loro due fattori opposti perché l’alternativa sarebbe ammettere la presenza di un principio che li trascende entrambi, non rendendosi conto che questa totale identificazione è contraddittoria rispetto alla funzione che devono svolgere gli opposti. L’identificazione totale del reale col razionale o viceversa, restringe il concetto di “reale” solo a tutto ciò che è manifesto, evidente, visibile, perché il “razionale” in un certo senso è il produttore dell’elemento formale esteriore, e siccome l’atomo o la materia è il supporto base di questo esteriore, allora tutto inclinerà verso un fatale materialismo. La cosa non è molto intelligente, perché è come sostenere che l’architetto è solo le opere che ha realizzato materialmente, si tratta del solito caricamento maligno della “realizzazione manifestativa”, che però è fatalmente gerarchica. Finora nessuno, nemmeno il famoso architetto Fuxas si è mai sognato di dire che lui è solamente le opere che ha costruito, questa identificazione totale va ad esclusivo vantaggio dell’elemento secondario e inferiore, va a vantaggio dell’edificio realizzato materialmente, che è dato come “uguale” all’architetto che lo ha ideato, ma non è nell’interesse di quest’ultimo, che è “anche questo” ma però non è “soltanto questo”; ecco perché il concetto che gli immanentisti hanno dell’unità è sottilmente velenoso e sovversivo, perché tale concetto implica la riduzione all’inferiore e quindi l’inversione gerarchica, questo dà ragione alla formula: immanentismo = satanismo. Innanzitutto ci vuole la disindividualizzazione, ammettendo che: “È suscettibile di esistere tutto quanto può essere pensato, indipendentemente da chi è che pensa”, poi ci si deve rendere conto che la realizzazionein forma autonoma della cosa pensata, può essere un modo di responsabilizzare il pensatore, mettendolo di fronte alle conseguenze pratiche del suo pensare, ma questo è anche un modo di prendere coscienza delle proprie potenzialità, osservandole tridimensionalmente dall’esterno e in opera. Sennonché il “pensatore” si ritroverà ben presto circondato e addirittura schiavo delle cose pensate, completamente immedesimato in esse; per risolvere la questione serve a poco la mania unificatrice hegeliana o immanentista, che è una unificazione esteriore e “a posteriori”, un ragionare a rovescio, si deve invece prendere coscienza di quel processo che ha reso autonomo il pensiero o la cosa o l’idea pensata. Prima si è avuto l’Essere che ha deciso di impadronirsi della sua possibilità, rendendola autonoma (dal Principio Incondizionato), dopo è stato fatalmente ripagato con la sua stessa moneta: anche le sue produzioni pretenderanno di realizzarsi in forma autonoma. Il processo è in parte naturale, poiché è caratteristico della logica del “manifestare”, che implica sempre dare una forma autonoma a ciò che si manifesta.

Tradizionalmente si fa partire tutto da un Principio che trascende ogni particolarità o dualità manifestata, per quanto riguarda gli opposti complementari, questi sono tali, cioè complementari, perché sono la proiezione di un medesimo principio originario, quindi è assurda la pretesa di farli sparire o di rimescolarli e imbastardirli in nome di una pretesa unità, in realtà così si realizza l’opposto, si nega il principio iniziale da cui derivano, perché se la coppia di opposti è una proiezione di tale principio, lo confermerà, sia pure in due modi diversi, perciò negando tale coppia, si negherà pure il principio originario da cui deriva, questo è un problema che non esiste, o meglio, esiste solo nella mente bacata degli immanentisti. Non a caso in Hegel la sintesi è finale, è costruita a posteriori, mentre è più logica la formula opposta: “data una sintesi o un “tutto” iniziale, sarà sempre possibile enucleare da essa o da esso una tesi e un’altra tesi opposta”. Dato un principio iniziale, questo sarà sempre libero di proiettare una duplice immagine di sé, che in nessun caso farà venire meno la sua realtà e unicità di “principio iniziale”. La chiave della comprensione di certe cose sta nel senso e nel significato, perfino nel significato letterale di certe parole, prendiamo la “Realtà manifesta”, per esempio, il Cosmo o Universo tradizionalmente è chiamato così. La Realtà manifesta è tale perché qui le cose si manifestano, questo è positivo da un lato ma negativo dall’altro, poiché manifestarsi significa anche apparire, ciò che appare è solo un aspetto della realtà e quindi è un’apparenza, da qui il concetto orientale di maya, illusione, tenendo presente che illusione non è la Realtà manifesta in sé, ma lo scambiare questa come la vera realtà ultima e totale, mentre essa è solo una proiezione, un semplice aspetto o apparenza. Nella Realtà manifesta le cose appaiono, permangono per un po’ e poi spariscono, sostitute da altre, in un ciclo che sembra essere senza fine; la permanenza e l’apparente immutabilità dell’insieme organico, è solamente una proiezione analogica, una imitazione dell’eternità, appunto perché avviene nel mondo delle apparenze, mentre per gli immanentisti è l’unico modo per essere immortali, attraverso l’insieme che permane mentre i suoi costituenti scompaiono o cambiano incessantemente.

Gli opposti complementari sono dominanti nella Realtà manifesta proprio perché sono necessari per creare il contrasto, che è a sua volta necessario per manifestare. Tu non puoi certo dire di manifestare il tuo pensiero scrivendolo con l’inchiostro nero su carta nera, se la carta è nera, usi l’inchiostro bianco e se la carta è bianca, usi l’inchiostro nero; se invece di scrivere si parlasse, sarebbe la stessa cosa, si avrebbe bisogno dell’aria e delle corde vocali; il pensiero comunicato medianicamente è comunicato tramite una “vibrazione”, che, come tale, è bipolare, questo implica di nuovo il contrasto. “Manifestare” significa anche rendere evidente e soltanto il contrasto fra opposti (o con il neutro) può fare questo, tenendo presente che il contrasto è il semplice contrasto, non implica nessun antagonismo reattivo, così come il rapporto tra opposti complementari non deve mai essere di tipo dialettico. Adesso si può comprendere meglio la vera funzione delle due valenze: Essenza-Qualità e Sostanza-Quantità, la Quantità serve solo per esprimere, per manifestare (carta e inchiostro della penna), appunto per questo sembra essere predominante nell’Universo (l’“Universo è femmina” dei toltechi di Castanedacon i maschi in minoranza), ma ciò che si manifesta è “altro” da essa, è appunto la Qualità, cioè il senso e il significato. L’Essenza e quindi la Qualità è sempre associata a un significato, o meglio, possiede intrinsecamente un senso, tant’è vero che non può nemmeno esistere una Essenza o una Qualità priva di significato; questo, manifestandosi, si riveste di una forma sostanziale, perciò ogni forma esteriore avrà un significato, anche simbolico, esprime in forma simbolica quel significato superiore che appartiene all’Essenza. Carta e penna o corde vocali e aria assumono l’aspetto di quantità, sono quantità nei confronti del senso e del significato del pensiero espresso, che è qualità, uniti al volere di colui che parla e crea, costituiscono il ternario creativo (in relazione alla Realtà manifesta). (1)Vedere l’Essere, l’Essenza, la Qualità, come un qualcosa che è obbligato a essere tale, come hanno fatto certi filosofi e una certa filosofia, questa è un’assurda forzatura derivante da una impostazione sbagliata, è come accusare il cane di essere cane; in questo caso il cane è innocente, è nella sua giusta posizione, è chi accusa il cane di essere cane ad essere in una posizione anomala, posizione molto vicina al rivendicazionismo maligno (un inferiore che vuole liberarsi dall’influenza esercitata su di lui da un superiore), che a sua volta implica un trasferimento illecito di libertà e quindi un’inversione gerarchica. Accusare l’Essere di essere costretto ad essere, questa è una logica che è molto vicina a quella di quel mattone facente parte di un edificio che recrimina perché lo hanno represso, esso vuole essere libero di essere mattone libero, e libero anche dall’essere mattone, reclamando per sé quella libertà che può competere solo a chi ha ideato e costruito l’edificio e pure il mattone. La fatale conseguenza logica sarà la riduzione dell’edificio ad un ammasso informe di mattoni prima e la dissoluzione dei mattoni stessi poi, questo è il fatale destino a cui vanno incontro tutti quegli elementi quantitativi che rifiutano di farsi “informare” da una valenza qualitativa superiore. Questo mette dei pesanti punti interrogativi anche sulla “teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto” dell’ Evola filosofo, che è comunque un’elaborazione interna alla filosofia idealista, perché se è vero che l’io è sull’asse dell’Essere, però è altrettanto vero che di questo asse è il punto inferiore, che si arroga diritti e libertà che competono solo al punto superiore; poiché un io-individuo che si manifesta non può sfuggire alla doppia valenza: ciò che serve per manifestare, l’individuo corporeo (il punto inferiore dell’asse), e ciò che si manifesta, l’Essere(il punto superiore). L’identificazione completa e totale dei due punti è nell’interesse solo del punto inferiore (immanentismo, riduzione all’inferiore), per il punto superiore, una qualsiasi sua manifestazione e indipendentemente dal livello gerarchico in cui avviene, fosse pure l’intero Universo, sarà sempre qualcosa di insignificante rispetto alla potenzialità pura dell’Incondizionato (la vera Valenza superiore che è di là dall’asse dell’Essere e dai suoi due punti). Tipico di Evola è la “tensione verticale”, che lo porta al superamento continuo di fattori o campi più limitati, superamento che è anche trascendimento e che, volendo, si può far rientrare nell’“agire” più che nel contemplare, senza che vi sia troppa differenza tra i due fattori, tenendo comunque presente che il “guerriero” esprime una semplice espansione orizzontale, è un rajah e non un sattwa, anche se questa espansione orizzontale può essere presa come appoggio e come simbolo di un trascendimento verticale. Evola non ha mai rinnegato il suo momento filosofico, però ha fatto di meglio: si è portato oltre esso, lo ha trasceso, questo è ciò che molti che volano troppo basso non vedono o fanno finta di non vedere, perciò riportare ostinatamente Evola solo al suo momento filosofico, questo non significa certo fargli un piacere o nobilitarlo, è più un degradarlo e sminuirlo.

Antonio Filippini

Approfondimenti ulteriori sul Rito Filosofico Interiore – Giandomenico Casalino

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Siamo a conoscenza che l’Inizio, la Primordialità, l’Arché coincide con la Fine, identificandosi con la stessa e quindi con la contrazione, il crepuscolo del Ciclo, essendo ciò la realtà uroborica del Circolo ed evidenziando proprio quanto la primordiale comunione uomo-Dio, nel significato esoterico ciò significando il Sapere dell’uomo di essere il Dio, sia, nella assenza di qualsiasi forma di mediazione, del tutto superflua, atteso che, non essendoci alcuna dualità non v’è nulla da mediare; alquanto simile alla realtà spirituale da fine del Ciclo o da epoche che accellerano tale fine, dove è presente una forte coagulazione dello Spirito in se stesso, poiché fuori il Mondo è Tenebre della stessa natura di quelle interiori, come intuì Nietzsche quando affermò: “…il deserto cresce fuori di noi, fà che il deserto non cresca dentro di te…!”; anche in tale “momento” secco e puro del processo (simile nello Spirito al primordiale nonché a quello romano), non vi sono mediazioni poiché non vi è nulla con cui mediare in quanto, proprio come nella primordialità vi è l’Unità che si conosce Uno e vi si identifica, così nel crepuscolo si manifesta il capovolgimento oscuro della Unità primordiale, apparendo una forma di “unità”, quasi parodistica, che è la spettrale solitudine dell’uomo precipitato nell’angoscia del vivere senza senso che non vede e non sente più alcunché di Divino né dentro né fuori di se. E così, come è accaduto nella decadenza crepuscolare del Mondo Antico e come si è verificato e si sta verificando in codesta attuale tarda e larvale modernità, l’unica Via spirituale che resta da percorrere, mentre vige una febbricitante accelerazione verso il Basso, è quella insegnata ed esperita da Plotino, da Marco Aurelio o da Plutarco, ed è la Via del Rito filosofico interiore, quale Ascesi come Via Secca, in quanto ricostruzione eroica nel fondo dell’Animo della consapevolezza della identità e della presenza del Divino e ciò mediante il processo spirituale platonico di Rinascita-Risveglio-Rimembranza di Ciò che è presente (e che siamo da sempre…!).

La interiorizzazione dello Spirito è manifesta sempre nella fase della desertificazione del Mondo in quanto l’Io, come coscienza del proprio essere, fugge dal Nulla ed entra nel “momento” della ricerca del Centro, cioè in quella Centripeta, quale Universo che va verso l’Uno in una inspirazione-contrazione-coagula a cui succede l’espirazione-espansione-solve come fuga dall’Uno. Infatti mentre colui che nasce, nasce poiché inspira, colui che muore, muore poiché espira: l’uscita è la Vita ma, senza il Ritorno, è la Morte! Questa è la ragione per cui nelle tradizioni spirituali di tutte le civiltà si è sempre parlato della necessità vitale della Iniziazione come teogonia filosofica e dei riti purificatori interiori, sono il Ritorno all’Uno, alla Fonte della Vita e dello Spirito, ma sono il Ritorno consapevole quale Scienza del Centro. L’accelerazione dell’Età Oscura, infatti, verificatasi intorno al VIII-V sec. a.C. in tutte le culture tradizionali, ha provocato la ricerca del Fondo dell’Anima (il Centro) e la contestazione del liturgismo e del ritualismo vuoto nonché del formalismo cristallizzato nella morte dello Spirito, ed è per esempio il confluire delle tematiche filosofiche dei Veda e dei Brahmana nelle Upanisad (termine che è il risultato composto da Upa-ni- sad cioè “sedersi giù vicino”, alludendo alla modalità segreta di trasmissione dell’insegnamento che avveniva oralmente da maestro a discepolo, essendo un insegnamento esoterico tale da essere comunicato solo a chi è iniziato…!) evolvendo in una direzione che mantiene un punto di riferimento fondamentale: tutto è Uno, e Uno è tutto. L'intero universo, nella sua diversificazione, è l'espressione di un unico Principio. Questa "unità fondamentale" viene sinteticamente espressa dalla corrispondenza tra il Brahman, la realtà assoluta, e l’Ātman, l'interiorità dell'uomo. Ne consegue un cambiamento profondo nel valore che si attribuisce all'esistenza, soprattutto riguardo il fine ultimo. Lo scopo della vita umana diviene ora la realizzazione della perduta unità tra micro e macro-cosmo, tramite un processo di Conoscenza. Non si tratta però tanto di una Conoscenza razionale, quanto di un'Intuizione profonda sulla natura dell'Assoluto. In tale prospettiva l’atto sacrificale quale cerimonialità pubblica perde di importanza spirituale e muta verso una forma “interiorizzata” di sacrificio, dove il fuoco esterno del Rito pubblico è sostituito dal calore ascetico interiore e l’offerta sacrificale è costituita dal corpo stesso dell’asceta. È un mutamento epocale simbolico e logico in cui la regola del Culto religioso viene spostata dal gesto esteriore alla concentrazione interiore: non è più questione di una futura nascita divina ma si tratta ormai di esperire l’Assoluto in questa vita terrena, restando nel corpo e guardando e operando nel luogo dove dimora l’Assoluto: il Cuore dell’uomo, attuando una autentica Scienza dell’Io. Medesimo è il cammino dello Spirito con la apparizione della Filosofia nell’Ellade, di Zoroastro in Persia, che si qualifica proprio come Rito mentale purificatorio ed interiorizzato, del Principe Siddharta in India, dello stesso fenomeno del profetismo ebraico sino all’esperienza di Joshua il Nazareno; tutti questi “riformatori” o “rivoluzionari conservatori” provengono dal Culto e dal Rito pubblico, dal Sapere dei grandi complessi templari, essendo, però, la dimensione esoterica di quel Sapere. Affinché tale processo universale dello Spirito, che è ciclico, sia ben esplicito, è necessario visualizzare nella interiorità noetica l’immagine della Spirale di Stefanio, simbolo fondamentale della Tradizione Ermetica ellenistica (sulla quale ho diffusamente scritto nel mio Il nome segreto di Roma, Roma 2013, pp. 151 ss. nonché sempre nel mio Sul fondamento. Pensare l’assoluto come risultato, Genova 2014, pp. 61 ss.); esso contiene, anzi è esattamente il succedersi della inspirazione-contrazione-coagula del movimento Centripeto, corrispondente all’incombenza ed alla predominanza delle Tenebre e coincide con la fuga verso il Centro dell’Anima e la ricerca della Luce nel Fondo della stessa che è il Centro medesimo della Spirale, ecco la interiorizzazione nonché l’intero percorso di discesa “ad Inferos” dove si vivono e si conoscono Astri-Numi-Metalli come oscuri e lebbrosi, è il coagula-contrazione che ha in sé anche il solve come scioglimento degli Elementi (il Fondo dell’Anima quale antro privo di Luce), e inizio della risalita come sublimazione di quel solve che è il salvifico e catartico riconoscere la natura Divina di quell’antro che si manifesta infatti quale cattedrale di Luce e sede del Dio ed è il percorso verso il nuovo Mondo o meglio una nuova esperienza dello stesso Mondo e quindi degli stessi Dei che, ora, sono conosciuti come luminosi ed è la uscita verso la periferia estrema della Spirale, come viaggio ai confini del Mondo, e coincide con la edificazione dell’Impero che è la massima gioia e la suprema fiducia dello Spirito in una espirazione-dilatazione-solve come apertura al Mondo e tensione massima della Identificazione dello Spirito dell’uomo con lo Spirito del Mondo in quanto sono Uno nei Molti ed i Molti nell’Uno; tale uscita è la rinascita della civiltà e quindi del Rito pubblico e della cultualità comunitaria. L’Athanòr è, però, in perenne movimento di inspirazione ed espirazione, essendo il Vivente e tutto ciò ritornerà, nell’altro “momento” di accelerazione della Caduta, ad oscurarsi poiché lo Spirito tornerà a non vedere più la Luce e non riconoscerà, di nuovo e come nel precedente Ciclo, il culto dovuto agli Dei (Plotino, infatti, conoscendo il significato della Caduta, afferma: “Non io devo andare agli Dei ma gli Dei venire a me! ”; nonché “non essere buoni e virtuosi è il compito ma essere Dei!” ) e tale Sapere è presente anche in Hegel il quale, in quanto sapiente ermetico, non fa che sistematizzare in termini logici cioè spirituali, il discorso simbolico della Spirale di Stefanio, rivelando che il Sapere filosofico, nel significato platonico, non solo è la suprema Conoscenza ma, come la nottola di Minerva s’invola al crepuscolo e quindi all’approssimarsi delle Tenebre della notte, esso Sapere, come processo spirituale, appare proprio al crepuscolo delle civiltà ed in termini noetici, viene “dopo” la esperienza religiosa che, implicitamente, coincide con il precedente momento della esteriorizzazione centrifuga, cultuale e cerimoniale dello Spirito che è il movimento verso l’esterno, la periferia della Spirale. La verità in ordine alla Conoscenza suprema che si conquista come Identificazione-realizzatrice alla fine del Ciclo nella realtà Centripeta, nonché come l’altro aspetto della medesima verità, relativo all’uscita da esso movimento Centripeto, avviandosi verso il movimento Centrifugo, dove quella Conoscenza è perduta e viene conosciuta nel nuovo e successivo Ciclo in forma mitico-religiosa, è esplicitamente ed in guisa straordinaria ribadito da Aristotele (Metafisica, XII, 86,1074a, 37b 14).

In ciò consiste la natura profonda della presente Età e della unica ed inequivocabile efficacia operativa del Rito plotiniano interiore come Ascesi filosofica in quanto processo di conoscenza-esperienza del più oscuro Fondo dell’Antro, al fine, vincendo la paura e l’angoscia, di vedere la Luce mediante la Luce,vincendo, fino a che ciò sia possibile e nei limiti della permanenza nel corpo e nella vita, la stessa necessità insita nella Legge cosmica del Ciclo. Appare manifesto, alla luce di tutto ciò, che il Rito filosofico interiore è, come abbiamo accennato, la dimensione esoterica del Culto religioso che è sempre di natura dualistica e quindi essoterica e ciò dimostra la identità tra Scienza dell’Io e magia, dove l’apparente contraddizione vi è solo se si resta nella fase della espirazione-solve-uscita centrifuga e quindi nella cerimonialità e la sua ritualità esterna, pubblica, ma nella fase opposta, cioè la centripeta, la magia non può che essere Scienza dell’Io: ecco la ragione profonda e di natura spirituale, in virtù della quale, nell’incombere delle Tenebre, Evola, come già intuirono Platone e Plotino, vede e pensa che è necessario ritornare alla Primordialità del Rito interiore, puro, secco, senza alcun Dio ed alcuna mediazione, sia mitico-simbolica che teurgica, ma di natura attiva e cioè magica quale appunto Scienza dell’Io, che è operativa Conoscenza dell’Io quale Ātman identico a Brahman: questa è la ragione cosmica della esperienza del gruppo di Ur!

Evola ha inoltre una chiara e lucida consapevolezza che l’evento relativo alla inefficacia del Culto pubblico e al contestuale tramonto di ogni forma istituzionalizzata di religione, è una rischiosa liberazione da un ostacolo-equivoco, liberazione che è la fine della natura cerimoniale e quindi dualistica del medesimo Rito pubblico; a tal fine egli indica con l’Idea dell’esperienza di Ur la necessità epocale (e con ciò anticipando i tempi e di molto…!) dell’effettuale Ritorno centripeto dello Spirito cioè la conoscenza magico-operativa del Centro, tale è la ragione per la quale definisce la magia quale Scienza dell’Io in quanto Centro, inizio e fine di tutta l’Opera. Nel contempo è come se avesse affermato: "Noi dobbiamo ritornare dentro di noi, noi dobbiamo agire dentro di noi, noi dobbiamo chiudere tutta la fase della cerimonialità, che è il rapporto dualistico tra Io ed Ente (che sia evocato, nell’atto teurgico, o invocato, in quello religioso, è sempre Io ed Ente)". Al fine di comprendere tutto ciò è vitale la lettura (e non solo la lettura) di quel capitolo straordinario di Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, intitolato: "Correnti iniziatiche e alta magia", in cui Evola muove una critica profonda, profondissima, plotiniana.

Ecco perché sono attuali, sia Plotino che Evola! Oggi Plotino si stampa e si pubblica in migliaia di copie come accade per Evola! E nelle "Enneadi", che non è una lettura di svago, c'è tutto! Tutti i cosiddetti “studi” di psicologia, di psicanalisi, appartengono allo sciocchezzaio del mondo moderno: la "psicogenesi" di Plotino è eterna perché è attualissima; parla a noi, oggi, lui parla come ci parla Evola! Loro parlano al nostro animo, alle nostre angosce profonde! Ecco perché l’idea di Evola sul Gruppo di UR e del conseguenziale abbandono della cerimonialità è attuale come sono attuali anzi sono il futuro dell’Età Oscura, la fine del culto pubblico, della religione istituzionale, della comunità, della fraternità, delle organizzazioni, di tutte le logge, di tutte le chiese! Che cosa significa ciò? Che dobbiamo arrivare a che cosa? A quello che lui stesso ci indica sempre in quel capitolo ("Correnti iniziatiche e alta magia"), cioè arrivare a superare la dualità e il dualismo, e arrivare a quello che Plotino enigmaticamente ci invita a pensare ed a realizzare, cioè all'Identificazione, a comprendere che alla fine del Ciclo, come manifesta la "Spirale di Stefanio", l’Opera diviene di Identificazione, come d'altronde lo stesso Plotino insegna, alla fine delle Enneadi, affermando che si trova monos pros monon cioè da Solo a Solo! Ci si rende conto, pertanto come dice Meyrink, che non si deve creare l'idolo e adorarlo, ma conquistare il Sapere che tu "sei" l'idolo! Noi siamo da sempre Quello che crediamo di dover divenire, poiché Quello non diviene ma è, come noi non siamo mai nati e mai moriremo poiché, essendo Quello da sempre, siamo eterni! Solo che non lo sappiamo, essendo preda dell’oblio: tutto è deciso dal Sapere quale Scienza dell’Io! È necessario realizzare una forma interiore che sia una forte e serena consapevolezza che “…non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione, anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello Spirito… questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere…” (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Firenze 1960, vol. I, p. 26).

Tale è l’esperienza della Verità che rivela come e perché non sono mai stati reali l’Io e le Tenebre o l’Io e la Luce, poiché ciò è frutto sempre dell’ignoranza-non-visione (āvidya) del dualismo: infatti J. Böhme, teosofo ed iniziato, definito da Hegel: “primo autentico filosofo tedesco”, rivela che noi siamo Luce e Tenebre, come Lui è Luce e Tenebre, perché noi siamo Lui e Lui è noi!

Inattuali, autenticità autoriale ed alfabetizzazione di massa – seconda parte – Stefano Eugenio Bona

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In tempi antichi i libri erano come oracoli religiosi; poi con il progredire della letteratura divennero venerabili precettori; scesero quindi al rango di amici istruttivi; e mentre il loro numero aumentava, precipitarono sempre più in basso fino a diventare compagni divertenti; e attualmente gli scrittori sembrano degradati al ruolo di imputati, che alzano la mano alla barra di ogni giudice, autoeletto ma non per questo meno perentorio, e che scelgono di scrivere per divertimento o per interesse, per animosità o per arroganza, in attesa del giudizio "di chi legge con malizia, o di chi legge dopo cena"(come scrive Jeremy Taylor).

(S.T.Coleridge, Biographia Literaria)

Le voci più pure, nel deserto dell'inautenticità, sono quelle che stentano a trovare una platea, ma al contempo riempono la cassa di risonanza più voluminosa, perché pneumatica: quella coppa di consonanza che giace nel profondo e fa attivare gli uomini "di buona volontà" verso la conoscenza dell'Io, o semplicemente dona spunti di ricerca vera. Nell'epoca di alfabetizzazione delle masse c'è una vera e propria rivolta, ci direbbe Ortega y Gasset: l'infangamento di ogni lucore tramandato pur in guisa popolare, il tradimento per mezzo della traduzione della tradizione orale. A tale proposito il quadro è quello di Coomaraswamy:

"L'alfabetismo è oggettivamente necessario alle società industriali, nelle quali rivestono massima importanza i numeri. In India invece - almeno finché non saranno imposti i metodi educativi occidentali - ogni istruzione anche di grado superiore è impartita oralmente, e aver "udito" è di gran lunga più importante dell'aver "letto". Lo stesso contadino - che l'analfabetismo e la povertà preservano dai giornali e dalle riviste che in Occidente formano la lettura quotidiana e quasi unica della vasta maggioranza delle persone alfabetizzate -, così come i contadini beoti di Esiodo e ancor più i montanari scozzesi di lingua gaelica prima dell'èra delle scuole di Stato, hanno piena familiarità con una letteratura epica di profondo significato spirituale, con un complesso di poesia e musica di valore incalcolabile; e non si può fare a meno di rammaricarsi per la diffusione di una "istruzione" che comporta la distruzione di tutte queste realtà o le conserva soltanto come curiosità dentro le pagine dei libri. Ai fini della cultura non è imporante che le masse siano alfabetizzate, come non è necessario che ognuno sappia leggere; necessario è soltanto che in mezzo al popolo ci siano filosofi (non nel senso moderno ma in quello tradizionale) e che i profani mantengano per il vero apprendimento un rispetto profondo, che sta agli antipodi dell'atteggiamento americano verso il "professore". Sotto questo aspetto tutto l'Oriente sopravanza di gran lunga l'Occidente, e perciò la cultura della vera élite esercita ancora globalmente sulla società un influsso molto più profondo di quello che qualunque "pensatore" occidentale specializzato potrebbe mai sperare." (Dalla fondamentale raccolta di saggi Am I My Brother’s Keeper? del 1947, edita in Italia per Rusconi come Sapienza Orientale e Cultura Occidentale. La citazione è da un saggio che porta lo stesso nome del titolo italiano, pubblicato per la prima volta in Isis , 24, parteIV, 1943).

Ai nostri tempi dobbiamo considerare il moto delle lancette della dissoluzione sempre più veloce e, per quel che riguarda i rapporti e gli influssi della vera élite in Oriente, ci limitiamo ad un accenno in questa sede, visto che la problematica è enorme. Ci riferiamo comunque al lasciare andare, per inedia o per intendimento oscurante, l'enorme bagaglio di suggestioni e richiami ad un'Origine, ad una Fons Perennis. Alla società borghese interessa sterilizzare questo zampillare inesauribile dell’alba pur nel tramonto, ed il lascito delle campagne attende soltanto un'azione archeologica; nella migliore delle ipotesi un’opera di conservazione ove non si può più situare una spinta propulsiva (la differenza tra popoli giovani e popoli cadenti passa inesorabilmente dall’apporto che le campagne riescono a dare).

Una cultura sol in vista dell'utilizzazione, ha il caso emblematico dell' "educazione inglese" in India, dalla colonizzazione dei popoli convertiti a questa religione dell'istruzione forzata: si è passati all'ossessione della certificazione della cultura, superiore o inferiore che sia, tramite attestati che alienano sempre più strati di popolo dalla forma lavoro base. Sempre con il Coomaraswamy de L'illusione dell'alfabetismo (in Sapienza orientale e cultura occidentale) noteremo:

"Non v'è studioso serio delle società umane che non concordi nell'affermare che l'agricoltura e l'artigianato sono le basi essenziali di ogni civilità, intendendo per civiltà essenzialmente lo sforzo di costruirsi un luogo in cui abitare". Charles Johnson (un missionario tra gli Zulù), citato nel saggio, lo ammette espressamente: “l'idea centrale delle scuole missionarie era quello di selezionare gli individui allontanandoli dalla massa della vita nazionale”.

Per cui, masse inconsapevoli vengono instradate ad esser altro, non la base sociale e la forza lavoro a cui sarebbero chiamate dalla propria natura profonda; il fine “nobile” è accampare supposti titoli, da sbandierare egoicamente in una supposta volontà di "emancipazione" attraverso lavori da ufficio borghese. Se la base di tutto (agricoltura e appunto artigianato) si meccanizza, questo è l'orizzonte: formicaio umano senza coscienza di una socialità nazionale, brusìo interminabile dell'uomo massa, il cittadino consumatore che si impone sull'uomo. Poi prosegue:

"La vera e inconfessata spiegazione della nostra volontà di creare un meraviglioso mondo fatto di meccanici tutti provvisti di una identica patente di istruzione"...Interscambiabile! Livellata per tutti gli usi, i consumi e i costumi!"

Il trapasso nella "scuola per tutti" non può che essere quello che abbiamo sotto gli occhi: un divincolare sul nulla delle espressioni ciò che può o deve essere espresso, un continuare a confondere il nocciolo con le bucce, i semi piantati con criterio insieme agli alberi malsicuri della comunicazione globale, nella sfrenata manìa di in-formare i fatti di una direzione ministeriale o confacente alla buona norma aziendalistica. La cultura come deserto, la colonizzazione degli altrui spazi vitali, in nome di un tipo umano da civilizzare in modo coercitivo sui rudimenti, per poi muoverlo nel mondo della semiotica dei migliori prodotti. Ma non è tutto: l'alfabetizzazione di massa è il coinvolgimento finale delle classi sociali in un enorme calderone di ipocrisia. Il meccanismo bovino per cui si è giunti alla dittatura della quantità, non può essere eluso con soluzioni di forza, né da mere prese di distanza, come refrattari.

Continuiamo con una serie di citazioni dal saggio L’illusione dell’alfabetismo: “Quando l'alfabetismo si riduce a un semplice saper fare, ‘la sapienza collettiva di un popolo alfabetizzato’ rischia di essere soltanto ignoranza collettiva, mentre ‘le comunità arretrate sono le biblioteche orali della antiche culture universali’ ”.Certamente l'alfabetizzazione delle razze imperialiste anglosassoni si riduce alla loro lingua, nell'uso della società dei contratti. Ci sarà chi si interrogherà molto, su quelli che considera nostri vaneggiamenti: "Come, non ritieni sia un diritto inalienabile quello all'istruzione? Ecc., ecc....". Negando valore al popolo ridotto a mero ammasso proletario in senso marxista, certamente si comprenderanno queste altre parole di Coomaraswamy (sempre in L'illusione dell’alfabetismo):

"Le ragioni che spiegano questa mentalità hanno le loro radici nella distinzione tra popolo (folk) e proletariato, cioè tra organismo sociale e formicaio umano. Per il proletariato, l'afabetismo è una necessità pratica e culturale”.

Non si nega questo diritto, ma si guarda a ciò che porta un'inclusione forzata nel campo dell'alfabetizzazione, dal punto di vista della grande finanza e tecnocrazia: maggior forza lavoro addestrata alle regole. Non si ammanti la scuola con parole come cultura od educazione dell'individuo! La missione etica è terminata con l'inizio del processo livellatore. Se gli Stati non sono sovrani, non possono agire per una paideia (nemmeno al sapor di reminescenze sbiadite), se lo sono non è detto assolutamente che la impiantino, ma un minimo di afferenza con la normale consequenzialità nel cammino della vita si avrebbe. Solo enti speciali al di fuori dei dettami mondialisti (pensiamo ad alcune scuole steineriane come a quelle che si potrebbero ancora realizzare in Utopia) possono assumere una vera funzione educatrice, con al vertice una chiara e netta idea di come il libro non sostituisca la vita ma la compenetri, in una tripartizione che avrebbe da essere: ginnastica, filosofia, tragedia e poi – solo poi - i Misteri. Da lì si potrebbe ripartire (lasciateci scorrere come acqua riottosa a cader nella forra già tracciata tra le pareti...).

In una silenziosa vertigine, lì si muove il vero ricercatore; occorre però far comprendere che la settorialità in cui viene confinata la figura dell'intellettuale (in senso puro), non è altro che il giuoco alla conclusione. La volontà precisa di rendere innocua la proposta scardinante e di rendere mercato anche il più onesto atto fondativo e proiettivo. Per tornare al Quasimodo del Discorso al Premio Nobel: "La degradazione del concetto di cultura operata sulle masse, che credono cosi di affacciarsi ai paradisi del sapere, non è un fattore politico moderno, ma nuova e più rapida è la tecnica usata per la dispersione multipla degli interessi meditativi dell'uomo. L'ottimismo è divenuto tangibile, non è che un gioco della memoria, i miti e le favole (l'ansia degli eventi soprannaturali, diremo) scendono nel ‘giallo’, assumono metamorfosi visive nel cinema o nel racconto epico dei pionieri o del delitto."

Chi riesce oggi a sorpassare gli steccati e divenire punto di riferimento senza sponsor, è il sacrificato massimo (chi agisce senza utilità concepisce di riversare nelle arti una chiamata, senza altro ritorno che il fattore energetico con cui la si esprime, la volontà di fissare l'Io attraverso i vari ministri del pensiero...In questo caso le operazioni combinatorie tramite parola...) e l'uomo più libero, artefice di un'azione rischiosa e contro tutto. Vorrei citare come esempio per le mie tesi un poeta amato per la sua grande indipendenza: Arturo Onofri. Perché pochissimi giovani riescono a mettere in pratica una vita a concreto rispecchiare le proprie ambizioni e la propria natura? Oggi siamo etichette e merce vivente declassificata da ogni principio di qualità, questa viene infine assegnata in base all'utile prodotto, ad un guadagno in cambio di qualche stretta di mano, ad un ornamento da apporre sul proprio scranno. La cultura vera sarà sempre incapace di produrre l'utile, va da sé che l'aristocratico disprezzo e il pathos della distanza nietzscheano dovranno in questo qui ed ora esser sostituiti dalla pretesa plebea di far lavorare tutti con le stesse dinamiche, incatenati alla dimensione orizzontale dell'esserci.

È ovviamente la poesia la macchia scolorita invisibile nella notte della modernità, per cui sempre il Coomaraswamy de L’Illusione dell’afabetismo induce ad inquadrare la totale inattualità di un poetare in senso originario: ”La letteratura orale è per sua natura essenzialmente poetica, in quanto i suoi contenuti sono essenzialmente mitici e i suoi interessi vertono specialmente sulle imprese spirituali degli eroi; la letteratura nata iscritta è invece per sua natura essenzialmente prosaica, in quanto i suoi contenuti sono concreti e i suoi interessi si rivolgono ad avvenimenti profani e ai particolari. Dicendo ‘poetico’ intendiamo includere il significato di ‘mantico’, sottintendendo che la ‘poeticità’ è una qualità letteraria e non soltanto uno scrivere in versi. La poesia contemporanea è essenzialmente e inevitabilmente dello stesso livello della prosa moderna; entrambe sono egualmente dogmatiche, ma il meglio che ognuna di esse ci può dare sono pochi ‘pensieri felici’, più che certezze".

II

A Londra laureati lavano i piatti, a Milano, Torino o Roma sono operatori in un call center? Illusioni di un rapporto reale tra cultura ed alfabetizzazione, elargizione d'apparente prestigio dottorale acquisito sterilmente, mentre la corsa cieca della produzione ha già dichiarato la volontà di fagocitare tali polli d'allevamento, che non possono fare altro che prendere consapevolezza della situazione e tentare la via stoica, attualizzarla a più non posso, farsi forza in alt(r)o ritmo, perché è fondamentale mantenere una dimensione "centrata" non solo interiormente, anche nel comportamento abituale: sentire la pressione della società dei consumi è sintomo di una libertà mai esperita. Incremento della popolazione, predominio della tecnica, produttività come corsa cieca a mantenere in piedi l'impalcatura, sfaldamento della facciata con cui un potere politico organico poteva far da stantuffo. Sono cadute, macerate e bruciate le ideologie già marcescenti, in un periodo post-bellico incagliato su contrapposizioni del tutto contingenti e non sostanziali tra le parti democratiche in gioco. Ma ora che si è andati ancora oltre, si bada in maniera del tutto esplicita al bieco nuovo sistema valoriale: quello che spiega a piè sospinto Diego Fusaro è lapalissiano per chi ha un minimo d'occhi, naso e bocca liberi e non contaminati. Sono affiorati tutti gli indizi per la completa vittoria dell'uomo-massa odierno sull'uomo differenziato. Ma c'è chi non si arrende. E per questi Fusaro è giunto a megafonare un trasversale scontento; ciò non può esser nocivo, quanto invece la reiterazione mediatica del rossobrunismo rischia l'assorbimento, considerando che su questi argomenti si potranno convincere menti già lievemente in cammino, non quelle inermi con cui costruire uno zoccolo duro per la politica. Insomma l'azione di Fusaro è più che legittima, ma rischia di divenire divertissement intellettuale, risentimento, impotenza contro il muro di gomma. Oppure confluirà in una discesa in campo politica? Staremo a vedere.

Tutta la cultura è in preda ad una specialistica tensione: concrezioni egoiche, nevrosi espressiva, caos compresso che non riesce a percorrere una propria soluzione (cioè quello che porterebbe a scoprire la cultura come simulacro e appoggio - e non finita in sé!), non riesce a muovere passi sulla scacchiera del Labirinto. Potremmo citare Eraclito (frammento 45 Diels-Kranz):

Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos".

Questo deve fare l'uomo che ricerca, non proporre la sua mascheratura di fronte ai problemi ultimi, non lavorare come fanno tutti gli uomini automatizzati della società dei consumi. Se non comprende ciò, produce semplicemente un combustibile altamente infiammabile. Subito cenere. Nessuno si presta con la somma inquietudine, nessuno ha il coraggio delle grandi solitudini nietzscheane. Un Onofri, ad esempio, era unico perché visse su di sé, sacrificandosi ad una vita appartata, porgendo il calice in un fronte invisibile, in comunicazione nascosta e al contempo solare. Fino al definitivo risguardo e abbeveramento sul sovrasensibile. Vivere con sguardo libero e tentare un'espressione autentica si slega da ogni stretta verso cui imbriglia ciò che Walter Benjamin inquadrava alla perfezione: nell'epoca della riproducibilità dell'arte, essa perde giustappunto l'aura su cui tanto si riflette, e la cultura non permea più nessun alone fondativo, chiede di essere riposta come scaffale, al chiuso, senza promessa d'epifania. Le stesse nostre città sono musei (quando qualcosa perviene al livello museale è perché ha perso la spinta egemonica interna), spettri ingigantiti dal valore commerciale-turistico, mentre piccoli occhi multitasking lustrano le pupille su ciò che non è ancora spezzato dal progetto di un parcheggio, di un grattacielo, di un supermarket.

Quindi il discorso d'insieme è duplice: certamente queste riflessioni coinvolgono il dato resistente, per rimarcare la totale e conformistica volontà di creare anche nel campo dell' in-utile artistico il consumo - la certificazione qualitativa tramite le vendite, e via dicendo. Questa forma di manipolazione era meno evidente quando il prodotto artistico (nel dopoguerra soprattutto i dischi '60-'70) si rese fruibile in scala di massa, mentre vi erano esempi in cui si era trovata l'accordatura, nella ricezione trasversale di un pubblico alto e basso senza svendere la propria formula. Tutto ciò fu possibile o fu mera parentesi creativa delle forze che, nell'Occidente, conservavano educazione sufficiente a veicolare una qualche seria proposta, talvolta in suggestioni di un certo Ottocento indimenticato. Nella successiva presa di possesso (ad inizio '80) dell'omologazione e dell'assunzione del marchio (il sigillo della società alla moda) come entità icastica e anti-metafisicamente metafisica, il canone della proposta artistica si allontana sia dai barlumi di una cultura europea ormai diradata, sia dai tessuti espressivi delle retro-avanguardie, sia dalle tradizioni genericamente intese. Verso il 2000 la tecnica spossessa le arti dell'ultima aura rintracciata da Benjamin. Un disco sottobraccio diviene un file da portare dentro una cartuccia.

Per farsi forza ed evitare le azioni suicide, sono d'utile servizio portali e comunità come queste (parlo ovviamente di EreticaMente), che traghettano in un presente e in un futuro ciò che in passato non avrebbe avuto il confinamento, ma avrebbe echeggiato come un polo vero di cultura. Tale è. Ma viene negato e misconosciuto dagli osservatori dell'ammansimento delle bestie da pascolo. La diffusione della scolarizzazione ha potuto il contrario di una maggiore diffusione del sapere, esso si cela e viene combattuto ancor più; nell'epoca della tecnica, lo scandalo massimo è l'art pour l'art, la speculazione filosofica, lo slancio vaticinante, la carica misterica ed erotica del farsi opera d'arte.

Prendiamo uno Chateaubriand, principe dei salotti francesi per un certo periodo (nei primi decenni dell’Ottocento), o Cocteau, piuttosto che D'Annunzio. Se è vero che sono stati più scaltri di altri nel ritagliarsi fama e spendibilità, è pur vero che la società abbisognava ancora di guide, di gesti in opere, fatti, idee come fulvidi fulgori a squarciare il velo e a donare di riflesso una scarica d'assoluto, di cui potevano godere financo alle periferie del corpo sociale. Il poeta, l'artista, l'intellettuale assurgevano riconosciuti portatori di quell'inutile tanto lussuoso da esser come il fuoco di Vesta, da custodire insieme con il privilegio di aver in seno alla società degli inviati extra. Ora si crea un tessuto di relazioni sociali (e meramente sociali!), per usufruire di ciò che viene rivestito in chiave pop, da meccanici zimbelli male assortiti, e su tutto uno spettacolo che gli intellettuali radical sono chiamati nella migliore delle ipotesi a certificare, mentre sono già superati da una categoria ove i riferimenti culturali non sono richiesti, bensì dannosi orpelli per le masse. I convitati della disgregazione hanno parole in codice, un preciso alfabeto e vigenti normative, in primis è più importante appropriarsi dell'ascoltatore, levigarlo a nome del pensiero dominante. Ogni pretesa fondativa va elusa, come ogni autentica peregrinazione nella scepsi, derisa. Vi sono due strade per sopravvivere: la creazione di nicchie autosufficienti per risorse ed energie interne e lo stento di autoderminarsi ogni giorno nella vocazione, soli. Noi sappiamo che è così per l'artista, pel poeta, è sempre stato così e sempre sarà così. Occorre però essere impietosi fino all'ultimo ed estrarre i campi di pertinenza: sospettare ogni organicità con i circoli culturali vigenti.

III

Un testo utile per le nostre trattazioni sarà Le illusioni del progresso di Georges Sorel, quivi si compie un viaggio alle origini dell'idea stessa di progresso, fino al suo compimento post-illuministico. Molto utile riportare una riflessione su Rousseau. Sorel nota come vi sia un "neologismo che colpisce Taine nel suo L'Ancien Regime: citoyen. Nel firmare i propri libri con il titolo 'citoyen de Genève'...Credo si dovrebbe tradurre con: uomo avente diritto al rispetto di tutti a causa del lavoro produttivo di cui fa beneficiare il suo paese". Poi ancora, in un altro passaggio: “con Rousseau i cittadini sono assimilabili nei principali atti della loro vita ad accorti mercanti” – l’identificazione è tale che bisognerebbe accavallare i due termini. Un cittadino della società ontologicamente fondata sui contratti, dovrà sempre avere qualcosa del mercante. La rivolta contro ciò che nella prospettiva orizzontale non si situa in ingranaggi di produttività materiale, qui è già pronta. Dove si piazzerà l'intellettuale vero (non quello che spalleggia l'andirivieni delle sole questioni sociali, ma quella pila carica che deve produrre nel silenzio, svincolato dai gravami materiali), in questa prospettiva?

Al mondo della sfera "politica" non interessa nemmeno dove possa situarsi, poiché il sistema di protezione capitalistico inghiotte nel rumore di fondo delle "opinioni", del livellamento, nel gioco di specchi ove si può dir tutto, tranne le cose realmente spiacevoli e affilate. Il vero filosofo, il vero poeta, il vero erudito sono sempre state Torri, ma nell'oggi v'è anche l'alta marea. Proust diceva che "sulla terra tutto complotta contro noi artisti, bisogna fare presto ad andarsene". Sulla prima parte ha certamente ragione, sulla seconda si può invertire la rotta solo rifondando la costituizione psichica dell'uomo, e non è materia d’una breve parentesi ideologica o di "movimento". Sempre Sorel comprende al meglio la questione:

"Ora i politici non si rivolgono più al pubblico colto per il quale scrissero i padri della democrazia; si rivolgono a categorie di persone che sono state sottoposte a un allenamento speciale e che sono plasmate allo scopo di ammirare gli oracoli che escono dalle loro bocche".

Da tutte queste illusioni del progresso siamo edotti sul corso degli eventi: i proletari come massa di consumatori, gli intellettuali in una casta sempre più anonima e "liquida", addetti a formazione e contro-informazione sull'opinionismo, integrati in processi manageriali in cui il giuoco del ribelle socialista effettuato magari poco prima, opera magiche trasmutazioni. La manipolazione inizia nel conio d'etichette e finisce con l'utilizzo compulsivo delle medesime da parte dei parlanti-tubi digerenti. La democrazia degli "specialisti": un passaggio che Sorel preconizzava, ma chissà se a vederlo oggi non accumulerebbe dati per nuove e brutali commistioni fagocitanti, tra caste e microcaste che costituiscono traino e ordinano i consumatori in colonne di autentici disvalori, nel volgare ciclopico. La classe intellettuale nel socialismo testimonia la pessimistica conclusione di un dato di fatto: non v’è redenzione utopistica agente a livello collettivo, per affrontare i problemi della Tecnica si pone l’urgenza d’un avamposto: solitari indagatori dell'Essere o ri-scopritori del “fare anima”originario. Un utopista bramante palingenesi appena la classe dominante vien spazzata da una rivoluzione, sarà tra i primi a fare blocco rivestendo il ruolo del programmatore a difesa del nuovo stadio della dimensione “politica”; mentre il silenzioso ricercatore, dovrà sempre esser disilluso sui cambiamenti, in nome di quelle domande radicali che escludono le illusioni del progresso.

Senza essere ovviamente nella direzione voluta dal socialismo riformatore dell’ingegnere-filosofo francese, riscontriamo Sorel come il ciclone che distrugge le prudenze cartesiane, ovvero ciò che viene propinato al pubblico, il quale "detesta soprattutto quelle opere che potrebbero turbare la sua pace abituale". Si è passati oltre questo quietismo piccolo borghese: da un riferimento d'evidenza e chiarezza cartesiana (parametri di difesa contro il mistero e l’insorgenza dell’arcano), ad una pulsione dopolavoristica che sottende l'"entusiasmo come catena di montaggio" (ci direbbe Carmelo Bene), ovvero: dal bisogno di un necessario appiglio in rette e coordinate ad un adagiare le pulsioni dell'enorme classe media in poltiglia retorica, influenza di basso continuo, sulle parti del ventre umano. In ogni epoca sono esistite le forme bieche di approccio alla cultura (per Sorel l’intellettuale era comunque il buffone delle corti, prima di diventare il portavoce della borghesia dominante del suo tempo, ma la nostra ricerca non è sull’intellettuale che vive parassitario, quanto sul singolo ricercatore nell’ombra e nel silenzio), ma è inconcepibile quanto le iperspecializzazioni abbiano trionfato sulla drittura d’una visione universalistica. Oggi il sogno dell'Uomo Universale goethiano è all'opposto stato vinto dal conformismo, appiattito in un processo di ritorno alla natura di Rousseau, e ancora indietro. Non vi è un solo processo autentico di selezione che non sia figlio dell'inserimento dell'umanità a compartimenti stagni, nel luogo di competenza settoriale. Il mondo del commercio heideggeriano: l’Umgang, ovvero la modalità esistenziale con cui si scruta circospetti per utilizzare; ciò obnubila l’apertura, l’Erschlossenheit, la forma originaria della verità come disvelamento dell’Esserci a stesso.

Si giunse agli ultimi lapilli prima del Tramonto tra le macerie dell'Otto e Novecento, il periodo degli spleenetici, pur l’epoca del Martello nietzscheano. Si misero a rapporto con la storia i conti da fare col cristianesimo, si lanciarono i semi per una tabula rasa sopra l’enorme peso della decadenza. Nietzsche previde tutto il carico asfissiante del nichilismo, un veleno persistente che è ormai lo stato normale delle cose. La ricetta nietzscheana avrebbe potuto instillare in primis quel "pathos della distanza", quella disillusione a diga concreta per l'avanzata post-illuministica, con tutto il suo corollario. Invece la più grande delle illusioni permea l'Occidente: che si dia soluzione all'ingiustiza del mondo donando a tutti gli stessi strumenti, in senso virtuale e consolatorio! La scuola (per non parlare delle scuole per scrittori!) è un pascolo dove si riduce e si comprime il meglio delle potenzialità dell'individuo. L'autenticità autoriale - ovvero il porsi in modo genuino e originario, farsi tramite scartando l'egotismo, è il contrario di ciò che sta avvenendo nei circoli ove si dice di far cultura al giorno d'oggi. Persino un liberale come Tocqueville comprese a sufficienza l'insanabilità tra il principio d'uguaglianza e quello di libertà...

Altro sintomo della funzionalità circolare dei valori occidentali nella spirale del pensiero debole è la corsa, l'ansia, la nevrosi per il commento ficcante sull'attualità. Da consegnare subito in pacco regalo. La storia, la vita, l'esperienza insegnano altro: il giornalismo è la storia del pre-giudizio, atto diveniente pre-formativo d'impulsi per antiriflessivi ripetitori. La differenza tra il ri-ferimento dei fatti e la scrittura come fattore di fissazione di “stati” e operazione artistica, non avrà bisogno di tante altre evidenze oltre a questa così ben tracciata da Sorel:

Chi lavora con paziente minuzia i propri scritti si rivolge volontariamente a un pubblico ristretto; gli altri scrivono per i caffè-concerto e per i giornali; ci sono ora due clientele ben distinte e due generi di letteratura che non si confondono...Noi vogliamo che si sia un poeta che si preoccupa della propria arte o un arrangiatore di ritornelli popolari per l'Eldorado...".

Il Quarto Stato è lasciato vagare senza senno tra gli spettri e le rimanenze delle caste superiori. Citeremo l'Evola di un articolo intitolato programmaticamente Sulla caduta dell'idea di Stato (Lo Stato, n.2, febbraio 1934):

"Il Quarto Stato è disanimato e il suo scopo è la disanimazione della vita, della società, della stessa interiorità umana: e tali, dopo lo standardismo e il taylorismo americano, sono i fini perseguiti dalla cosiddetta “purificazione proletaria» dai residui dell’Io borghese e dal cosiddetto messianismo tecnico sovietico. D’altronde, estraendo dalla forma mitica il contenuto reale, rivolgimenti del genere furono preveduti in più di un insegnamento tradizionale. Se l’Edda profetizza «giorni amari» in cui gli esseri della terra — gli Elementarwesen proromperanno a travolgere le forze divine e i «figli di Muspell» spezzeranno l’arco Bifròst che unisce cielo a terra (si ricordi l’anzidetto simbolismo della funzione pontificale della sovranità quale facitrice di ponti), un tema analogo si trova per esempio nella leggenda che, da tempi remoti, giunse nel Medioevo e vi costituì una specie di leitmotiv: la leggenda delle genti «demoniche» di Gog e Magog che, spezzando la simbolica muraglia di ferro con cui una figura imperiale aveva loro sbarrata la via (simbolo per i limiti tradizionali e per l’ideale dello Stato quale kosmos vittorioso su chaos), proromperanno per cercar di vincere l’ultima battaglia e impadronirsi di tutte le potenze della terra. D’altra parte, già accennammo che secondo la tradizione indoariana il Kali Yuga, o età oscura, sarebbe caratterizzato dal predominare della casta dei servi, dal prorompere di una razza di barbari senza fede, «intenti a apprezzare la terra solo per i tesori che essa contiene»(VishnuPurana)".

Oggi la vita non è degna di esser vissuta gomito a gomito senza un preciso senso della differenza, della distanza e della gerarchia, oggi la parola aristocrazia perde appiglio con quel che risuona d’originario in essa, è figlia dell’irrisione che già svuotava il mondo delle corti. Il mondo è spellato vivo dal suo senso per questa schiavitù del ciclo delle nascite, proprio come definì Ortega y Gasset la cosa ne Il tema del nostro tempo: “ogni generazione è una specie di proiettile biologico lanciato nello spazio in un istante preciso, con una forza e una direzione determinante”. L'iniziazione somma dell'epoca è un contratto di lavoro, il tempo ridotto a lineare fuga di sé - e ciò che smalta il nulla delle valvole di sfogo settimanali (calcio, politica, tv) viene fatto circolare come il primo stupefacente. Conchiudiamo così ancora con Nietzsche, il quale definiva la storia dell’educazione (della cosiddetta educazione superiore) come la storia dei narcotici.

Stefano Eugenio Bona

La polemica tra i due versanti – Antonio Filippini

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I due versanti di cui si parla rappresentano l’aspetto personale e impersonale della divinità, o, se si vuole, del Principio supremo, o di Dio o di qualsiasi altra definizione. In Oriente è molto diffusa la descrizione con termini negativi del Principio supremo, perché definire significa circoscrivere e porre un limite, e si pone un limite a ciò che è di là da ogni limite, allora si preferisce definire i limiti a cui il Principio supremo non è soggetto; il Non-Essere, per esempio, non è il puro nulla, ma è ciò che sta di là dallo stesso Essere e perciò non è soggetto ai suoi stessi limiti. Nell’aspetto personale della divinità il Dio è dato come una Persona e si finisce per immaginarsi questa Persona in forma umana con tanto di sentimenti, desideri e vizi umani. Nel versante impersonale non è che si neghi l’aspetto personale o il Dio-Persona, solo che non interessa tale versione, né interessa stabilire rapporti personali e sentimentali con il Padreterno, si è più interessati all’aspetto impersonale, che si traduce nell’interesse verso la valenza realizzativa del Dio, che si mira ad assumere per identificazione. Naturalmente fomentare antagonismo, reattività e competizione tra i due versanti è cosa da non fare, perché entrambi i versanti hanno la loro ragione d’essere e entrambi soffrono dei limiti, anche se poi i versanti, in quanto tali, vanno soggetti alla logica dell’illuminare e del tenere in ombra, che significa gestire attivamente o lasciare passivo. C’è chi illumina l’aspetto personale lasciando in ombra quello impersonale e altri fanno l’opposto; ciò che non si deve fare è demonizzare il versante opposto accusandolo di essere male, perché i due versanti della montagna non sono soggetti alla logica del bene e del male.

Finché si è nell’Universo si andrà soggetti alla logica interno-esterno, una logica che a molti può apparire illusoria ma che ha la sua sottile ragion d’essere, una logica che assomiglia un po’ a quella esistente tra il Macrocosmo e il Microcosmo. Dal punto di vista metafisico, esterno e interno sono due proiezioni diverse di una medesima realtà, però possono anche derivare da due punti di vista opposti ma complementari, perciò una qualsiasi cosa che esiste all’esterno avrà un suo corrispondente interno e viceversa, tenendo presente che si tratta di proiezione analogica e non di rapporto meccanico. Un Dio collocato all’esterno implica che anche noi nel nostro interno possediamo un principio divino, e se si ammette prima l’esistenza di questo, allora non vi è motivo di negare l’esistenza di quello. C’è chi si riferisce al Dio esterno e questi sono i personalisti e i devozionali, altri si riferiscono al Dio interno e questi sono gli impersonalisti e gli intellettivi. A ben vedere, siccome il punto di partenza per entrambi i fronti è l’io, in entrambi i casi questo Dio, che si tratti del Dio esterno o del Dio interno, è equidistante e “separato” dall’io, poiché l’io, in quanto io, non è Dio, e in entrambi i fronti la “realizzazione spirituale” implica sempre il trascendimento del proprio io e non l’adattamento del Dio al proprio io. I due fronti devono smetterla di strumentalizzare e deformare certe verità allo scopo di tirare acqua al proprio mulino, perché hanno entrambi le loro buone ragioni ma possono avere anche i loro bravi torti!

La ragione dei devozionali sta nel fatto che “il più non può derivare dal meno”, quando c’è di mezzo il fattore essenziale non si può procedere a ritroso, o come dicono i devozionali, non si può andare in paradiso tirandosi per i capelli, né saziare la fame leccando un pane dipinto, solo che i devozionali strumentalizzano questa verità allo scopo di imporre l’imperio della fede e della devozione. Noi abbiamo certo a disposizione tutto l’occorrente, ma se le nostre essenze superiori sono spente, pur esistendo, è come se non esistessero, esistono solo come semplice possibilità, per rendere operative le quali, occorre esserne all’altezza in modo da “sintonizzarsi” con quelle che sono già accese. La pretesa di certi “autorealizzatori” di realizzarsi da sé stessi e per mezzo dell’io, questa è certo una pretesa assurda, è come pretendere che la corrente che accende una lampadina sia in grado di accendere tutte le luci di una città. Che ci si riferisca al Dio interno o al Dio esterno, l’io va comunque sempre trasceso, qui sta il difficile, perché noi poggiamo necessariamente sull’io individuale, questo è il nostro punto di partenza, ma dobbiamo portarci oltre questo io, dobbiamo servirci dell’io per trascendere l’io, il quale non è per niente contento di farsi trascendere, resiste e crea degli ostacoli e tende a deviare in orizzontale la tensione verticale; se si aggiunge che l’io con cui noi ci identifichiamo non è il riflesso giusto del nostro Spirito ma è il riflesso perverso (il reattivo antagonista), si può capire la difficoltà dell’impresa. Il nostro io deve “convertirsi”, che per i devozionali significa piegare le ginocchia nei confronti del Dio-Persona, mentre per i non devozionali significa mutare orientamento e atteggiamento, in guisa del fatto che quando con la macchina entri in un vicolo cieco, c’è poco da fare, devi “convertire” la direzione di marcia, poiché la condizione individuale è a suo modo un vicolo cieco, le possibilità superiori di sviluppo sono offerte solo dal sovraindividuale.

Tutto quanto riguarda l’essenziale e il qualitativo si trasmette da essere vivente a essere vivente, per esempio: noi siamo diventati coscienti perché siamo stati allevati da esseri coscienti, fossimo stati allevati da animali, saremmo diventati animali, e da macchine, saremmo diventati macchine. Non basta il fatto che noi potenzialmente possediamo nel nostro interno tutto l’occorrente, ma se questo è spento, l’unica possibilità che abbiamo di accenderlo è di entrare nella sfera d’influenza di coloro che invece lo hanno acceso. Noi possiamo “iniziarci” e “realizzarci” ai livelli superiori perché all’apice di tutto c’è quel “grande iniziatore” chiamato Dio o in vari altri modi che è già un “realizzato” per conto suo, e per questo può trasfondere la “realizzazione” anche ai livelli gerarchici sottostanti.È da questo punto di vista che i devozionali hanno ragione, mentre il loro torto sta nella loro assurda pretesa di rendere obbligatori, per ragioni di “salvezza”, la fede e la devozione e anche il Dio-Persona. Invece se salva la fede, salverà pure l’intelletto (quello del Guenon, non certo quello di Hegel); se salva il Dio-Persona sentito come esterno, allora salverà pure il Dio impersonale interno. I cristiano-cattolici invece di cercare accomodamenti unitivi con i protestanti e altre fedi, farebbero meglio ad “accomodarsi” con il versante impersonale, ma tant’è, costoro sono talmente prevenuti contro gli impersonalisti che preferiscono avere a che fare con il male (il reattivo antagonista) piuttosto che con il loro opposto complementare. I cristiani non si rendono conto che la scelta se liberare Cristo o Barabba attualmente vale anche per loro, perché tale scelta può assumere il significato di scelta tra l’opposto complementare (che è un altro tipo di bene), o il contrario dialettico (che è il male).

Si è già visto che “il più non può derivare dal meno”, che tradotto in pratica significa che non è possibile “fabbricarsi” stati superiori dell’essere o ordini superiori di realtà partendo dal basso; partendo da una condizione inferiore si può solo “accedere”, “risvegliare”, “elevarsi” a queste valenze superiori che devono essere già presenti, che anche se sono sentite come “interne”, non sono affatto nostre, perché l’io, il mio, il tuo, il nostro, il vostro e il loro non hanno alcun senso negli stati superiori dell’Essere, queste sono cose che hanno senso solo per la condizione individuale. A questi stati o ordini superiori di realtà si tratta di “metterci dentro” la propria coscienza, la pretesa “autorealizzazione” riguarda solo la propria via personale al risveglio e il modo di “sentire” queste valenze superiori, non può riguardare in alcun modo queste ultime, che “sono ciò che sono” comunque. La polemica tra i due fronti riguarda solo il modo di accedere e di risvegliare queste valenze superiori, ma è una polemica che è più filosofica (nel senso deteriore del termine) che metafisica. Il parlare di “autorealizzazione” e di “scienza dell’io” è già una cosa fuorviante, perché tende a suscitare impressioni e deduzioni sbagliate. L’“autorealizzazione” rimanda al “self made man”, l’uomo che si è fatto da solo, mentre la “scienza dell’io” carica troppo l’io, facendo credere che l’io sia il gran dio che tutto è in grado di realizzare, mentre è solo una proiezione secondaria di una valenza più elevata. L’“autorealizzazione” implicherebbe risvegliare da noi stessi queste valenze superiori, senza la presenza e l’influenza esercitata da questi stati superiori già realizzati, una cosa impossibile, sia per l’impossibilità di isolarci completamente da queste influenze superiori, sia perché, quand’anche fosse possibile farlo, questo determinerebbe l’impossibilità assoluta di realizzazioni superiori. Per quanto si studino raffinate tecniche di risveglio o di magismo operativo, non si può prescindere dai due fattori fondamentali descritti: queste valenze superiori devono essere già presenti e qualcuno deve averle già realizzate; il “risveglio” implica entrare nella sfera d’influenza di tali valenze e la “realizzazione” implica la capacità di essere operativi in tali ordini di realtà superiori. Dal basso si può solo raffinare sempre di più la propria coscienza e rendere sempre più etereo e sottile il senso interno, in modo che cominci a captare quelle influenze superiori. È l’inferiore che deve adeguarsi al modo d’essere del superiore (se vuole ascendere) e non viceversa, perciò non è il caso di mettersi sulla cattiva strada dell’ebraismo, che per mezzo di una certa ritualistica vuole costringere il suo dio a concedere loro privilegi; questa è già inversione gerarchica e un ragionare a rovescio, e la cosa può ottenere effetti solo se all’inizio c’è stato qualcuno dotato di potere reale che ha collegato questo suo potere a quella determinata azione rituale, in modo che, eseguendo questa, si evoca fatalmente quello, ma è pur sempre un basso magismo, e questi collegamenti e reazioni automatiche mal si addicono alle valenze superiori dell’Essere, né all’Essere stesso. Si tratta di maneggi dei “teurghi” (Mosè è uno di loro), sorta di “maghi” o “adepti” che coi loro poteri e servendosi dello psichismo collettivo “fabbricano” delle entità demiurgiche. Il “demiurgo” è un dio che è in rapporto di dipendenza con il manifesto esteriore e che non potrebbe nemmeno esistere senza questo esteriore, nel caso degli ebrei, interdipende dal popolo ebraico e dalla sua fede, da qui l’esclusivismo tipico di questa razza che, per inverso, mira a corrodere, degradare e imbastardire tutte le altre razze, specialmente la bianca, oltre che a mirare a dominare l’intero pianeta, perché questo è imposto dall’esclusivismo del loro demiurgo.

Noi siamo Dio? L’uomo e Dio sono la stessa cosa? La deificazione dell’uomo? Si tratta di affermazioni assurde che non vogliono dire nulla, derivanti da impostazioni sbagliate e molto probabilmente “suggerite” dall’io umano che piega tutto verso di sé perché non vuole lasciarsi trascendere, o da chi manca del senso della misura, delle proporzioni, della distanza e pure del buon senso! Sono essenzialmente di tipo immanentista e seguono una logica, secondo la quale, “l’acqua è bagnata perciò tutto quanto è immerso o toccato dall’acqua sarà bagnato”! Dicono che noi possediamo un principio divino, questo principio divino è in noi stessi e quindi non dobbiamo cercarlo all’esterno, ma anche questa è un’impostazione sbagliata, perché in primo luogo questo principio divino non appartiene a nessuno, tantomeno all’io corporeo, è presente, c’è (nel suo ordine di realtà) ed è ciò che è, in noi esiste solo la possibilità di elevarsi a questo principio, se ci mettiamo dentro la nostra coscienza possiamo usufruire delle sue possibilità, ma per fare questo dobbiamo elevare la nostra coscienza e la nostra sensibilità interiore al suo livello, e non certo abbassare la realtà di questo principio alla nostra condizione esistenziale. Si deve avere in vista l’intera sequenza del processo creativo, un qualsiasi elemento di questo processo, volendo, ha la possibilità di risalire la catena creativa, ma per poter fare questo, deve mollare la presa dalla condizione inferiore. Il mattone che fa parte di un edificio che dice: “Io e l’architetto siamo una cosa sola, siamo la stessa cosa” commette un’arbitrarietà, è solo l’architetto (il principio superiore) che può dire: “Io sono anche il mattone e l’edificio”, però aggiungerà pure: “non sono “soltanto” questo, perché io sono anche “altro”. Certe affermazioni sono nell’esclusivo interesse dell’elemento inferiore, se messe in bocca al fattore superiore sarebbero un puro masochismo. Una 500 può dire fin che vuole che lei e la Ferrari sono una cosa sola, ma la “distanza” tra le due parla da sola, d’altronde se uno ha la possibilità di essere una Ferrari, per quale motivo dovrebbe identificarsi con una 500? In nome del mito del “tutto è uno”?

Tratto dal libro:«Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo», di Julius Evola. Edizioni Mediterranee, capitolo «Critica del teosofismo»:

Come nella tradizione cattolica vi è un limite ben netto fra ordine temporale e ordine eterno, così nelle tradizioni orientali vi è una netta distinzione fra la serie sterminata di possibilità e di «rinascite» subordinate al divenire e al desiderio (possibilità che comprendono tanto stati «divini» che stati umani e «infernali») e la vera liberazione. Quella serie è raffigurata da un perpetuo circolo (concetto, che si ritrova nella tradizione ellenica, e qui ogni «progresso» è illusorio, il modo di essere non cambia sostanzialmente anche quando si raggiungano forme di esistenza ben oltre il livello comune. La liberazione corrisponde invece ad una via eccezionale, «verticale» e "sovrannaturale", egualmente lontana e egualmente vicina rispetto a qualsiasi punto del divenire e del tempo. Il teosofismo abolisce invece questa opposizione: i due termini sono posti sullo stesso piano; lo scopo supremoè concepito come la fine di uno sviluppo «evolutivo» attraverso il mondo condizionato e una serie sterminata di rinascite. Cosi là dove esso parla di uno sviluppo, non è l'anima personale che esso può avere in vista, ma piuttosto il ceppo naturale e animale dell'«umanità», e il suo «spiritualismo», in fondo, si riduce ad una appendice mistica alle utopie di progresso sociale collettivo con quelle sue esigenze e preoccupazioni che, da un punto di vista superiore, ci sembrano più degne del nome di zootecnica che non di etica. Quanto poi all’ «ego» immortale regalato a ciascuno, esso è proprio ciò che occorre per addormentare, per distogliere dalla realtà dell'alternativa: salvazione o perdizione che è da sciogliere in questa esistenza - per precludere dunque la via della liberazione vera.

Un tale spirito antisovrannaturalistico del teosofismo non traspare solo qui. Fra i principi sostenuti dal movimento vi è quello dell'immanenza della «Vita Una» in ogni forma e in ogni essere, evi è, in pari tempo, quello del compito, per i singoli «ego», di conquistare una au¬tocoscienza indipendente. Con una strana applicazione dei concetti antiaristocratici proprî a certe nuove morali, si è perfino parlato di una rinuncia alla divinità primitiva, che si «possedeva senza merito», per poi riconquistarsela... «meritatamente» attraverso la lotta e le dure esperienze delle reiterate immersioni nella «materia». Il che, nel teosofismo riformato dello Steiner, corrisponde ad un vero e proprio piano, nel quale «Arimane» e «Lucifero» sono stati debitamente arruolati. Pensate a fondo, queste vedute dovrebbero portare come logica conseguenza che quella «Vita Una» - - cioè l'aspetto «uno» della Vita — rappresenta il «meno», il substrato, o materia prima, dal quale ogni essere, formandosi, dovrebbe differenziarsi come un principio distinto; ponendo dunque co¬me valore appunto una legge di differenza e di articolazione. Invece no: la «Vita Una» diviene lo scopo, la perfezione. Malgrado i vari richiami alle vie tradizionali di conquista sopra-umana e l'armamentario occultistico raccolto dalle fonti più varie, l'idea dello sviluppo nel teosofismo si colora di tinte mistiche e inclina verso la dire-zione degenerescente di un semplice fondersi col substrato della «Vita Una» indifferenziata respingendo l'«illusione della separatività» e dell'«ego». Anche qui, si tratta di confusioni che procedono dall'incomprensione di un insegnamento metafisico appena intravisto: poiché la nozione puramente metafisica della «Identità suprema» non ha nulla a che fare con quella della «Vita Una». È un grave errore, peraltro parimenti commesso da certe correnti neo-vedàntine attuali, distinte dal teosofismo e rifacentesi direttamente agli insegnamenti indiscriminati di alcuni guru di oggi, epigoni dell'induismo, scambiare anche l'Uno panteistico promiscuo, in cui, per dirla con Hegel, tutto diviene uguale come nella «notte dove tutte le vacche sono nere», con l'Uno metafisico che è l'apice integratore di un insieme ben articolato, differenziato e ordinato di forme, di un «Cosmo» nel senso greco.

Antonio Filippini

Studi Evoliani 2016: novità sul pensiero e la biografia di Evola – Giacomo Rossi

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La Fondazione Evola, anche quest’anno, ha dato alle stampe il proprio Annuario. Si tratta di Studi Evoliani 2016. Evola e la cultura tedesca, nelle librerie per i tipi della Fondazione Evola-Arktos (per ordini: info@edizioniarktos.it, euro 22,00). Negli anni scorsi si era registrato qualche ritardo nella periodicità della pubblicazione, ora il tempo è stato recuperato, per cui nel 2018 verrà regolarmente distribuito il numero del 2017, già in preparazione. La prima sezione del volume raccoglie le relazioni degli studiosi che, nel dicembre 2016, a Roma, si incontrarono per il convegno dedicato alla discussione del tema “Evola e la cultura tedesca”. Giovanni Sessa, nel suo scritto, individua nell’idealtipo della “Germania segreta”, di cui sotto il profilo storico si è esemplarmente interessato Ernst Kantorowicz, lo strumento di riferimento di cui il filosofo romano si è avvalso nel suo attraversamento della cultura tedesca. Giovanni Perez, curatore del volume che raccoglie gli scritti evoliani dedicati a Nietzsche, illustra il suo approccio al pensatore tedesco. Massimo Donà, docente di filosofia teoretica presso l’Università “San Raffaele” di Milano, legge in modo inusuale i rapporti Evola-Jünger, servendosi di ampia documentazione, mentre il prof. Antonio Caracciolo, già docente di Filosofia del diritto alla ‘Sapienza’ e traduttore di Schmitt, discute i rapporti tra il tradizionalista e il giurista.

Per rilevanza biografica dobbiamo segnalare lo scritto dell’avvocato cassazionista Luigi Morrone che, alla luce di vasta documentazione reperita nel Fondo Somenzi, custodito presso l’Archivio del ‘900 del MART, museo di Rovereto, smentisce quanto finora sostenuto sul caso “Evola-Danzi”. Tra i documenti consultati ed inediti, vi sono quelli riguardanti il processo che vide coinvolti i due personaggi, nel novembre 1930. Somenzi, futurista e sodale di Danzi, fu parte in causa nella contesa. Dalla documentazione acquisita risulta che non fu Danzi ad adire le vie legali contro il “vigliacco” Evola, che rifiutò il duello. Al contrario, il processo fu intentato contro Danzi perché il giornalista aveva osato, non potendolo fare a norma di codice, lanciare il cartello di sfida. Inoltre, questi, nella circostanza, diffamò Evola attraverso una lettera circolare. Danzi e Somenzi furono condannati ad un risarcimento pecuniario per i danni causati ad Evola. La situazione è dunque l’esatto contrario di come era stata presentata sino al momento della scoperta di questo nuovo materiale. Morrone chiarisce ogni aspetto della vicenda dal punto di vista storico-giuridico, discute i documenti del processo e individua, con estrema meticolosità, le ragioni giuridiche ostative alla degradazione di Evola per il rifiuto della sfida a duello. La degradazione può plausibilmente essere imputata al dissenso politico nei confronti del Regime manifestato da Evola negli scritti de La Torre. Evola non fu un “vigliacco”, come da più parti si è sostenuto, in quanto non esiste alcuna correlazione tra il mancato duello e la degradazione. Va ricordato anche un altro saggio dell’Annuario, dovuto a Fabrizio Giorgio. Lo studioso ricostruisce attraverso lettere, documenti, testi di natura disparata, la vita e le opere di Evelino Leonardi, nonché i suoi rapporti con Evola. Leonardi va annoverato tra gli esponenti, nell’Italia di allora, della teoria italo-atlantidea. Personaggio versatile ed eterodosso, poco conosciuto dal grande pubblico, la cui biografia intellettuale-spirituale è ricostruita da Giorgio attraverso la presentazione dei tratti salienti delle sue tesi archeologiche, legate alle cosiddette “scienze di confine”, che tanto interessarono anche il tradizionalista.

Quanti, negli anni scorsi, hanno irriso Evola a proposito della veridicità delle giovanili intenzioni suicide, dovranno ricredersi. Lo dimostra Alessio de Giglio nel suo scritto. In queste pagine si evince un’evidente concordanza fra testi evoliani apparsi sulla rivista Ur, chiarificatori del senso effettivo da attribuirsi all’espressione “suicidio metafisico”, che poco, come il lettore potrà constatare, ha a che fare con un suicidio effettivo. Dall’annuario si viene a conoscenza di un’altra significativa ed inaspettata novità: una voce dedicata ad Evola compare nel Nuovo Dizionario di Mistica, pubblicato, nientemeno, che dalla Libreria Editrice Vaticana. I “nemici di sempre” si interessano ad Evola! La cosa è stata già sottolineata dai critici, soprattutto perché padre Stéphane Oppes OFM, pur incorrendo in qualche veniale svista biografica, complessivamente esprime un giudizio positivo sulla “mistica” evoliana. Dopo la riproduzione della voce redatta dal docente dell’Antonianum di Roma, a proposito della presunta “mistica” evoliana, nel volume trovano spazio gli interventi chiarificatori e le messe a punto in tema di Nuccio D’Anna e Giovanni Sessa. Anche questo episodio conferma, una volta di più, l’impossibilità di ridurre Evola a sterile “immaginetta” sezionale, ad uso e consumo di adoratori superficiali, dato lo spessore della sua proposta e, naturalmente, non si tratta di nessun cedimento della Fondazione alla “neo-sovversione cristiana”, come qualche malevolo osservatore ha voluto asserire.

La sezione saggi è arricchita dal contributo di Giandomenico Casalino, inerente l’esegesi evoliana del pitagorismo, nonché dallo scritto di ambito estetico di Vitaldo Conte, relativo al dada-pensiero evoliano, argomento che il docente dell’Accademia di Roma sta approfondendo da anni. La novità di Studi Evoliani 2016 va colta anche nella sezione, Un filosofo in guerra, in cui compaiono alcune delle recensioni relative all’ultimo libro che il Segretario della Fondazione, Gianfranco de Turris, ha dedicato al filosofo ed uscito per i tipi di Mursia. Il volume ha avuto, in poco tempo, dato il successo di pubblico e di critica, due ristampe e due edizioni, ma già se ne annuncia una terza, arricchita di nuovi documenti e rivelazioni su due anni cruciali, per Evola, l’Europa ed il mondo, il biennio 1943-1945. Era opportuno, quindi, presentare una documentazione degli interventi più significativi prodotti sul libro . La parte conclusiva dell’Annuario contiene la sezione “Rassegne”, che raccoglie una serie di recensioni dedicate a pubblicazioni di argomento evoliano o di indirizzo tradizionale. Studi Evoliani 2016 dimostra quanto intenso sia il lavoro messo in campo dalla Fondazione per diffondere, come stabilito dal suo statuto, l’opera e il pensiero di Julius Evola.

  Giacomo Rossi

Sul Gruppo di Ur e la Tradizione di Roma – prima parte – Luca Valentini

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Ognuno deve partecipare alla catena come una individualità, come una forza distinta” (Istruzione di catena, Introduzione alla Magia, vol. II, Edizioni Mediterranee, Roma 1987, p. 38)

Quando si ebbe l’idea e sorse la concreta intenzione con gli amici dell’associazione culturale di Napoli Il Cervo Bianco di dedicare gli studi del III Simposio internazionale di studi ermetici al 90° anniversario del Gruppo di Ur, fu già messo in contatto che prima e dopo tale manifestazione (che ha visto la gioiosa partecipazione di 200 persone provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa) si sarebbe scatenata la gara all’appropriazione indebita, intellettualmente intesa, tra le varie sette neoevangeliche del neospiritualismo italiano. Quando scientemente si pone in essere un’operazione di riscoperta dottrinaria, operativa e documentale di uno dei più famosi sodalizi esoterici italiani del ‘900, evidenziando la caratura prismatica, cioè compartecipativa di più filoni diversificati dell’esoterismo italiano, ed a-religiosa di tale esperienza, è quasi fisiologico che i dogmatici del sottobosco di natura cristianeggiante o neopagano abbiano un fastidioso travaso di bile, perché ogni falsa legittimazione viene a sciogliersi come neve al sole e perché emerge inevitabilmente la natura devozionale e mistica di un novello approccio al Sacro, che molto sa di moderno e poco di arcaico.

In questo nostro scritto che si comporrà di due parti, infatti, ci occuperemo prima del rapporto reale che Ur ebbe con la Tradizione di Roma e successivamente delle esperienze associative del dopoguerra che ebbero, vollero o provarono a perseguire un medesimo indirizzo realizzativo, e non per uno sterile spirito polemico, ma per riconsegnare l’autorità in tali materie agli unici riferimenti che ne possono essere autentici depositari ovvero le fonti, gli scritti, le testimonianze dirette, tralasciando le panzane di taluni che ogni tanto, urbi et orbi, online su facebook, si autoproclamano detentori della vera sapienza iniziatica o della vera tradizione romana. Nel merito, se è vero che nell’ambito delle monografie e della catena operativa di Ur riemerse uno specifico connotato pagano e bene intendersi sui termini e sui significati che i protagonisti assegnarono agli stessi termini. Il direttore della rivista, Julius Evola, nella sua autobiografia spirituale fu al quanto circostanziato nel sintetizzare il senso di tale sodalizio:

Tornando dunque al periodo in cui fu scritta l’edizione di Imperialismo pagano, questo libro uscì quando si era già costituito (al principio del 1927) il Gruppo di Ur (la parola Ur era tratta dalla radice arcaica del termine <<fuoco>>, ma vi era anche una sfumatura additiva, pel senso di <<primordiale>>, <<originario>>, che essa ha come prefisso in tedesco). Ciò che riporta al dominio dell’esoterismo. Già il Reghini, quale direttore della rivista Atanor e poi Ignis (due pubblicazioni che ebbero brevissima vita), si era proposto di trattare le discipline esoteriche e iniziatiche con serietà e rigore, con riferimenti a fonti autentiche e con uno spirito critico. Il Gruppo di Ur riprese la stessa esigenza, però accentuando maggiormente il lato pratico e sperimentale” (J. Evola, Il Cammino del Cinabro, Edizioni Mediterranee, Roma 2014, p. 157).

Dal nostro punto di vista già questo breve passo evoliano basterebbe a chiarire moli voluti malintesi su Ur, che si proponeva essere una realtà esoterica e non religiosa, che aveva nel proprio appellativo la volontà di riferirsi alla Tradizione nella sua dimensione trascendente ed originaria, senza un riferimento specifico ad una delle tante formulazioni storiche della stessa: in merito non si comprende, altrimenti, perché non si sia voluto dare come appellativo quello di “Gruppo di Cristo”, “Gruppo di Marte” oppure “Gruppo di Buddha”. Lo stesso Evola fu al quanto chiaro in merito:

Comprendiamo dunque perché Guénon dica che non si possa essere antireligiosi senza essere antitradizionali, ma non possiamo certamente seguirlo. Affermiamo invece il contrario, ossia che quanto prima gli occidentali si sbarazzeranno della «religiosità», tanto meglio sarà per essi, e tanto più prossima, forse, sarà una soluzione di salvezza sulla loro linea. Dinanzi alla «tradizione», arbitrariamente identificata ad un legame di carattere religioso, gli occidentali dovranno ben tenere ad essere «senza tradizione»; ma appunto in questo esser «senza tradizione» ne costituiranno una — improntata dal carattere libero, guerriero, nordico-mediterraneo una volta che il necessario contatto con ciò che nell'uomo va di là dall'uomo sia avvenuto” (EA, Sul “Sapienziale” e l’“Eroico” e sulla Tradizione Occidentale, n. 11-12 ANNO II di UR, novembre-dicembre 1928, ora ristampato da Arcana di Edit@ in Julius Evola, La Tradizione Occidentale…).

Dinanzi alle accuse di individualismo e magismo spurio di qualche pontefice marginalizzato, è possibile constatare come ci sono i testi a rispondere, ci sono le famose Istruzioni di Catena dello stesso Gruppo di Ur che si rendono chiarificatici, che denotano come la pratica, oltre la dottrina, fosse volta ad un risveglio individuale del singolo operatore (la nostra citazione d’incipit) tramite una maieutica tanto rituale tanto ascetico – meditativa, comune alle scuole che in Ur fornirono il proprio contributo: si pensi, per esempio, alla pratica del Sole di Mezzanotte che assumeva una valenza primaria sia nella scuola pitagorica (si rammenti il famoso esperimento di Reghini ed Armentano seduti al caffè), sia in quella antroposofica che in quella ermetica.

Ma, allora, cosa si volle intendere per Paganità? Il recupero da fonti frammentarie, incomplete (di ciò fu già testimone Varrone nel suo De Lingua Latina) di una religiosità popolare e privata? Nulla di tutto ciò albergava nella mente di Reghini, di Parise, dello stesso Evola. La prima risposta ci giunge dal Maestro di Arturo Reghini, cioè da Amedeo Rocco Armentano, quel Reghini che un giorno viene osannato come epigono della Roma pagana ed il giorno seguente osteggiato per aver ravvisato nella stessa una chiara matrice magico – pitagorica, di natura sapienziale:

“Imperialismo Pagano non significa un ritorno al Paganesimo, ma alla Romanità, cioè a quell’idea dell’Unità che nacque in Roma ma che è Universale ed Eterna…un movimento riallacciantesi sul serio all’antica sapienza pitagorica, occidentale e, più che mediterranea, tirrenica” (AR Armentano, in Le interviste ad Ara, Così tacque Pitagora, in Massime di Scienza Iniziatica, Ass. Culturale Ignis, Ancona 2004, p. 331).

Anche nelle parole di ARA ritorna il principio dell’universalità e della sapienzialità a-religiosa che veniva conferito alle loro esperienze iniziatiche, che per essere tali, appunto, non potevano presentare alcun connotato di misticismo. Oltre ad ARA, poi, la dimensione mediterranea riferita all’Imperialismo Pagano non presentava quei connotati religiosi e dogmatici tipici del neopaganesimo contemporaneo, se sempre lo stesso Reghini scriveva riferendosi a Cagliostro e Mosè:

…nella tradizione esoterica mediterranea (ebraica, cristiana, pagana ed ermetica) in relazione alla grande opera della rigenerazione iniziatica” (A. Reghini, Sulla quaresima iniziatica, Ignis, nr. 11-12 Novembre-Dicembre 1925).

In verità, il connotato misticheggiante non era caratteristica neanche della Roma Arcaica, se il più importante antropologo italiano nei suoi studi sulla classicità, ha potuto magistralmente notare come la cosmopoiesi prospettata della Civitas Romana come istituzione sacralmente e giuridicamente fondatrice di una visione nuova della vita, realizzasse un nuovo Patto con gli Dèi, potendo i Romani essere considerati “facitori” del Sacro, coloro che noeticamente poterono alchimicamente “costruirli”i Numi, in quanto espressione dell’anima del Popolo e la Patria non  essendo espressione di Divinità teisticamente distaccate nel trascendente:

Una specifica divinità nasce per la comunità che la onora…in coincidenza con la cerimonia pubblica che ne consacra il tempio e ne sancisce l’ingresso nella Città” (Maurizio Bettini, Déi e uomini nella Citta, Carocci Editore, Roma 2015, p. 21).

Si conosceva la Vis, in ambito di quella che era la “interpretatio deorum”, come metodo congetturale di trasposizione cultuale tra religiosità differenti, quale entità unica per il riconoscimento del Numenico. Essa era, è la natura interna del Dio, la conoscenza di esso, che non si configura tramite comparazioni formalistiche o cerimonialistiche, ma tramite la sperimentazione del proprio potere, l’identificazione con esso. Il rigorismo romano, cioè la pretesa secondo la quale ci fosse una norma immodificabile nei secoli, non solo è stato rigettato da un esimio studioso come John Scheid che ha scritto di “religioni romane” (Rito e religione dei Romani, Sestante Edizioni, Bergamo 2009), ma ha condotto a deliranti deduzioni secondo le quale neanche la riforma augustea, Virgilio o Macrobio potrebbero essere annoverati nel prisco purismo romano.

Sorge, a tal punto, un quadro al quanto in contrasto con certe ricostruzioni maldestre che pretendono che Ur fosse stata una manifestazione di un risorgente paganesimo di natura fideistica (si osservi, in merito, quanto fu stucchevole una certa polemica sulla celebre affermazione plutarchea sulla morte di Pan, che un ottundimento palese non può sospettare essere non la dichiarata morte del Divino, che è metafisicamente impossibile, ma la profonda difficoltà dell’uomo moderno di percepirlo come nei primordi), semplicemente perché il piano di riferimento, essendo essenzialmente di natura magica, ha paradigmi differenti rispetto alle litigiosità religiose, di cui il Sapiente magistralmente non si cura. Sempre in riferimento a Reghini ed alla Schola Italica spesso chiamati in causa a sproposito, si dovrebbe spiegare come mai il simbolo della stessa paganissima compagine sia stato San Giorgio, santo cristiano prefigurazione allegorica del Marte Romano, come mai in tutti i testi del Pitagorico fiorentino vi sia un continuo riferimento all’alchimia, alla cabala, come mai in un saggio di Giulio Parise (Luce, Le parole di Potenza e i caratteri degli enti, Ur 1927) , discepolo diretto del Reghini si presenti un’attenta descrizione della palingenesi in chiave cabalistica, o come nel rituale riportato dallo stesso Parise (Luce, Istruzioni di Magia Cerimoniale, Ur 1927) si operi l’invocazione dell’Arcangelo Solare usando il riferimento di Pietro d’Abano, lo stesso dei novizi myriamici nella pratica primaverile del rito d’Ariete, ma soprattutto in cui viene evocato il terribile spirito del deserto Adonay, spauracchio dei farisei pagani. E’ necessaria, a tal punto, una chiarificazione: o Reghini e Parise erano anch’essi posseduti da tale demone sublunare oppure il riferimento magico (le monografie di Ur si intitolano non casualmente Introduzione alla Magia e non come fanno intendere taluni Introduzione alla Religione oppure Introduzione al Paganesimo) declinava una portata originaria, primordiale, come ci ricordava all’inizio Evola, tale da trascendere ogni riferimento etnico – religioso, ma centrandosi appunto sull’Io, sul suo risveglio interiore e non su culti e preghiere. Qui si palesa un latente bipolarismo psicologico o una semplice malafede interpretativa. Oppure vi è stato un altro Arturo Reghini, di cui non abbiamo notizie, non essendo la stessa personalità che, non solo all’inizio degli anni ’40 aderì al kremmerziano Circolo Virgiliano di Roma, ma fu iniziato nel 1902 a Palermo al rito egizio di Memphis, ma soprattutto fu VI grado onorario dell’Ordo Templi Orientis di Aleister Crowley (R.A. Gilbert, Baphomet and Son: A Little Known Chapter in the life of 666, Holmes Pub Group 1997, p. 6; l’OTO figura anche tra le filiazioni affratellate del Rito Filosofico Italiano di Frosini, a cui furono iniziati sia Reghini che Armentano, come si evince dagli Annuali dello stesso RFI, vol. 1, Aprile 1913 ), oltre che tra i fondatori della Lega Teosofica Indipendente d’Italia.

D’altronde quando in Ur si accenna alla Paganità ci si riferisce al caldeo – egizio Giamblico, al neoplatonico Plotino (Massime di Saggezza Pagana, Krur 1929), ci si riferisce ad una Romanità Arcana (i saggi di Reghini sulla Tradizione Occidentale in Ur 1928, di Evola sul Sacro nella Tradizione romana in Krur 1929, del kremmerziano Abraxa sulla Magia della Vittoria in Krur 1929), in cui non vi sono Divinità da onorare o supplicare, ma ci sono forze interne da riconoscere e sperimentare:

Si può dunque parlare con diritto di una concezione attiva-intensiva del sacro, specificatamente romana…noi sappiamo anche che questi modi di una esperienza mediata e mitologizzata sono inferiori rispetto ad una esperienza diretta e assoluta, cioè senza forme e senza immagini…muta, essenziale” (Ea, Sul <<sacro>> nella Tradizione Romana, Krur 1929);

Sul piano della magia conoscerai un mondo ritornato allo stato libero, intensivo ed essenziale, in uno stato, in cui la natura non è natura, né, lo spirito, <<spirito>>, in cui non esistono né cose, né uomini, né ipostasi di <<dèi>> - ma poteri” (EA, Sulla visone magica della vita, Ur 1927).

Come predetto, le fonti e i documenti sono cristallini e non concedono spazio alle fantasiose ricostruzioni del neopaganesimo contemporaneo, adesso che anche il famoso affare Ekatlos (La scena e le quinte, Krur 1929) , dopo le ricerche di studiosi di vario orientamento, è stato ricondotto nell’ambito che le testimonianze dirette hanno qualificato, cioè l’ambiente ermetico della Roma dei primi anni del ‘900 e non casualmente un acuto studioso ha annotato:

...si sarebbero manifestate all' interno della Fratellanza Terapeutica di Myriam, fondata da Giuliano Kremmerz (cioè Ciro Formisano) - che la definì talvolta come Schola Italica - determinate influenze derivanti dall' antica tradizione romano – italica” (Renato Del Ponte, Il movimento tradizionalista romano nel Novecento, SeaR Edizioni, Scandiano 1987, p. 26).

Non è, infatti, casuale che un altro acuto studioso del tradizionalismo romano, quale è Sandro Consolato, nell’articolo “La Grande Guerra degli Esoteristi”, apparso sul settimanale Tempi, nello scorso Ottobre, abbia ricordato, oltre l’affare Ekatlos, come nell’ambito del mondo myriamico ci fosse “il rito del Pretium, forse di origine romana, comunque antichissimo ed assai complesso”, affidato da Kremmerz ai suoi sodali che partivano per il fronte, celato ora negli archivi della Fratellanza, appellando, inoltre, Reghini ed Armentano quali “nostri Magi”.

In questa prima parte, un ultimo chiarimento va posto in essere inerente la catena operativa di Ur. Sulla questione vari orientamenti si presentano, ma principalmente due visuali si contrappongono: l’interpretazione che ritiene la catena di Ur formata, come la rivista, dall’apporto di esoteristi di provenienza diversificata (pitagorici, kremmerziani, antroposofi, …) e la decifrazione che ritiene che essenzialmente la catena di Ur fosse stata coincidente con la catena pitagorica facente riferimento alla Schola Pitagorica. Noi non entreremo nel merito della questione sia perché non è questo l’ambito in cui si possa argomentare sufficientemente in merito sia perché la documentazione di accompagnamento che verrà prodotta nella pubblicazione degli atti del convengo di Napoli del 14 Ottobre 2017 su Ur reputiamo possa contribuire ad un notevole sviluppo della ricerca. Nel merito del nostro discorso, però, essendo la seconda interpretazione spesso usata ad usum delphini da chi vagheggia di una religiosità romana e pagana rediviva, è importante chiarire che quanto è conosciuto e posseduto in ambienti ermetici circa la ritualità attestata ed attribuita alla Schola Italica, di dottrinalmente confermato della stessa ci riconduce ad una prospettiva pitagorica, come preannunciato, ma soprattutto magico – rinascimentale. Nei testi di Giulio Guerrieri – esponente di massimo rilievo di tale filiazione -, della figlia Viviana, negli scritti di vari esponenti pitagorici riemerge la famosa palestra spirituale con pochissimi riti (anche con l’uso di salmi davidici) di reghiniana memoria, riemerge la pratica dell’estasi filosofale dello pseudo - Campanella (probabilmente Bruno), del quale a Torre Talao si conservavano raffigurazioni alle pareti, riemerge la passione per il cabalista Cornelio Agrippa a cui Reghini dedicò una splendida introduzione al De Occulta Philosophia, per l’alchimista Sendivogius, riemerge tra i componenti della catena pitagorica e di Ur un certo Procacci, definito “cabalista” ed “ebraista” (tutte le informazioni riportate si possono ritrovare in Roberto Sestito, Il figlio del Sole, vita e opere di Arturo Reghini, Associazione culturale Ignis, Ancona). Infine, quando si ricollega la filiazione italica - come fa anche Roberto Sestito in un modo però prudentemente saggio - ai cosiddetti Fratres Lucis, facendo intendere l’esistenza di chissà quale continuità romanissima e paganissima, ci si guarda bene dallo specificare la derivazione degli stessi Fratres Lucis, cioè inerente un latomismo anglosassone prettamente rosacrociano, cioè un po’ proto-cristiano come lo Steiner, su cui si argomenta spesso a sproposito.

Dopo tutto ciò ci si domanda, insieme ai tanti lettori di EreticaMente, dove emerge la tradizione avita di religiosa e mistica memoria? Forse semplicemente nella fantasia tolkieniana di chi abbisogna di una giustificazione, di una consacrazione che non vi è e non esiste e che andrebbe ricercata dall’Alto o nella pratica interiore e non rubacchiando a casa d’altri. Ur, pertanto, torni ad essere il riferimento della Scienza dell’Io, della trasmutazione animica, in senso interiormente ed ermeticamente romano, concependo tale aggettivo come una qualità dello spirito, come ha magistralmente esplicitato l’amico Giandomenico Casalino nei suoi saggi sul Nome Segreto di Roma e sul rapporto tra Tradizione Ermetica e Tradizione Romana (leggere anche gli scritti di Pio Filippani Ronconi in merito) e non come un formalismo neopaganeggiante di sfondo pretistico. Chi oggigiorno persegue una via sacrale alla Romanità ha tutta la libertà e la dignità di perseguirla, come fatto con scrupolo e profondità dagli amici fraterni dell’Ass. Tradizionale Pietas e dell’Ass. culturale Fons Perennis, che ai Sacra Privata, al Calendario, al “colere Deos” assegnano la doverosa dimensione introspettiva, coniugando la Tradizione Una quale espressione dello Spirito originario e primordiale. D'altronde, che l'Aeternitas Romae non potesse essere confinata in un passatismo esteta delle ceneri e non della sua perennità spirituale, avendo come unica opportunità di valorizzazione la dimensione magico - teurgica (senza, qui, entrare nel merito di ciò che tecnicamente accomuna ma anche differenzia questi due aggettivi), è ciò che un brillante Mario Basile ha espresso ultimamente sul sito Saturnia Tellus, in cui archeologia e filologia  siano intese come scienze necessarie (e quindi affidate agli specialisti delle materie e non ad avventurosi interpreti) ma non sufficienti alla comprensione dell'essenza viva ed intima della Romanità, che è fondamento magico - giuridico. Pertanto, la nostra devesi intendere non come un’accusa alla Romanità ma una strenua difesa della stessa, dal materialismo, dall’ateismo formalista, dalle sette marginali e sparute del neospiritualismo in cui il livore personale, l’invidia, l’isterismo anti – iniziatico manifestano l'infondatezza di una presunta  e senatoria gravitas romana, acquisita purtroppo solo sulle bacheche di facebook. Rispetto a tutto ciò, Ur segna una direzione semplicemente diversa:

"Sta bene attento e guarda in giro che non abbia a sentirci uno dei non iniziati. Questi sono coloro che credono che non ci sia niente altro se non quello che possono saldamente afferrare con le mani: ma azioni, generazioni, e tutto quello che è invisibile, non lo accettano come parte dell'Essere..."

(Platone, Teeteto, 155e) (continua…) Luca Valentini

Memorie di un covo, aria di rivoluzione – Mario Michele Merlino

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Ci si ritrovava, a sera, all’interno della sezione, ricavata tra i ruderi delle Terme di Traiano, al parco del Colle Oppio. A fumare delle sigarette aspre e comprate sciolte, tre o quattro, le più economiche, a bere gazzosa o vino di pessima qualità, che lasciava la bocca impastata e stringeva lo stomaco. Intitolata alle terre redente e perdute d’Istria e Dalmazia, ma da tutti noi chiamata ‘Il Covo’, a memoria di quello storico in via Paolo da Cannobio 35, dove c’era la redazione de Il Popolo d’Italia e la stanzetta del futuro Duce con la bandiera degli arditi alla parete e sulla scrivania revolver e bomba a mano. ‘… fra le grigie facciate tutte botteghe e finestre aperte nella greve atmosfera di quelle strade popolane che attraversa un rione angusto e senza respiro di piazze’, come Giorgio Pini lo descriveva nel 1984, egli che l’aveva condiviso. Ceduto negli anni Trenta alla Scuola di Mistica Fascista. Da dove tutto era cominciato e a cui noi si guardava con partecipe nostalgia. Aveva, in quei giorni d’ardenti passioni e storiche decisioni, ammonito Mussolini ‘I vinti avranno una storia, gli assenti no. … Chi tiene troppo alla sua pelle non andrà nelle trincee, ma non lo troverete certo nemmeno il giorno della battaglia nelle strade’. E così fu. E allora noi, ondate ormonali appagate da bastoni e barricate (a cui, nonostante tutto, rimango, anacronistico e patetico, fedele pur con gli occhi stanchi e il passo incerto), a confondere le nostre bravate davanti alle scuole e in piazza con lo squadrismo, i suoi BL 18 ‘bombe a mano e carezze col pugnal…’, a rendere la cronaca sciatta dei primi anni Sessanta simile alla storia di furore epico ed esaltante del nascente Fascismo.

La sezione appariva un sacrario, chiesa catacombale di una religione in armi. Due busti in bronzo del Duce che in quattro di noi si faticava a sollevare dal piedistallo ove erano collocati. Si raccontava che, il più pesante, l’avesse portato in spalla Zambo e con una mano in tasca stringendo la bomba a mano a difesa. Grande grosso i capelli ricci il volto di carnagione scura e i tratti robusti. Era stato bersagliere sul fronte russo, da cui era ritornato con i piedi congelati. Lento, di conseguenza, nei movimenti, ma di una forza prodigiosa. E di Fede, umile e intransigente. Quando il corpo di Mussolini venne restituito alla famiglia, a Predappio, un giornale svedese pubblicò due foto di Zambo (non ho mai conosciuto il suo vero nome) in ginocchio e il volto rigato di lacrime. Sotto, a didascalia, qualcosa del genere ‘il gigante buono piange il suo Duce’… Vestiva di stracci dormiva sulle panchine - solo nelle notti di particolare freddo stendeva le coperte sul biliardo della sezione – si lavava alle fontanelle. Ed era pronto a battersi. Una notte lo vidi togliersi il sangue, che gli colava da uno squarcio in testa, probabilmente da una bastonata, con l’acqua fredda della fontana. E, in altra occasione, prese me e un giovane profugo istriano a colpi di giubbotto arrotolato perché leggevamo a voce alta versi del poeta russo Vladimir Majakovskij ove s’inneggiava a Lenin. ‘Partigiani! Merde!’, lo sentimmo inveirci contro, mentre lesti ci si teneva alla larga in attesa che l’’ira funesta’ si calmasse.

Erano questo tipo di camerati che non ti arricchivano nelle conoscenze non ti davano indicazioni su come schierarsi di fronte alle dinamiche sociali e politiche non si distinguevano negli annosi e sovente sterili dibattiti a favore di Evola contro Gentile o tra nuovi pagani e cattolici osservanti e neppure, le più pragmatiche, scelte se restare fedele espressione ed eredi della Repubblica Sociale o aprirsi ad una Destra con monarchici e frange liberali. Erano però il cuore, forse la pancia, di un popolo che s’era illuso di poter essere grande – le bonifiche la conquista dell’Impero i milioni di baionette -, di poter essere pari agli Stati, l’Inghilterra in primis, che la facevano da padroni in Europa e nel mondo, e non si riconoscevano nel tradimento del 25 luglio e nella vergogna dell’8 settembre. Non c’era ragione storica o qualsiasi altra motivazione che potesse sradicarne il senso di appartenere ancora e sempre ad una comunità ideale, quella che s’era stretta a raccolta sotto il balcone di Piazza Venezia. E con il tempo comprendi come siano sempre quelle emozioni ad antecedere ogni tuo ragionamento. Ho appreso, rendendolo valore in sé, come la carne sia forte (tutto il contrario della debolezza di cui i cristiani fanno lezione) ed è la mente, arrogante e presuntuosa, ad essere fragile o capace di edificare alibi a se stessa. Forse un paradosso per chi e per quaranta anni ha incespicato, in cattedra e fra i banchi, nel mondo delle idee… Alle pareti, tinteggiate in modo grossolano e di colore rosso mattone, riquadri di vernice bianca con frasi dell’ultimo Mussolini. ‘Non dovete essere i testimoni della disfatta, ma artefici della rivincita’, cito con incerta memoria. Appunto, lesti e furbetti, via la camicia nera i saluti romani i ‘Viva il Duce!’… Quando s’è sbaraccato tutto l’armamentario di un ingombrante passato non so dirlo. Forse anni Ottanta. I nuovi – ed ultimi – gestori della sezione hanno, previdenti e preveggenti, compreso come, prima o poi, sarebbe disceso – non da qualche nuvoletta, ma prosaico dalla sua villa di Arcore – il traghettatore verso i salotti bene nella rispettabilità borghese offrire posti in qualche consiglio d’amministrazione e, sommo gaudio, scranni da ministri e sottosegretari. E avrebbe imposto loro giacca e cravatta, ripuliti fuori e mondi nella mente e nel cuore. Proni sempre e comunque. Senza traumi freudiani e rimpianti e rancori e, ancor meno, quelle idee storte di radicali alternative. Oggi, parabola discendente, una sindaca in cerca di teatrino, essendo priva di competenze e di capacità (i cassonetti trasudano sul marciapiede sacchetti d’immondizia, gli autobus sono presenza evanescente, zingari e migranti si predispongono a spadroneggiare), di soppiatto, come ladri nella notte, ha mandato vigili armati di catene e lucchetti…

 Era l’autunno dell’anno 1969. Dopo la breve stagione gioiosa e di rivolta generazionale del ’68, simile a meteora all’università di Roma – e ne sanno qualcosa i dirigenti del MSI del PCI e del Ministero degli Interni - , si profilava la stagione di bande l’una contro l’altra armate, di improbabili strategie quando non si traducevano in ammiccamenti servili – entusiasmo voglia di cambiamento resa dei conti finirono ad essere simili a ‘ruggito del topo’ (facile oggi trarne le inevitabili conseguenze. Allora fu sangue generoso versato da entrambi i fronti e sbarre chiavistelli latitanza) -. Ultimo ricordo, qui, del Covo dove ero approdato nel ’62 e da cui me n’ero andato nell’estate del ’65, subito dopo il Congresso di Pescara. Aria di rivoluzione, per dirla con il titolo di una canzone di Franco Battiato, ma questa è altra storia. Si risale per il Colle Oppio, non ricordo da quale manifestazione venivamo. Siamo un gruppetto di anarchici, compreso quel ‘compagno’ Andrea proveniente da Genova, identificato poi quale agente di polizia. Si arriva all’altezza della sezione. A qualcuno viene l’idea – nulla in sé di originale in quei tempi di ordinario disordine (un Chaos, in verità, incapacitante di partorire ‘stelle danzanti’) – di lanciarvi dentro una molotov. Una bottiglia di vetro e della benzina del motorino e del terriccio da fare spessore. Rudimentale prodotto di ragazzotti estrosi ed esaltati. Andrea si propone chè vuole sperimentare l’emozione e ‘l’effetto che fa’. Una misera macchia di bruciato sul pavimento del salone, il risultato. Nessuno se n’accorse e nessuno sarebbe venuto a saperlo se… durante le indagini su Piazza Fontana – io già a misurare tre metri per sei - Andrea (credo) se ne uscì attribuendomi ideazione preparazione esecuzione. Come se non bastasse il mandato di cattura per strage con il suo carico di morti e carni lacerate. Conclusione: mi trovai un secondo capo d’accusa con l’aggravante. Oggi vi posso sorridere (e riflettere su giustizia e strategie di Stato, ma anche queste sono altra storia) e preservare memoria, la sola che conta, di Zambo delle pareti scrostate e muffe del busto del Duce di quell’atmosfera cospiratoria di giovinezza ardente e amara. Senza metafore e metanoie…

Mario Michele Merlino  

Evola in Usa ovvero effetto boomerang – Fondazione Julius Evola

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Si deve vivamente ringraziare Mr. Horowitz, capo della redazione romana del New York Times, per aver pubblicato la balla, la bufala, l’invenzione, ovvero quella che si usa definire fake new perché così fa comodo ai progressisti di tutto il mondo, riguardante il presunto interesse di Steve Bannon, allora consigliere del neo presidente Donald Trump, per Julius Evola, e di come questo interesse sarebbe di conseguenza approdato alla Casa Bianca. Titoloni sul grande quotidiano americano, e notizia ripresa addirittura sulla prima pagina di un altro giornalone italiano, La Repubblica, ovviamente in tono negativo, ma in tal modo facendo una pubblicità tanto incredibile quanto inattesa al “cattivo maestro”.

Niente di più falso: una notizia tirata per i capelli e strumentalmente usata contro Bannon e soprattutto Trump, al solo scopo di gettare l’allarme dicendo che le idee, ovviamente “razziste” e “fasciste”, del filosofo italiano avrebbero avuto udienza al massimo livello della politica statunitense. Una scemenza, come è stato documentato, ma tant’è: la falsa informazione fece a inizio 2017 il giro del mondo suscitando allarme e indignazione negli ambienti della Kultura progressista e “antifascista” europea. E, nonostante le prove che fosse una bufala strumentale, è entrata nei luoghi comuni del giornalismo italiano, al punto che all’epoca degli scontri a Charlottesville, sul Corriere della Sera si è potuto leggere l’amenità che l’ideologia dei Suprematisti americani derivava dalle teorie del Ku Klux Klan e da quelle “razziste” di Julius Evola, a palese dimostrazione che tutti questi Suprematisti conoscono e leggono l’italiano, giacché dei quattro libri che il pensatore scrisse sul problema della razza uno è stato tradotto in tedesco nel 1943 e un altro in francese nel 1985…

Però, come spesso accade, essa si è ritorta contro chi se l’è inventata ed ha prodotto l’effetto opposto, un effetto boomerang solo in apparenza paradossale. Evola non è stato affatto messo al bando negli USA, ma al contrario i suoi libri hanno avuto un incremento di vendite! La polemica ha smosso la curiosità.

Secondo i dati della Inner Traditions, suo editore americano, nei primi sei mesi del 2017 i due libri di Evola che interessano soprattutto il pubblico di lingua inglese, hanno fatto un notevole balzo rispetto allo stesso periodo del 2016: Rivolta contro il mondo moderno ha venduto 3940 copie, e Cavalcare la tigre 2053, rispettivamente il 75 e il 25 per cento in più rispetto al gennaio-giugno 2016.

La polemica, pur se artificiosa, ha suscitato negli Stati Uniti l’interesse di sapere di che cosa si stesse effettivamente parlando e ci si è voluti documentare alla fonte per rendersi conto di persona di quali fossero queste terribili idee. Il che potrebbe essere un ottimo battistrada per la imminente uscita del secondo e terzo volume di Introduzione alla magia, tradotti dal professor Joscelyn Godwin, sempre per la Inner Traditions.

Grazie Mr. Horowitz delle sue belle! Ne inventi un’altra per favore! Non tutto il male viene a nuocere, ovvero: a malo bonus.

  Fondazione Julius Evola    

Magia e Tradizione – Umberto Bianchi

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Una risposta a Luca Valentini

Ho letto tutto d’un fiato, l’altra sera, su “Ereticamente” un interessante pezzo di Luca Valentini,sulla relazione tra la Tradizione Romana e l’esperienza del Gruppo di Ur del quale, tra l’altro, mi sembra siano ricorsi quest’anno, novant’anni esatti dalla nascita. Un pezzo concepito con l’intento di dipanare le tante incertezze e confusioni che attorno a quella esperienza sono venute a crearsi, ingenerando in seguito, non poche distorsioni. L’autore sembra qui voler scoperchiare il Velo di Maia di tutta una serie di spinose questioni, che come un fiume carsico attraversano, da troppo tempo oramai, tutti quegli ambienti che amano definirsi “tradizionalisti” o che, addirittura senza troppi fronzoli verbali, si definiscono semplicemente “praticanti” o aderenti ad una qualsivoglia disciplina o gruppo a connotazione esoterica od iniziatica o paganeggiante, che dir si voglia.

Il nostro Luca Valentini, carte alla mano, ci dice che intenzione del Gruppo di Ur non era il ritorno “sic et simpliciter” ad una religiosità pagana in Occidente, intesa in un senso prettamente fideistico bensì, il rivolgere il proprio sguardo all’archetipo sacrale della romanità ( che il simbolo del fascio, in quel momento sembrava incarnare alla perfezione, sic!), senza disgiungerlo da tutto un plurisecolare correlato magico ed esoterico, che, sempre per ragioni di brevità, potremmo definire di natura “ermetica” o gnostico-cabalistica e, pertanto, afferente indifferentemente ad una molteplicità di radici e riferimenti culturali (e cultuali!). Il tutto ci vuole riportare ad una forma di archetipico universalismo dell’esperienza magica, vista come forma di “potenziamento” dell “Io”, di quell’Ego che, da Cartesio in poi, nel bene e nel male, diverrà il protagonista della scena dell’Occidente (come abbiamo già fatto notare nel nostro commento al pezzo di Paolo Pozzati su Schopenauer , da Ereticamente pubblicato in questi giorni…). Ora, se è vero che, la Magia e l’Esoterismo con l’avvento della Modernità vanno incardinandosi con tutte quelle tematiche legate all’irrazionalismo filosofico ed alla succitata riscoperta dell’ego e della sua dimensione inconscia; se è vero che la dimensione inconscia si fa ponte tra la dimensione micro e macro cosmica della realtà ( specialmente nella psicanalisi junghiana…) e, pertanto, spalanca la strada all’idea di una mente connessa ed interagente con le forze dell’Essere; se poi tutto questo viene rafforzato e riconfermato in una pratica magica/esoterica che attinge indifferentemente a qualunque forma di Tradizione, tutto questo, al giorno d’oggi, non può non divenire oggetto di una riflessione attenta. Togliamo un momento di mezzo le immagini di un rozzo e caricaturale neofascismo “evolomane” che, della Tradizione, hanno fatto un monolitico feticcio. Andiamo invece al nocciolo del problema.

Un problema che si chiama Globalizzazione, ovverosia, il costante ed inarrestabile avanzare di una forma di pensiero agglutinante, omologante, riferentesi ad un’unica ed indiscutibile realtà: quella del dominio e della supremazia Tecno Economica sull’intero mondo. Tutto questo sta stravolgendo, alienando e distruggendo quello che, dell’umanità e delle varie civiltà ad essa correlate, costituisce il sale, ovverosia la differenza, la varietà, la caleidoscopica multiformità di una Vita che, incessabilmente produce forme, colori, sensazioni e ce li mette continuamente davanti agli occhi. Un processo questo che, negli ultimi tre secoli è andato facendosi più serrato ma che, trova le proprie radici nelle plurimillenarie origini del Monoteismo. Il credere in un solo Dio, anziché in dieci o cento Dei, di per sé non può costituire né peccato, né blasfemia, né una forma di distorsione mentale, ma una modalità di credere come tante altre e basta. Il mondo antico conobbe le monolatrie, né si vedeva con particolare malocchio chi adorava il proprio personale Dio. Il problema del monoteismo, sta nelle sue ricadute ideologiche. Nel nome della supremazia di un principio di esclusivismo che tende via via ad escludere aprioristicamente qualunque altra manifestazione del divino, sino a fare di quel Dio “unico” la metafora di un modello di sviluppo culturale, politico, economico che, via via, andrà avviluppando il mondo in una alienante spirale di autodistruzione.

E siamo a quella Globalizzazione che, in base a quanto poco fa detto, trova i propri presupposti spirituali proprio in quel monoteismo, espresso da simboli e dottrine iniziatiche più o meno richiamantesi al milieu culturale ellenistico più tardo, influenzato dalla Gnosi ebraico-cristiana. Questi elementi vanno gradualmente amalgamandosi, nella tarda Rinascenza, con quella spinta all’esasperazione dell’individualismo (vi ricordate lo “scientia est potentia” della “Nuova Atlantide” di Francis Bacon?) che, nel Protestantesimo, nel Mercantilismo, ma anche nel’Utopismo, troveranno la loro più consona rappresentazione e costituiranno la base ideologica per il nascente Capitalismo. E qui assistiamo ad un fenomeno di schizofrenica bipartizione che, della storia d’Occidente sembra essere un classico, ovverosia, un filone di pensiero che si scinde nel suo opposto, con cui continua a convivere senza soluzione di continuità. E così l’antropocentrismo della Rinascenza, che fece da combustibile alla rinascita di un Neoplatonismo Paganeggiante da Marsilio Ficino a Pomponio Leto, quella Rinascenza che doveva essere la base per una radicale rinascita dell’Occidente, quasi per una mostruosa mutazione, va trasformandosi in una caricaturale esaltazione del più sordido e perdente dei modelli umani: quello del mercante…

L’Occidente che sorgerà dalla Modernità Illuminista nascerà altrettanto schizofrenico e doppio. Pensiero razionale e meccanicista e pensiero irrazionale e vitalista si fronteggeranno e si scontreranno senza soluzione di continuità. Ed anche qui, nel continuo mestarsi e rimestarsi di acque, permarrà tanta, troppa confusione di cui, ad oggi, facciamo tutti ancora le spese. Tenteranno i Romantici e poi i vari gruppi Ariosofici, sino ai gruppi Neopitagorici italiani, con esponenti come Reghini ed Evola, a spostare l’asse della riflessione esoterica su riferimenti più attinenti alle tradizioni ed agli archetipi spirituali indoeuropei, piuttosto che a quelli gnostico-cabalistici e rosacrociani. E su questo punto è doverosa una precisazione. Evola esplicita molto bene i suoi scopi, in “Imperialismo pagano”. Al pari del Caetani e di altri, egli sperava in una rinascita del Paganesimo in Italia, non senza però, l’apporto di quelle forme sapienziali dalla valenza iniziatica, di cui l’esperienza di Ur cercherà di fare tesoro, in un contesto di sperimentazione e pratica del magismo. L’intero tentativo di Ur ed altri riuscirà solo parzialmente, visto che, ad oggi, tutto il mare magnum della riflessione esoterica è, per lo più, ancora incentrato su questi parametri, ovverosia su un confuso universalismo esoterico.

A questo va aggiunto un altrettanto esiziale elemento di confusione, tutto incentrato sulla reale natura dell’azione magica. La Magia sembra esser divenuta un correlato della Modernità, di una Modernità desiderante, che deve fare del desiderio, del lontano dell’impossibile, il vicino, il possibile, il reale, il tangibile. La Magia è cosa probabilmente antica quanto l’uomo, ma anche quanto la religione, il credere ad una o più forze trascendenti da cui tutto deriva e/o che tutto compenetrano. Qualcuno ed anche più, un consistente numero di studiosi di livello, affermano essa essere, al pari dell’Astrologia, una tecnica della religione, un suo semplice correlato. Più di qualcuno afferma, invece, essa essere qualcosa di totalmente indipendente dalla “religio”, da cui, invece, attingerebbe disinvoltamente per il proprio fine principale, che è quello della potenza di un ego che, a tal fine è disposto anche a farsi possedere da entità o spiriti che dir si voglia. Diciamo che la verità sta nel mezzo. Inizialmente nata quale tecnica della religione, finisce man mano, con l’avvento della Modernità per farsi via estrema alla soddisfazione dello sviluppo egoico ed egotista della nostra attuale civiltà.

L’unico grande vantaggio che noi Moderni o Post tali abbiamo, rispetto a coloro che ci hanno preceduto, sta nella spettacolare messe di informazioni, in quel sapere specialistico che, gloria o damnatio dei nostri tempi, ci permette di sapere e, pertanto di avere coscienza di ciò che noi siamo o potremmo essere e “cosa” è accaduto…Appunto nel nome di tutte quelle belle premesse di cui abbiamo parlato, si possono ancora fare certe confusioni a livello iniziatico, confondendo Gnosi, Cabalistica, Ermetismo, Neoplatonismo, Paganesimo ed altro ancora,in un immane fritto misto? Certe vie, potevano trovare una giustificazione in un passato in cui, a seguito di certi eventi, non si era raggiunto il livello odierno di coscienza. Basti ricordare che, sino al 19° secolo, la Bibbia e le Sacre Scritture rappresentarono un ineludibile punto di riferimento per qualsiasi tipo di elaborazione di tipo intellettualistico o misterico che dir si volesse.

La stessa intuizione di un universalismo degli archetipi rinvenibile negli studi di C.G.Jung ed anche negli scritti di Renè Guenon, anche per quanto attiene la dimensione misterica, per quanto giusta possa esser considerata, oggi più che mai, deve esser soggetta ad un limite preciso, rappresentato da quanto sin qui descritto. Pertanto, il praticare discipline misteriche, evocando magari entità legate alla tradizione biblico-cabalistica o praticando arti magiche che, slegate a qualunque superiore contesto, tante volte finisce con il divenire solo una forma di puro appagamento egoico. Non è questo fare il gioco sottile del Globalismo e dei suoi scherani? L’omologazione globale finirebbe con il trionfare anche attraverso quei simboli destinati a far da veicolo a messaggi che nulla c’entrano con gli originari significati ad essi, impregnando ancor più di sé l’intero creato. Il Paganesimo dovrebbe farsi così metafora e simbolo di quell’istanza di molteplice, che è l’unica medicina al male globale che oggi rischia di distruggere il mondo. E poi. Sino a che punto una pratica iniziatica può esser a-religiosa, ovverosia distaccata da un preciso riferimento tradizionale, senza degenerare in un caciaronesco occultismo? Credo sia necessario, ora più che mai, in questa fase di avanzato Kali Yuga, un passo indietro da parte di tutti. Senza dover rinunciare al proprio Credo, qualunque esso sia, identificare chi e dove è il nemico e vivere in modo più critico ed attento i propri rispettivi riferimenti ideali. So benissimo che, quanto qui affermato suona di utopistico e quasi banale, ma credo che, mai come in questo momento, sia giunto il momento di impegnarci, anche su una tematica così spinosa come quella legata alla conoscenza esoterica, in un dibattito franco e chiarificatore. Ne va della nostra sopravvivenza, come uomini in un mondo di rovine.

Umberto Bianchi

Al convegno dei 90 anni del gruppo di Ur: un commento all’intervento di Giandomenico Casalino – Roberto Siconolfi

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Al convegno per i “90 anni del Gruppo di Ur”, tenuto al Palazzo delle Arti di Napoli lo scorso ottobre, uno degli interventi di rilievo è stato quello dell’avvocato Giandomenico Casalino. Anche attraverso una chiacchierata fatta nei corridoi, siamo riusciti ad ottenere elementi utili per lo studio, per spunti di riflessione – quelli da noi posti – e per attività finalizzate alla conoscenza del “proprio sé”.

La relazione di Casalino al convegno si era incentrata sulla “trasposizione” del rito dalla sua versione “storica”, nel mondo esterno all’Io, in chiave “interiore” e cioè utile a processi di accrescimento dell’Io. Sono le 14, è ora di pranzo. E da lì trae spunto Casalino, per esordire sul senso di appetito e sul desiderio di pennichella che, come altre tentazioni della quotidianità, sono considerate una sorta di “prova da superare”, un “rito interiore”. In sostanza al fine di terminare l’opera bisognava, a suo giudizio, “vincere” quella sensazione/tentazione. Con questo semplicissimo esempio, Casalino concretizza la trasposizione del rito in chiave interiore. Questo passaggio (rito da pratica esteriore a quella interiore, appunto) è tipico dell’Era della decadenza – KaliYuga indiano, età del ferro esiodea o età del lupo norrena.

Questa Era è la chiusura del ciclo. In breve, dal mondo originario dominato dai principi e dall’Idea, si discende alla forma ultima, più degenerata, dominata da nichilismo e materia. Nella visione degli Yuga – cicli cosmici – la storia dell’uomo è a tutti gli effetti caratterizzata dal moto sinusoidale, per cui a fasi ascendenti si succedono fasi decadenti. Molto sinteticamente il KaliYuga, dunque la nostra era, è caratterizzato dalla riduzione al minimo o dall’ “assenza” dell’azione dello Spirito nei diversi ambiti della vita (politico-statale, lavorativa, delle relazioni): esso realizza a tutti gli effetti il primato della materia sulla forma, degli istinti sul “sé pienamente cosciente”, dell’economia sulla politica, della base sul vertice, della questione economico-sociale sul mondo delle Idee. La decadenza investe anche altri campi come il mondo delle arti, del sapere e più in generale di tutto il mondo della metafisica, o meglio di ciò che membri del gruppo di Ur come Evola definiscono “Tradizione”. Proprio riguardo a quest’ultimo punto, per l’avvocato Casalino è in atto, in questa era, la “contro-tradizione”. Egli asserisce che materialismo ed ateismo non sono altro che cibo dato in pasto alle masse. Sono invece le élite, o meglio le “contro-élite”, a praticare una vera e propria “contro-tradizione”, che celebra il trionfo degli elementi più “bassi”, “degenerati” dell’individuo innalzati a “valore assoluto”.

Ciò procede in quel meccanismo di “inversione” tipico della nostra Era, che la teologia e la scienza “non accademica” definiscono come il passaggio al dominio della “bestia” sul divino, dell’”anti-fotone” sul “fotone”. E’ la chiusura del ciclo e la successiva apertura di un altro. Di conseguenza questo processo di “inversione” si compie del tutto e realizzandosi in tutti i campi, sia metafisico – dominio della “bestia” –, che fisico – passaggio all’anti-luce (anti-fotone). In quest’ottica, per Casalino, è importante interiorizzare i valori e l’”ordine supremo iscritto nei cieli”, proprio come indica Platone in La Repubblica, e riportare il valore della Bhagavadgītā riguardo la “battaglia interiore”. Quindi, a chi chiedeva ina maniera quasi “esagitata” il “che fare?” e “come operare?” concretamente nel mondo, Casalino risponde, calmo e lapidario, che in quest’era il principio di Roma, l’”ordine”, va fissato dentro di sé. A ciò, aggiungiamo, che solo su questa base è possibile “ricostruire” nel mondo “esterno”.

Un “ritiro”, dunque, che non è una resa, bensì è la fase che nel respiro va associata alla “contrazione” (Manvantara). “Contrarsi oggi per risorgere domani!”, un altro validissimo insegnamento di vita. Portarsi sul terreno della “battaglia interiore”, il principale raggio d’azione di evoliana memoria nell’Era della decadenza. Quest’”ordine” e questa “battaglia” dai cieli vanno riprodotti dentro di sé, come nel gioco eterno del “come sopra così sotto” indicato dagli esoteristi. Per il relatore pugliese la capacità di eseguire il rito, come sacrificio dell’Io, è essa stessa fonte di accrescimento e di consapevolezza del “sé”. E’ come se il superamento della “prova” (l’esempio del “pranzo” citato in apertura è calzante) comporti “un premio” in ciò che innovative teorie della fisica contemporanea definiscono “il gioco della vita”. Grazie a questa battaglia e a questo gioco in atto “continuo” e “permanente”, si riesce a “creare” anche quel quid che, se da un lato è assente nella teorizzazione di molti intellettuali contemporanei, è avvertito in forma di bisogno da moltitudini non indifferenti. Questo qualcosa è la “felicità”.

Da queste riflessioni, si evince che è possibile rompere quella opposizione “duale” tra discipline scientifiche e saperi ancestrali. Casalino, infatti, rileva nella figura dell’”alchimista”, chimico e mago allo stesso tempo, quell’anello di congiunzione tra questi due campi che invece nella modernità si dispongono in maniera contrapposta. Questa “congiunzione” rimanda al principio della non-dualità, un altro terreno di disputa dei saperi esoterici. In breve la non-dualità afferma la realtà “olistica” dell’Universo, concepito come un tutt’uno senza “scissione” tra soggetto e oggetto, tra Io e non-Io, tra colui che fa l’esperienza e l’esperienza stessa, tra micro e macro.  Proprio su quest’ultimo aspetto, micro e macro, decisiva è la svolta della fisica quantistica odierna. Recuperando il concetto di frattale e scendendo nella sua analisi profonda, infatti, si riescono a ricavare delle leggi universali e omnicomprensive.  In sostanza le teorie di David Bohm sull’universo olografico, frattale e non-locale coincidono con quelle di Plotino e del neoplatonismo, o con la teoria dei cicli cosmici di Guénon – parte su Kalpa. E questo è un dato di rilievo utile, oltre che alla conoscenza personale, anche alla creazione di paradigmi metafisici e politico-comunitari “nuovi” ma allo stesso tempo “antichi”, “occidentali”, in senso classico, e “orientali”, nel senso delle antiche dottrine sapienziali – questo a proposito del “che fare?” sopraccennato.

Del resto anche la filosofia moderna, prima dell’avvento del positivismo era già consapevole della non scindibilità dei vari piani della realtà e del sapere stesso. Quindi per Casalino la figura di Hegel, ad esempio va riletta in modo scevro dall’impostazione razionalista e marxista, ma addirittura a tratti “esoterici”. Sempre sul principio di “dualità”, Casalino porta l’esempio dell’assenza di separazione tra il relatore e lo spettatore e asserisce che tale assenza, appunto, esista anche tra Io e non Io. Nel suffragare questo concetto si concentra sul rapporto tra Uomo e Dio. Un esempio interessante è quello riguardante la funzione del magistrato romano, a tutti gli effetti parte organica del popolo, quindi senza scissione della “parte” col “tutto”. Elemento, quest’ultimo, riproposto anche dalla struttura politica bolscevica (con il Consiglio dei commissari del popolo). Infine, l’avvocato arriva a disquisire dell’opposizione tra Tradizione e Modernità, affermando che tale contrasto si riproduce nel corso della storia: la New York di oggi sarebbe la Cartagine passata, in lotta contro Roma. Anche a quel tempo, infatti, si violavano le leggi non scritte ma iscritte nei cieli. Tra cui, ad esempio, la punica fides, ovvero la violazione del patto di lealtà, “dote negativa” che connotava i cartaginesi ed Annibale.

Roberto Siconolfi

Prolegomeni alla filosofia di Platone: breve invito alla lettura – Giandomenico Casalino

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Febo generò agli umani Asclepio e Platone, affinché curassero l’uno il corpo, l’altro l’anima” (D.L., 3.45); questo epigramma citato da Diogene Laerzio, può dare una prima flebile impressione di ciò che il Divino Platone è nella Tradizione Classica Elleno-Romana e non solo (basti pensare a quella Araba ed anche Persiana…!). Al fine di gioire eroticamente, entrando nella spiritualità teosofica platonica del mondo tardo-antico, ultimo glorioso e luminoso Katechòn nei confronti delle minacciose orde di Gog e Magog avanzanti, è consigliabile (per non dire necessario…!) leggere un aureo libretto, intitolato Prolegomeni alla filosofia di Platone (Editore Armando Roma 2014), prima traduzione italiana a cura e con un ricco saggio storico-filosofico introduttivo di Anna Motta, giovane e valida studiosa del Platonismo; tale opera è frutto di un Anonimo appartenente alla Scuola Neoplatonica di Alessandria d’Egitto, ed ha la finalità di avviare gli aspiranti filosofi alla Conoscenza vivente della divina dottrina platonica, dopo aver percorso lo studio di altri Saperi classici come l’Aristotelico, considerato propedeutico alla Scienza platonica, come i Misteri minori lo erano stati nei confronti di quelli Maggiori.

La lettura di tale scritto, che ci giunge direttamente dal V-VI secolo dell’era volgare, e dalla parte orientale (e residua) di quello che era stato l’universale Ecumene imperiale romano, indica a noi, che attraversiamo la presente avanzata Età Oscura, ciò che è sommamente essenziale al nostro animo e al nostro percorso di vita, affinché si entri e si viva nel più-che-vita (Evola) nonostante le Tenebre avanzanti; e colui il quale indica e rivela a noi i Principi metafisici e divini della Sapienza Platonica, introducendoci alla loro Visione, è vissuto ed ha sperimentato un “momento” assiale dell’Età Oscura molto simile a quello presente; ed è per tale ragione che dalle sue pagine traspare la ferma convinzione, che ha albergato nell’animo di tutti i Platonici sia del Mondo Antico che dell’evo medio come dell’incipiente umanesimo sino alla contemporaneità, che, come rivelato dagli Oracoli, gli stessi Dei, eternamente Beati, hanno inviato ai mortali un thèios anèr (uomo divino) come Platone per insegnare loro come, curando l’anima immortale, Ricordare di essere Dei, mediante la omòiosis Theò (divenire simili al Divino) che è quindi la essenza iniziatica della Filosofia platonica; pertanto la Scienza ieratica di cui parla l’Anonimo alessandrino è autentico Mistero divino e Guida verso la Beatitudine.

E tutto ciò non è simile a quanto anche noi cerchiamo ed a cui aspiriamo, quale soffio di Vita, come appartenenti alla presente umanità o a ciò che ne resta?

Proclo definisce (Theologia Platonica, I 1, 6.16-7.8) membri del coro divino gli interpreti della divina filosofia platonica, da Plotino ad Amelio e da Porfirio a Giamblico, in una armonia, cara alle Muse, di differenti e leggiadri suoni che sono la Luce dell’Ellade e della Civiltà Indouropea e che manifestano la natura Apollinea di Platone, come attestano la presenza costante delle api e del miele nella sua vita, essendo le prime, come agenti delle Muse, care ad Apollo; così come, nella contemporaneità, sono membri del medesimo coro divino spiriti Platonici eccelsi quali Giorgio Federico Guglielmo Hegel, Pavel Florenskij, Julius Evola, Giuliano Kremmerz, Rudolf Steiner, Massimo Scaligero e Pio Filippani Ronconi, anch’essi armoniche e differenziate Luci di un unico Cielo, sia quello interno che quello esterno, che è il Medesimo ed è il Fine- la Fine del Viaggio, secondo la Tradizione Platonica!

Giandomenico Casalino

Tradizione e Scienza dell’Io – Daniele Laganà

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Per comprendere che cosa sia la Tradizione, il suo significato profondo, dobbiamo imparare, come ci suggerisce la Tavola di Smeraldo a separare il sottile dallo spesso e cioè l’essenza, ciò che è eterno, dalla forma attraverso cui questa si manifesta in un determinato tempo e in un determinato luogo. Quando si parla di Tradizione occorre distinguere tra ciò che viene trasmesso, il contenuto della trasmissione, e l’atto stesso del trasmettere e cioè la scintilla rivelatrice dello Spirito. La trasmissione tradizionale non riguarda tanto un piano orizzontale, nel tempo, ma piuttosto un piano verticale che si sviluppa attraverso i diversi stati dell’Essere. Questo livello più profondo che mette in collegamento l’immanente con il trascendente, l’umano con il divino, corrisponde a un particolare stato di coscienza per mezzo del quale la mente umana si apre all’intuizione, cioè alla esperienza diretta, dello Spirito.

La Tradizione, dunque, è un “luogo interiore” e, in quanto tale, può sempre, in ogni tempo, essere raggiunto e sperimentato. Esso non può essere perduto (ciò significherebbe la perdita di ogni aspirazione al Sacro), ma piuttosto si occulta, cioè muta la via attraverso cui l’uomo può raggiungerlo. Come ci suggerisce il simbolismo delle stagioni, la ruota dell’anno, nell’oscura e fredda notte invernale il Sole non splende più all’esterno, ma nella profondità della terra dove, come calore, prepara la vita che sboccerà in primavera.

Se un tempo il contatto con la dimensione spirituale poteva essere stabilito mediante la contemplazione interiore delle forze vive della natura (l’anima era come uno specchio in cui si rifletteva la perfezione macrocosmica), oggi, nel tempo in cui ci troviamo a vivere, bisogna elaborare dentro di sé le forze mediante le quali restaurare la percezione vivente della natura e penetrare nella vastità degli spazi cosmici. L’uomo non è sempre lo stesso, la sua costituzione interiore muta con il mutare del tempo. Certi canali percettivi si chiudono, mentre si sviluppa la consapevolezza come individuo. Si pone, allora, il problema di rintracciare la chiave di un altro tipo di conoscenza (1).

La differente condizione interiore tra l’uomo antico e quello contemporaneo è posta in evidenza anche nelle pagine del fascicolo riservato “La via romana agli dèi”, con particolare riferimento alla “rarefazione” della facoltà immaginativa. Nel tempo in cui ci troviamo a vivere, nel nostro tempo, si tratta proprio di padroneggiare e sviluppare quella coscienza individuale che, lasciata a sé stessa, degenera nell’individualismo.

Riconoscere e separare nella fredda logica matematica quella impersonalità olimpica che un tempo fu la forza di Roma, così come nella scienza quello spirito di concreta praticità che, liberata dalla palude del materialismo, può divenire il filo d’Arianna di una nuova e più profonda conoscenza metafisica. Questo vuol dire “cavalcare la tigre” e trasmutare il veleno in farmaco come insegnano gli alchimisti. Ogni tempo ha la sua via che noi dobbiamo saper riconoscere; altrimenti si corre il rischio, per restare all’esempio delle stagioni, di uscire con le maniche corte in pieno inverno e il risultato non può che essere un bel raffreddore. L’antichissimo simbolo della spirale ci ricorda che vita e morte, luce e oscurità sono le due fasi necessarie di un movimento unico per mezzo del quale bisogna tornare indietro, all’origine, solo per salire più in alto, per acquisire un livello di consapevolezza più alto.

Non esiste una modernità contrapposta alla tradizione: tutto è tradizione, anche la modernità. Come saturno rappresenta l’occultamento del sole, così la modernità è l’occultamento della tradizione, dello Spirito: a noi spetta il compito di “liberare” l’essenza spirituale celata nelle forme della nostra civiltà. Questo è il compito, eroico, che ci attende.C’è una immagine che mi ha sempre colpito molto e con la quale voglio concludere queste brevi note. Ci fermiamo a osservare i rami di un albero mossi dal vento, siamo rapiti dal loro movimento e dalle immagini che essi disegnano. Riconosciamo la profonda saggezza celata in quei movimenti, apparentemente casuali. Lo spettacolo ci cattura, ma mentre osserviamo non ci rendiamo conto che il vento che li muoveva è già passato oltre, ora muove altri rami altri alberi e poi altri ancora. Ecco, lo Spirito, la Tradizione, è come quel vento che sempre ci sfugge tutte le volte in cui ci perdiamo, restando ancorati, nella contemplazione della forma che ha animato in un particolare momento del suo viaggio infinito. Non è la forma che conta, ma la Forza che le dà vita ciò che conta e che noi dobbiamo, ciascuno a suo grado, afferrare.

Ogni tempo ha la sua forma che, per il cercatore, deve essere solo il pretesto per elevarsi alla Forza che si cela dietro di essa. Innamorarsi della bellezza delle forme è il grande inganno che occorre superare. E come si può divenire in grado di ciò? Non certo volgendosi al passato, ma trasmutando noi stessi, propiziando lo sviluppo della facoltà dimenticate della nostra coscienza. Ciascuno, ripeto, secondo il suo grado di consapevolezza. Il contatto restaurato con la Tradizione, con la “presenza” spirituale, può portare Luce nella vita di ogni uomo oppure può, in chi ne riconosce l’esigenza interiore, propiziare l’accesso alla vera Iniziazione quale trascendimento della condizione umana.

Oggi, nel tempo in cui la spiritualità è finita a buon mercato negli scaffali dei supermercati, l’unica regolare trasmissione iniziatica è quella che ciascuno deve conquistarsi realizzando, mediante ascesi interiore, quello stato di coscienza di cui scrivevo sopra e che un certo linguaggio mistico ha indicato nella traslazione del senso di sé dal centro della testa nella rossa caverna del cuore. Qui è possibile, di là da formali cerimonie esteriori e fuorvianti imposizioni magistrali, l’incontro con la vivente presenza dello Spirito che consacra. Il compito che il nostro tempo ci chiede di realizzare, infatti, è ritrovare autonomamente il contatto con il trascendente. È necessario che il sole tramonti affinché le stelle possano apparire nel cielo; è necessaria, cioè, l’eclissi del sacro affinché l’uomo possa divenire cosciente della propria luce spirituale. Fuor dalle sdolcinatezze new age, concludo queste brevi riflessioni citando l’insegnamento di Giordano Bruno che nelle sue opere ammoniva l’uomo a prendere coscienza della sua reale natura. Benedetto l’uomo che giungerà a sollevare il velo che gli nasconde il mistero di sé stesso, dell’origine della sua Anima che è la chiave di infiniti mondi. L’Uomo, nella sua essenza, è un pellegrino in cammino da sempre, dall’Infinito verso l’Infinito. L’esperienza terrestre è una tappa, fondamentale, dell’eterno viaggio cosmico che conduce al superamento della dualità tra Io e Universo.

Note:

1 - Questo è ciò che ci suggeriscono molti cercatori dello spirito contemporanei tra i quali Rudolf Steiner, ma anche Julius Evola come ho cercato di mettere in evidenza citando, nel mio intervento durante il convegno evoliano organizzato nel 2014 da Ereticamente e IlCervoBianco,vari passi delle opere del Barone tra cui l’appendice ai Saggi sull’idealismo magico dedicata all’arte modernissima.

Daniele Laganà

Il Paganesimo magico del Gruppo di Ur – Umberto Bianchi

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Sto seguendo con una certa attenzione, il recente riaccendersi di una, mai completamente, sopita polemica riguardante un po’ tutto il milieu “esoterico” e tradizionalista italiano ed avente per oggetto, guarda un po’, l’interpretazione dell’esperienza del cosiddetto Gruppo di Ur e del suo lascito spirituale ed “operativo” in tutte quelle esperienze che, dal dopoguerra in poi, hanno in qualche modo tentato di rifarsi alla cosiddetta “Via romano – italica agli Dei”. Occasione per rinfocolare polemiche e dibattiti, il novantennale della nascita del Gruppo di Ur e i due recenti, interessanti articoli di Luca Valentini su “Ereticamente” che, del convegno tenutosi in quel di Napoli il 14 di Ottobre, costituiscono, a parere di chi scrive, un po’ la continuazione e la “summa” ideale. Evola fu o no influenzato dall’antroposofia di Colazza? E poi la scuola kremmerziana lasciò o meno il segno in quell’esperienza? E poi. Volevano costoro realmente restaurare la religione pagana in Italia o cosa? O si trattò di un’esperienza unicamente mirante a realizzare, anzitutto, una forma di magica introspezione? E quella successiva dei Dioscuri? Ed allora, in quale senso e direzione può essere intesa, al giorno d’oggi, una “Via Romana agli Dei”? E via dicendo, con tutta una serie di interrogativi che sembrano, invece, voler prepotentemente riproporre un’altra domanda, antica quanto l’uomo ed il suo rapporto con l’Assoluto: adesione ad una ritualità formale potente, ma legata a gesti, ritmi cicli e scadenze determinati o ad un qualcosa di più atemporalmente profondo che, delle immagini sacre, fa un semplice simbolo di riflessione, volto al potenziamento dell’ “Ego”?....Religiosità essoterica od esoterica? E poi. Un approccio multiculturale ed esperienziale al rito, tramite gli apporti delle più e più forme di religiosità in un’ottica di “guenoniano” universalismo o un apporto rigorosamente “etnicista” in un’ottica di esclusivismo culturale ( e cultuale), legato ad antiche radici? Domande che, lì per lì, sembrano esser senza senso, quasi sterili ed intellettualistici interrogativi senza alcuna attinenza con la realtà di quella vita che, invece, di certezze e risposte chiare ha bisogno, per non ricadere nel caotico vortice dell’insensatezza offerto dalla Post Modernità. E questi sono interrogativi le cui soluzioni, invece, portano molto lontano…Cominciamo con il dire che, quando si tratta di scuole di pensiero “esoterico” o misterico che dir si voglia, o di autori ad esse legati, la cautela è d’obbligo. E’ vero. Il Valentini ci riporta frasi di Evola e di altri autori, da cui si può tranquillamente evincere l’intento di un lavoro “sub specie interioritatis” volto a far promanare l’elemento numinoso dai profondi recessi dell’Io. Altrettanto vero è, però, l’intento manifestato dallo stesso Evola in “Imperialismo Pagano” ed in altri autori quali Reghini (in ottima compagnia del pitagorico Amedeo Armentano, poi emigrato in Brasile, sic!), Caetani/Ekatlos ed altri, in favore di un ritorno della Paganitas in Roma, grazie all’avvento del Fascismo, il cui simbolo, il Fascio Littorio, sembrava rappresentare il miglior viatico in tal senso. Sì, è vero. Evola in “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo” si mostra molto critico verso tutte le varie derive settarie ed occultiste e verso la stessa Antroposofia steineriana. Ma resta il fatto che in Ur aderì di tutto e di più, neopagani, massoni, steineriani, teosofi, cattolici (Guido De Giorgio), psicanalisti alla Emilio Servadio, oltre agli esoteristi “sciolti”, alla Evola. Ora, affermare che tutte queste persone non partecipassero alle attività più “operative” del gruppo, mi sembra quanto meno azzardato. Già il trattare in modo approfondito certi argomenti, non nel ruolo di semplice studioso, ma bensì in quello di vero e proprio “miste”, sia pure per iscritto, costituisce un’attività in grado di innestare un vortice, un’interazione energetica tra menti e realtà differenti. Anche perché, e questo andrebbe costantemente ripetuto, trattandosi qui di un gruppo esoterico o magico che dir si voglia, non bisognerebbe assolutamente fermarsi alle apparenze, foss’anche basate sulle dichiarazioni degli stessi protagonisti, visto che in questo contesto, più che altrove, vige sovrano l’annullamento ed il superamento del principio di non contraddizione, per cui si arriva al paradosso ontologico di un “tutto che è il proprio contrario”.

Qualcuno ha recentemente criticato e messo in dubbio i contributi del pensiero kremmerziano e di quello antroposofico, all’esperienza di Ur e ad altre similari, perché apportatrici di elementi estranei alla matrice indoeuropea della tradizione italica. Ora però, senza voler entrare nel puntiglio di una polemica dai contorni, ad oggi, ancora sfumati, se qualcuno volesse andarsi a leggere i “Dialoghi” di Kremmerz, (ma anche altri scritti dello stesso autore), vi troverebbe più e più volte ribadita la impellente necessità di doversi rifare a riferimenti sacrali Romano Italici ed Ellenici, anziché a tradizioni estranee, quali quelle “orientali” ed altre similari. Che poi, un autore come il succitato Kremmerz o lo stesso Reghini ed altri ancora, abbiano agito in contesti immersi in una simbolistica che richiama le più classiche radici dell’esoterismo occidentale, espresse da elementi gnostici, rosacrociani o cabalistici, questo non comporta l’automatica adesione di costoro, al “background” espresso da tali simboli, che, comunque sia, erano parte costituente di un determinato contesto culturale ed epocale. Alla stessa maniera, bisognerebbe andarci piano quando, con decisione, si rigetta l’ipotesi di una qualsivoglia influenza dell’antroposofia di Colazza ed altri, su Evola. Il Pensiero, ed in particolar modo quello di tipo esoterico, non può esser considerato qualcosa di fisso ed immutabile, bensì una forma di fluido che interagisce adattandosi di continuo alle contingenze di quel momento. Lo stesso pensiero teosofico o antroposofico steineriano, non si mantiene fisso su certi parametri, ma subisce una vera e propria mutazione in autori come Massimo Scaligero che, nei suoi trattati posteriori, ci parla di un vero e proprio “Pensiero Vivente” espressione di quel lavoro incentrato sull’Io, che sempre più, sfugge ai classici parametri fantasticheggianti dello steinerismo prima maniera. Julius Evola critica sia il cristianesimo che certo “paganesimo dilettantesco” ma, stranamente, non perderà mai completamente i contatti con un certo mondo i cui epigoni post bellici, sono proprio rappresentati da quel misterioso Gruppo dei Dioscuri, che non mancherà di informarlo puntualmente sulle proprie attività. Quell’Evola che, al pari di altri suoi omologhi, legato ad un modo di pensare “Tradizionale”, si fa simbolo vivente dell’irrompere della Modernità anche nell’ambito del pensiero “magico”, grazie proprio a quella nuova visione prospettica, incentrata su un “Io” ora in grado di interagire con la realtà, arrivando anche a modificarne i parametri sul piano metafisico. Se andiamo a ben vedere, molti degli aderenti al Gruppo di Ur, provenivano dalla frequentazione di riviste quali “Lacerba” e di personaggi alla Prezzolini o alla Papini e dal milieu Futurista e d’Avanguardia. Quell’Avanguardia che, tra fine Ottocento ed inizio Novecento, fonderà insieme Futuro e Tradizione, Magia e Tecnica, all’insegna di un “Ego”, pericolosamente proteso tra le suggestioni superomistiche e le emergenti forze dell’inconscio e dell’occulto. Una spinta all’irrazionale, che la preponderanza della Tecno Economia non riuscirà mai completamente, né a sopire né a domare…

La seconda grande questione che non si può assolutamente tralasciare, è quella dell’attuale contesto storico, da cui le polemiche a cui abbiamo poc’anzi accennato, prendono corpo. Senza entrare nel puntiglio di una esatta genealogia storica, possiamo affermare che, sul solco degli storici gruppi di riferimento del moderno paganesimo di matrice romana, si è andato innestando un filone ed un’interpretazione sino a poco tempo prima, relegati ad ambiti più specialistici e cioè quella più “esoterica”, a cui abbiamo già accennato. Al di fuori dell’esperienza del Gruppo dei Dioscuri, la “Via Romana agli Dei”, pur oscillando tra un’interpretazione “prisca” della religiosità romana ed una più impostata al Neoplatonismo ed agli scritti di Macrobio, Plotino, Giamblico, ha dato di quest’ultima un’interpretazione più formalista. In questo, l’apporto “esoterico”, anche se talvolta caratterizzato da qualche umanissima forzatura o inesattezza, non può che costituire un sano antidoto alla stasi, alla marmorea rigidità di certi sterili apologeti della Tradizione. Due visioni, due modalità di intendere un qualcosa che, invece, nonostante l’apparente dissidio, costituiscono le due facce complementari di una medesima realtà. Quella del mistero rappresenta una delle necessità primarie dell’animo umano. Il sottile velo che adombra e ricopre aree che a noi permangono precluse , rappresenta un potente stimolo alla fantasia ed alla creatività, ad un continuo porsi domande ed a cercare risposte. L’importante qui non è il disvelamento del mistero, ma la ricerca, il percorso “si et si” che, dell’umana esistenza, costituiscono il sale. E nella spasmodica ricerca di risposte, nel mare magnum del mistero, l’individuo potenzia il proprio Ego, sino a far di sé stesso un Dio…ma, d’altra parte, esiste da tempo immemorabile la necessità di dar un ordine al mondo tramite una serie di formule, di parole, di movenze, che nel ricalcare le principali coordinate della realtà, mettono l’intera comunità degli oranti in connessione con le dimensioni superne; questo insieme di procedure è “rtah/rito” ovverosia dar ordine al mondo evocando e collaborando con ciò-che-sta-di sopra. Quel “sopra” spesso disvelato e conservato da quelle antiche radici, che la lingua dei padri assieme a simboli atemporali, ci trasmettono e ci ripropongono attraverso lo scandire del tempo, in giorni, stagioni, Ere, Eoni…

Due momenti, due modalità si direbbe quasi opposte. Fede e ricerca, estasi ed iniziazione, pur con le loro differenze, ruotano attorno allo stesso Samsara, alla stessa grande ruota dell’Essere. Ambedue sono, sia pur con tutti i loro eccessi e le loro (apparenti) incongruenze, romanamente parlando, quelle membra che hanno bisogno l’una dell’altra. Momenti, percorsi, personalità differenti che si incrociano, si intersecano, talvolta si scontrano ma che, proprio in questo momento, proprio di fronte all’epocale tragedia della perdita del Sacro, del magico, dell’immaginifico, dinnanzi al vuoto di un mondo incentrato sull’apparenza e sull’arida concezione Tecno-Economica, dovrebbero finalmente comprendere dove sta il nemico, quello vero, ed affilare le armi per una battaglia epocale. Una battaglia incentrata sulla capacità di arrivare all’elaborazione di una nuova sintesi che sappia essere Pensiero-Azione, Essere-Divenire, Immanenza-Trascendenza e che sappia, pertanto, rispondere colpo su colpo a tutte le tremende sollecitazioni della Tecno-Economia. Stavolta a perdere non sarà questa o quell’altra tendenza culturale, questo o quell’altro gruppo, ma l’intero patrimonio spirituale di un genere umano, appiattito, immiserito e subordinato ai diktat del Pensiero Unico.

  Umberto Bianchi

Sul metodo tradizionale: Heinrich, la storia e il tradizionalismo integrale – Giovanni Sessa

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Molti, tra i nostri attenti lettori, conoscono gli autori del tradizionalismo integrale, le loro opere, le prospettive teoriche e spirituali che hanno proposto a beneficio dell’uomo contemporaneo. Non tutti hanno, però, contezza dell’ubi consistam del metodo tradizionale e in cosa si differenzi dall’approccio critico-filologico alla storia e alla natura, fondato sull’accumulo di dati, documenti, informazioni, proprio della scienza e della ricerca moderna. E’ ora a disposizione degli studiosi, grazie alla costante attività divulgativa messa in atto dalla Fondazione Evola, un libro in questo senso prezioso e chiarificatore. Ne è autore Walter Heinrich (1902-1984), esponente della Scuola organicista di Vienna ed allievo di Othmar Spann. Si tratta di, Sul metodo tradizionale, edito da Fondazione Evola-Pagine editore (per ordini: 06/45468600) Il testo è curato da Stefano Arcella che, nel corso degli anni, si è prodigato con passione ed empatia nello studio dei tratti di rilevo di tale metodo. Nella prefazione, il curatore contestualizza storicamente il lavoro di Heinrich, fornendo al lettore una sintesi organica delle tesi da questi sostenute. Il libro è impreziosito da un saggio di Hans Thomas Hakl, uno dei maggiori studiosi di esoterismo a livello europeo, che presenta la prima biografia intellettuale di Heinrich nella nostra lingua. In essa si sofferma sui rapporti intercorsi con Evola, alla luce dell’epistolario inedito tra i due, recentemente ritrovato. Chiude il volume un’ Appendice contenente scritti degli autori in cui, nel corso del tempo, il metodo tradizionale ha trovato definizione:Vico, Schelling, Bachofen, Fustel de Coulanges, Evola.

Il libro uscì in prima edizione a Salisburgo nel 1954. In Italia, ancora in vita l’autore, il volume apparve per la prima volta in una collana curata dalla Fondazione Evola nel 1982. Heinrich, durante la giovinezza, aveva subito la fascinazione di Stefan George. Nel 1921 incontrò all’Università di Vienna Othmar Spann, immergendosi, come ricorda Hakl, negli studi di filosofia classica. Poco dopo maturò uno straordinario interesse per il romanticismo e l’idealismo: iniziò, così, la carriera accademica ma, con l’Anschluss, venne rinchiuso per un anno e mezzo a Dachau. Vicino alle posizioni della destra tradizionale, le sue idee non collimavano con il rigido centralismo nazista. Solo dopo la guerra sarà riabilitato all’insegnamento, avendo l’opportunità di dedicarsi alla curatela dell’Opera omnia di Spann. Intrattenne un lungo sodalizio con Evola che gli dedicò uno scritto nel 1959, poi ripubblicato in Ricognizioni. La ragione della loro vicinanza va individuata, tra le altre cose, nella condivisione del metodo tradizionale.

Il libro che presentiamo espone una via metodologica altra al dato storico e alla natura, rispetto a quella critico-scientifica, capace di cogliere le interferenze di storia e di sovrastoria, di natura e sovranatura. L’autore discute le tesi di Schelling, Bachofen, Guénon, Evola e Ziegler. Per tutti questi autori, al fine di individuare l’effettiva significatività degli eventi storici e degli accadimenti naturali, è necessario servirsi di due strumenti: il mito e il simbolo. Il primo prospetta, sotto forma di narrazione dai tratti leggendari, il precedente autorevole “il modello stabilito in illo tempore al quale richiamarsi per perpetuare nel tempo storico la verità dell’origine” (p. 6). Il simbolo, di contro, rinvia ad una realtà ontologica, ad un archetipo, che racchiude e manifesta in uno ciò cui allude, in quanto veicolo di trasmissione immediata di verità che si comunicano istintivamente ed analogicamente alla coscienza (le idee senza parole). La realtà simbolica “svela con immagini tratte dalla realtà sensibile, dalla natura, significati reconditi dell’essere” (p. 6). Tali ‘significati’ sono in essenza le interferenze di storia e sovrastoria, di natura e sovranatura: rivelano la trascendenza immanente, l’azione del Principio nella realtà. Il metodo tradizionale ha caratterizzato di sé, da sempre, nel corso del tempo, le Vie iniziatiche sperimentate in Occidente, tanto nei Piccoli quanto nei Grandi Misteri, ed è riemerso negli autori discussi da Heinrich. Momento dirimente ai fini della manifestazione del metodo, in epoca moderna, va individuato, a dire del nostro autore, nella conferenza che Schelling tenne il 12 settembre 1815, presso

[caption id="attachment_25836" align="alignleft" width="300"] Stefano Arcella, il curatore dell'opera[/caption]

l’Accademia delle Scienze di Monaco, dedicata alle Divinità di Samotracia. In essa il filosofo, sulla scorta del romantico Creuzer, definisce la mitologia imprescindibile per la comprensione della verità della storia. Egli individua, inoltre, nell’isola di Samotracia nell’Egeo settentrionale e nelle sue divinità, il luogo d’origine che ha permesso lo sviluppo delle categorie archetipiche della mitologia d’Occidente, manifestatesi nelle potestates divine dei popolo europei. Anche Bachofen condivise tale impostazione. Egli comprese che strumento essenziale per cogliere empaticamente le ragioni profonde della civiltà, non può che essere il mito, in quanto in esso si rivela la rappresentazione delle esperienze di un popolo alla luce della sua religiosità. Tutte le questioni esegetiche che si cerca di risolvere con mezzi di indagine esteriori, trovano la loro soluzione, non nel campo accumulativo, ma nell’interpretazione delle idee, vale a dire nel riconoscimento della Tradizione, del “materiale” tramandato dalle generazioni precedenti.

 

Sulla scorta di tali premesse, il metodo tradizionale trovò nei tradizionalisti del Novecento interpreti d’eccezione. Soprattutto in Evola. Questi, in particolare in Rivolta e ne Il mistero del Graal, mostrò con evidenza la consistenza del metodo in questione: esso consiste nel mettere insieme, delle diverse tradizioni, le corrispondenze metafisiche implicite nei simboli, nei riti, nelle istituzioni con la Tradizione primordiale. Ciò sulla scorta della definizione che Guénon fornì della Tradizione integrale. Per il francese, tale Tradizione è una Unità della quale le “tradizioni” particolari sono le membra. Il metodo tradizionale è quindi ulteriore al metodo scientifico-moderno. Arcella coglie davvero nel segno quando ricorda l’intervista rilasciata nel 1964 da Evola alla rivista Ordine Nuovo. In essa il pensatore invitava gli aderenti ai centri studi che si richiamavano al suo nome ad andare oltre, a non limitarsi ad una ripetizione scolastica del già detto. Il libro di Heinrich può rappresentare uno stimolo critico lungo questa strada.

Giovanni Sessa

La consapevolezza fondamentale: la necessità della rivolta contro il mondo moderno – Giandomenico Casalino

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«un’opera il cui significato eccezionale

si paleserà chiaramente negli anni che vengono.

Chi lo legge si sentirà trasformato

e guarderà all’Europa con un altro sguardo»

(Gottfried Benn)  

Il fine che mi propongo di raggiungere con questo mio scritto è, forse, troppo ambizioso: intendo, infatti, fortemente giungere, parlare ed appellarmi al cuore profondo, a ciò che c’è nell’essere, poco visibile, dell’animo e del sentire di tutto il variegato e diversificato mondo che si riconosce in una intuizione o visione della vita che è, comunque, radicalmente altra nei confronti di quella comune e quindi dominante.In buona sostanza chiedo a me stesso ed a tutti coloro che eroticamente sono a me accomunati in quanto simili: vogliamo noi, sia come singoli che come comunità, aventi pur varie nature e differenti ed immediate finalità, apparire, rischiando, con il tempo, di divenire, solo dei loquaci eruditi quanto schizzinosi e litigiosi partigiani di quella o di quell’altra “osservanza”? Vogliamo perdere e perderci nei labirinti della “politica” sia essa culturale, economico-sociale o spirituale, dimenticando, abbandonando, non vedendo più e quindi non conoscendo più, proprio quella ragione profonda, occulta in quanto nascosta, quale Urgrund, Fondamento Primordiale di quella intuizione mistica e sacrale della vita che ci rende alquanto simili come razza dello Spirito? E se tale quesito, proprio in quanto Domanda fondamentale, lo si estende anche a tutto il mondo dei movimenti di reazione e di contrapposizione allo status politico-istituzionale e culturale dominante in questa larvale Europa, movimenti di natura popolare ed ispirazione nazionale ed identitaria, la quaestio non muta natura!

Tutto questo mondo, che l’Avversario conosce molto bene e nella sua essenza, deve rispondere alla Domanda, non solo in termini negativi, ma al contempo, propositivi ed affermativi in ordine a “qualcosa” che deve cercare, ritrovare, riconoscere, pena la sua morte per sopravvenuta estinzione della Potenza dello slancio dello Spirito, come un fiume muore nei vari rivoli e ruscelli in cui si frammenta e si “tatticizza” dimenticando ed abbandonando la strategia che è la sua meta: la foce e cioè il mare; deve, quindi, questo mondo, prendere coscienza e consapevolezza di ciò che, nell’essenza, che forse esso stesso non vede, è: il desiderio, la volontà, il sogno, il bisogno, l’Idea di un’altra Civiltà, di un’altra Era, di un differente e gioioso destino per gli uomini e le donne di questo inizio millennio!

In buona sostanza noi, e cioè tutti noi dobbiamo guardare dentro il nostro sentire e vedere non occasionali ma presenti in quanto base costante, sin dalla nostra nascita biologica, del nostro essere genialmente in cotal guisa e non altrimenti, e trovare certamente quella dýnamis cioè proprio quella Potenza dello Spirito, di cui sopra, che è la ragione profondissima del nostro essere differenti e differenziati, e che ci chiama e ci ordina di volere e di indicare ai nostri fratelli l’unico farmaco di Vita sia del corpo che dell’anima: un’altra Meta, una finalità radicalmente alternativa, uno scopo, un senso, un obiettivo che sono ed appartengono ad una dimensione spirituale perduta da secoli cioè una tensione Ideale che si spinge e cammina verso un orizzonte che, proprio perché umani, ci deve, poiché lo vogliamo, sollevare verso l’andare oltre l’umano poiché in ciò consistono la Felicità, la Gioia, la Gloria, la Gioventù, la Vita e la Morte come rituale transito e la Comunità come dimensioni dello Spirito, da realizzare nel tempo e nella lotta che è fatica quotidiana, innanzitutto interiore.

Ma tutto ciò non è, dirà qualcuno, pura utopia? Assolutamente no!

Per la semplice ragione che, oltre ad essere, tale Visione, il Pane della Vita, ciò che dà senso e significato al nascere, al crescere ed al morire, è ciò che è, per lo effetto, quanto di più consustanziale vi sia alla natura vera dell’uomo che è, come sappiamo, andare, e cercare di rimanervi, oltre la pura dimensione biologica, dove, invece, sosta, sta, si crogiola e ingrassa la presente era, epoca o ciclo storico, che ha come unico fine, solo ed essenziale scopo: il consumo della merce che viene imposta con l’anestesia sociale, consumo finalizzato al conseguimento dell’unica ragione religiosa e finalità di vita di questa presente oscura e sciagurata epoca, che è il profitto, cioè il denaro che “crea” altro denaro, dove l’orizzonte è talmente basso, nel senso che è dimora degli istinti più bassi dell’umano, che coincide con la materialità più grossolana e con i piaceri morbosi del lusso e del sesso; e poiché l’uomo è, nell’essenza, un animale religioso, questa è la religione del capitalismo o meglio del capitalismo come religione, quindi non più e non solo come struttura economico produttiva ma soprattutto come ideologia totalitaria neoliberista, forma mentis, unica ragione di vita quindi religione in quanto potenza non dello Spirito ma della dimensione più bassa dell’animico che coincide con quella delle realtà quasi subumane; che, ormai, domina la presente umanità, provocandone, attesa la sua venefica ed antiumana natura, la lenta distruzione in uno con lo stesso mondo dei viventi, oggetti tutti dell’essere strumenti da manipolare e rendere funzionali al Rito globale da celebrare, per l’eternità, in onore di tale Oscura divinità.

*****

Solo ed in quanto noi si sia in grado, come innanzi esplicitato, di guardare con il cuore e con la mente nonché con il rammemorare erotico, nel più profondo del nostro essere, nei più reconditi ed ancestrali “ricordi” della Stirpe, alla ricerca dell’autentica ragione del nostro essere, certamente vi troveremo quel “qualcosa”, lo stesso “qualcosa” che ha indotto, condotto ed accompagnato, ognuno secondo la propria equazione personale e le proprie tradizioni, intere generazioni di uomini e donne di ogni nazione europea, chi edificando un nuovo ordinamento statuale e politico a intensa caratterizzazione mistico-religiosa, chi invece, costituendo organismi fortemente comunitari e sacralmente affratellati dal comune sacrificio sino alla morte e alla libera donazione di sé, chi, ancora, scrivendo pagine stupende ed immortali su quel fremito di Giovinezza e vigoria dello Spirito che pervadeva tutta l’Europa negli anni tra le due guerre, “qualcosa” che ha evocato Miti, Simboli, Parole e Riti di un Mondo altro, di un Mondo tramontato mentre albeggiava il giorno della quantità, del denaro e dell’individuo: la Modernità! Questo “qualcosa” è la Religione della Vita e dello Spirito, della Libertà e dell’Essere come Forma, Identità, Differenza e Bellezza quindi ricchezza spirituale della stessa umanità europea e della sua plurimillenaria tradizione; questo “qualcosa” è l’unica ed essenziale potenza dello Spirito che può e deve indicare, proprio come atto di volontà, la Via per il Ritorno alla salute del corpo e dell’Animo, la Via per il Ritorno dell’Uomo Nuovo, ma eterno, vero poiché essere vivente libero in quanto liberato dalla stregoneria degli idoli della Notte e della Morte!

E deve essere un autentico e profondo sentire dell’Animo a rivelare a noi stessi tutto ciò, come è accaduto ai nostri padri spirituali nel corso dei primi decenni del Novecento. Se noi non acquistiamo o riconquistiamo tale consapevolezza, che è la medesima che pervase, al netto degli errori e dei limiti storici evidenti, quel misterioso fenomeno epocale europeo delle Idee senza parole e dei Canti della Gioventù che fu Il Fascismo Immenso e Rosso (Brasillach), non solo saremo un triste episodio, un vano sussulto di un moribondo su un letto di agonia, ma non scenderemo mai da quel letto, alzandoci in piedi e ricominciando a camminare e non parleremo, innanzitutto a noi stessi, della possibilità, anzi della necessità di liberare l’uomo dalle catene che egli stesso si è stretto intorno e dal carcere in cui egli medesimo si è rinchiuso, narrandogli della vera e gioiosa Vita che può e deve vivere, unitamente alla sua Comunità, avendo come senso e significato della stessa non la materialità tetra e noiosa dell’interesse, dell’utile, della quantità, del profitto e del denaro, che sono veleni per il vivente, poiché di nulla lo nutrono se non di vuote e perniciose astrazioni che conducono all’infelicità, alla noia, alla nevrosi, al suicidio ed alla violenza; ecco il nuovo ed antico messaggio o Logos della Tradizione.

Altra meta, altro fine, altro scopo che vadano oltre la grigia quotidianità seriale e conducano l’uomo e la donna anche per un attimo (che può durare un’intera vita…!) verso Se stessi, la loro natura essenziale che è quella simile al Divino, allo Spirito che è Ordine Politico e Sacrale della Comunità, poiché al di sopra dell’utile riconosce la libera e sovrana dedizione in quanto servizio nei confronti sempre di quel “qualcosa” che è al di là della limitata vita dei singoli e dei Popoli e dà, proprio per questo, senso, Gioia, Gloria e significato sublimi alla stessa; affinché la Pedagogia pubblica sia che è il Bene e dell’Uomo e della Comunità il fine, il Mito e, cioè, un’altra Civiltà, che proprio per tali ragioni, parli di ed indichi non più una presunta felicità da beoti consumatori, schiavi dell’allucinazione collettiva della “crescita” illimitata quindi senza fine e senza fini se non la sua mostruosa autorigenerazione continua, eticamente indeterminata e finalisticamente neutra che ha come unico scopo la sua stessa esistenza; ma sempre quel “qualcosa” che è passato e passa, da un secolo all’altro, da animo ad animo ed è quel Ritorno ciclico ed epocale che è la riapparizione della natura profonda dell’uomo, del Divino che è in lui, dello Spirito che è la Libertà e la Vita al di là della vita in quella che è, e non può che essere, la necessaria Rivolta contro il mondo moderno.

Giandomenico Casalino

La morale liquida di Zygmunt Baumann – Umberto Bianchi

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Bel testo, quello di Zygmunt Baumann, sulla “Modernità Liquida”. Scritto con linguaggio quel tanto erudito che possa bastare per esser comprensibile, ci offre una panoramica a tutto campo di una Post Modernità, il cui aggettivo “liquido”, risulta esser più che mai, calzante. Baumann, difatti, ci snocciola e sviscera minuziosamente la fenomenologia di una (Post) Modernità, il cui status ontologico, non può che esser descritto proprio all’insegna di quella “liquidità” acui abbiamo or ora accennato, sintomo e sinonimo di quella precarietà o volatilità che dir si voglia che, di questa presente fase storica, sembra esser divenuta la caratteristica portante.

Si parte da un concetto di libertà, sempre più coniugato e rivolto alla sfera dell’individuo, anziché a quella del “civis”, visto lo sbriciolarsi delle nazioni sotto la spinta agglutinante di una globalizzazione che tende ad omologare sotto di sé tutto e tutti, all’insegna di una stretta interrelazione tra Tecnica ed Economia. L’uomo si fa così oggetto e soggetto di consumo. Egli non crea più. Nell’economia Post Moderna la creazione è lasciata al libero fluire dei capitali che, oramai liberi da qualsivoglia vincolo e controllo programmatico, etico, politico ed economico, come per capriccio, si insediano solo laddove i locali governi ( o quantomeno, quel che ne resta…) offrano agevolazioni ed aggi tali, da poter sfruttare senza ritegno risorse, diritti, di un popolo, sino a prosciugarlo ed alienarlo, lasciando all’individui la sola possibilità di poter sfogare le proprie elementari ed egotistiche pulsioni , nella pratica dello shopping “compulsivo”.

Apparire, mai essere, questo è il nuovo “must” ideologico della società liquida. Consumare per nulla creare. ”E’ il mercato bellezza!”, direbbe qualcuno che conosciamo bene…Quello stesso mercato che ha, però, dovuto frettolosamente adeguarsi alla progressiva “liquefazione” dello scenario globale socio economico. Da una fase di economia decisamente “solida”, produttivi sta, volta a produrre creare,alienare ma anche a conferire solide certezze ai suoi umani protagonisti. Il posto di lavoro fisso, la famiglia, la morale, una coscienza unitaria, sono tutti lasciti di un passato “solido” che l’attuale fase non può tollerare.

La Globalizzazione ha reso tutto fluido, instabile, aleatorio. All’insegna di un forsennato Divenire, i cicli della produzione economica e del mercato tendono tutti alla massimizzazione del desiderio di possesso, attraverso la minor durata di aspettative di questo, accompagnata ad una sua più rapida deteriorabilità. E’ la biodegradazione antropologica, attraverso l’espansione di un io compulsivo a cui fa da contraltare, una sempre minor fruibilità di qualunque situazione o “merce” presa in considerazione, così da aumentare all’infinito esponenziale i guadagni di spersonalizzate holding imprenditoriali, costi quel che costi a Lui, l’ “homo-consumans”. Un essere sempre più alienato e diffidente, che vive i rapporti sociali in stato di settoriale isolamento, in entità territoriali protette, chiuse, sbarrate, in vere e proprie comunità “ a tema”.

E proprio sulla Comunità e sulla Nazione che, il buon Baumann, dopo un’analisi lucida nella sua puntigliosa enumerazione fenomenologica, getta la maschera. Bestia nera di lui e dei suoi “compagni di merende” alla Eric Hobsbawn o alla Bordieu è proprio Lei, la Comunità e, alfine, la Nazione. L’ideologia Comunitarista, dice lui, sorge proprio perché oggi di fronte all’allegro divenir globale, la gente si sente insicura e cerca riparo in qualcosa che non sia solo ed unicamente il perseguire uno sfrenato consumismo, materiale e spirituale. Certo, ci dice lui, l’ideale Comunitario è debole di fronte a quello di Nazione che, storicamente, proprio a partire dalle elaborazioni di un Jean Bodin o di un Grozio, seguite a ruota dalle elaborazioni illuministe e giacobine, eliminò i corpi intermedi, quali Corporazioni, Gilde o autonomie municipali, residue del feudalesimo, nel nome di un primo esempio di omologante agglutinamento territoriale, prodromo di quanto si sarebbe più in là verificato a livello globale.

Nazione e Comunità. Comunità e Nazione. Due bestie nere, tendenti all’esclusione ed alla distinzione, per principio, attraverso l’identità coniugata con la sovranità. Cose queste che al nostro Baumann proprio non piacciono e perciò, non esita a precipitarsi a lanciare i suoi strali sia contro Max Weber che contro il Tonnies, a suo dire colpevoli di uno sbilanciamento a favore dell’autenticità e della centralità dell’umana figura e della comunità, piuttosto che a favore della tetra prospettiva di una impersonale melassa liquefatta in cui, a muovere i fili siano oscuri (mica tanto poi…sic!) manovratori di capitali e di menti, anziché comunità statuali animate da certezze, quali quelle rappresentate dalla collettiva consapevolezza e dalla totale partecipazione di quei cittadini-proprietari, che tutti si identificano in un comune “ghenos” materiale e spirituale, che funge da propellente e spinta per il futuro…Ma il nostro buon Baumann ( in questo, in buona compagnia di altri solerti autori…) ci ricorda con dovizioso entusiasmo che, all’incertezza e alla paura dei tempi, al tanto detestato principio di esclusione, proprio a tutti i Comunitarismi e Nazionalismi, va contrapposto, senza se e senza ma, il principio di “inclusione” di tutto e tutti sullo stesso lembo di territorio, al fine di realizzare il suo ideale di melassa umana senza identità, né diritti, né certezze, che non siano quelle del consumo e della vuota volatilità di un’esistenza alienante ed insensata.

Ma Baumann non è né il solo, né l’unico cantore di questa distorta sinfonia. L’errore viene da lontano, dall’equivoco ingenerato da tutte quelle scuole di pensiero sociologico e filosofico che, all’insegna di certo malinteso strutturalismo, hanno pensato bene di porre l’accento su una concezione innaturale e distorta dell’uomo. Partendo da una rivisitazione in un senso marcatamente individualista della teoria sociologica ed antropologica marxista, si arriva ad un individuo che, incentrato sulla sfera dei propri bisogni materiali e pulsionali, di questi diviene alfine vittima, altro non potendo fare che soggiacere agli incessanti stimoli e dagli altrettanto effimeri momenti di fruizione offertigli, a mò di droga, da una Modernità Liquida che, di lui, ha fatto il proprio schiavo.

Emmanuel Levinas, Pierre Bordieau, Anthony Giddens ed altri ancora, sono gli oscuri profeti di questa jattura globale, figlia della presunzione di chi con la pretesa di voler perseguire a tutti i costi il “progresso” dell’umanità intera, si è fatto elitario portatore di un modello di alienazione ed autodistruzione della medesima. Credevano di vincere ed invece stanno perdendo clamorosamente. La loro poltiglia liquida, la loro melassa ideologica, ha disvelato il proprio volto, una crisi ed un’ondata di malessere dopo l’altra. L’individualismo progressista e buonista è entrato in una fase di crisi ed agonia, oggi senza alcuna possibilità di uscita. E per questo che, oggi più che mai, i suoi coribanti urlano e strillano, invano. Ci stiamo per caso, preparando, ad un nuovo e bigotto Medioevo ipertecnologico o che.....?

Tutto questo, al contrario, non può che costituire un ulteriore stimolo, ad iniziare a considerare un’ ”altra” idea di Modernità, slanciata verso un Futuro le cui radici affondano in quell’Archè che, sempre viva tra noi, ci parla attraverso simboli, ideogrammi ma anche afflati e slanci poetici, sgorganti dalla “Psichè” di un Uomo, finalmente ritrovatosi nel suo ruolo di aspirante ed anelante alla iperurania perfezione del platonico mondo delle idee. In questo sempre più proteso a superare i propri angusti limiti….Conciliare l’Essere con il Divenire, la Trascendenza con l’Immanenza, un Futuro di luci, acciaio e fasci di particelle sub atomiche sparate a tutta velocità con l’Archè ed il sorriso di antichi Dei, svelato da ideogrammi senza tempo….ma anche, come direbbe Guillaume Faye, Evola con Marinetti o, come potremmo dire ora, l’Ermetismo di Kremmerz con la fisica quantistica di un Max Planck o di un Wolfgang Pauli. Questa è dunque, la vera sfida per il Presente ed il Futuro. Al di là di preconfezionati e fallimentari schemi ideologici o ammuffiti nostalgismi senza alcuna via d’uscita.

UMBERTO BIANCHI

L’Ars Trasmutatoria – Paolo Galiano©

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Un’esposizione(1) univoca dei principi dell’Alchimia non è impresa possibile, perché la singola operazione, il significato dei “metalli” di cui si parla e perfino la sequenza dei “colori” a cui si fa riferimento può variare da autore ad autore, in quanto ciascuno riporta nel proprio scritto quella che è la sua personale esperienza e quindi il modo in cui ha condotto il lavoro, e ciò spiega le contraddizioni apparenti che spesso si incontrano tra un trattato e l’altro, e a volte le incongruenze presenti nella stessa opera.

Si aggiunga anche un’altra considerazione che mette in evidenza la difficoltà che si ha nel cercare di spiegare il percorso alchemico: gli autori hanno celato nei modi più complessi ciò che andavano dicendo, mescolando un granello di verità con una congerie di affabulazioni che servivano a rendere invece più oscura la trattazione e dando al lettore imprudente false piste da seguire. Basti pensare a quante volte viene sottolineato che si sta parlando del nostro Mercurio e del nostro Sole, per non parlare di certe “ricette”(2) così stravaganti, che però furono seguite alla lettera dai “soffiatori di carbone” che tentavano di riprodurre con la tecnica manuale ciò che andava invece inteso sotto il suo significato anagogico, dando così origine alla Chimica, che nulla in realtà ha a che vedere con la vera Alchimia.

Per cui ogni descrizione della Via alchemica va considerata parziale ed incompleta, perché l’Alchimia, come tutte le forme di espressione dell’Ermetismo, non è ciò che un moderno ricercatore definirebbe una “scienza esatta”, ma ha origine nell’esperienza del singolo autore che ha messo per iscritto la sua propria sperimentazione e può essere conosciuta solo mediante un atto di intuizione, nel senso etimologico della parola, da parte di chi vi si applica.

Quindi l’esposizione che qui diamo delle fasi dell’Opera va intesa come una delle esposizioni possibili, atta a dare una traccia su cui il lettore volenteroso dovrà applicare il proprio ingegno per comprenderne i possibili significati.

L’Alchimia è Arte trasmutatoria per eccellenza, la quale, com’è noto, sotto i nomi dei metalli descrive le operazioni che devono trasformare le componenti dell’uomo in “materia spirituale” (ci si perdoni il gioco di parole), adoperando per questo i nomi dei metalli, il Piombo per la componente corporea, il Mercurio per quella animica o lunare, l’Oro per la spirituale, ed i rispettivi colori che ad essi fanno riferimento, il Nero, il Bianco e il Rosso; sotto un altro aspetto le tre parti che compongono l’uomo vengono dette Sale, Mercurio (o Argento vivo) e Solfo. L’esistenza di una correlazione tra i metalli e le tre componenti dell’uomo dà luogo alla spagiria fisica o “materiale” e al tempo stesso a quella che potremmo chiamare “alchimia filosofica” o “alchimia operativa”.

Il nostro corpo è la nostra terra, la nostra anima è la nostra acqua. Questo [cioè il Magistero] pertanto null’altro è se non estrarre l’acqua dalla terra e riportare la stessa sulla sua terra”: le parole di Frate Elia(3) riassumono così l’Opera alchemica.

L’alchimista, prima di intraprendere l’opera, deve prepararsi con procedimenti adeguati di concentrazione e di respirazione(4) allo scopo mettere in azione dentro di sé un principio cosciente che si mantenga tale e si vada accrescendo durante le fasi dell’Opera, da identificare con quel “Mercurio doppio” che è forza animica mercuriale controllata da una “centralità” che non è ancora Oro ma “Oro artificiale”, un “Mercurio doppio che, essendo animato da un certo Oro condotto ad un certo grado di purità (ecco la sua preparazione ‘artificiale’), si trova già a partecipare approssimativamente alla doppia natura che è mèta dell’Opera(5). È il Mercurius binus o geminus che troviamo in Basilio Valentino(6) o in alcune “ricette” alchemiche, quale quella attribuita a Frate Elia: “Recipe Mercurii bini libram 1(7).

Nell’alchimia operativa senza questo principio di centralità cosciente il rischio di fallire è alto, perché il distacco nella prima Operazione del lunare dal corporeo lascia l’individualità, ancora non completamente de-personalizzata, priva di quell’appoggio fisico che per tutta la vita ha costituito per ogni uomo il (falso) centro della sua esistenza. In questa operazione l’alchimista si trova a combattere con il Leone Rosso, la forza travolgente e cieca, “irresistibile e selvaggio istinto di autoconservazione dell’Io animale(8), che si oppone alla rottura dell’individualità (il Piombo), donde quei rischi di paralisi, follia e morte a cui alludono in vario modo i testi, generando la “grande angoscia” di cui parlano alcuni autori come Boehme(9), che descrive così questo stato di “angoscia” che accompagna la “nascita del Mercurio”: “Il Mercurio ha al principio della sua nascita tre proprietà, il tremore del terrore per l’austerità [cioè la solitudine generata dal distacco dallo stato in cui si è sempre vissuto], l’angoscia [che nasce] dalla violenta sensazione del desiderio intenso e l’espulsione nella molteplicità, cioè l’essenzialità della vita [nella sua radice principiale], poiché il desiderio [dell’autoconservazione] attrae a sé in modo intenso e l’attrazione genera il movimento cioè il tremore e ciò che si imprime è l’angoscia; ma se la libertà [dai legami del corporeo] è compresa dentro [di sé], questo viene rifiutato”.

Questa “reazione” che si genera sul piano spirituale è osservabile nella pratica dell’Alchimia “fisica” nell’atanòr dove vengono trattate le sostanze durante le operazioni alchemiche.

Dice Avicenna(10) che “il lapis noster [cioè il corpo fisico, la pietra da sgrezzare in quanto impietramento del principio spirituale nel mondo della corporeità] si divide in due parti principali, cioè una parte superiore capace di ascendere ed una parte inferiore che rimane fissa nel fondo [del vaso di distillazione]… La parte inferiore è la terra che si chiama nutrice e fermento, e la parte superiore è l’anima che vivifica tutta la pietra e la fa rivivere”.

Il corpo fisico, Piombo e Saturno, racchiude come in una prigione e fissa entro i limiti del finito i due principi che sono identificati con il Mercurio, la forza vitale che permea il corporeo e fa da tramite unificante tra esso e gli stati superiori, e il Solfo, il principio igneo e comburente che si trova anch’esso imprigionato nel fisico.

Per la sua posizione intermediatrice il Mercurio si presenta sotto un duplice aspetto e con una duplice funzione, e l’”acqua mercuriale” che da esso si estrae all’inizio dell’Opera con la solutio è anch’essa doppia, da un lato forza vitale allo stato di potenza libera e non indirizzata che come un’acqua impetuosa travolge tutte le barriere, dall’altro energia fluidica ardente che distrugge la condizione di individualità propria di ciò che è in sé finito, tensione verso il principio agente non-individuato che è Sole ed Oro.

L’acqua che si ottiene con la prima separazione è quindi Mercurio d’acqua e Mercurio di fuoco, la prima è un’acqua che scioglie e distrugge, la seconda secca ed impietra: sono due Acque, “acqua umida” e “acqua secca”, ma in ogni caso distruttive, ed è un’Acqua che “i Filosofi dicono di per sé può fare tutto, tutto scioglie, tutto congela, tutto distrugge(11), ha il potere di solvere e di coagulare e di annientare la corporeità per estrarne i principii animici lunari. È la doppia acqua di cui scrive Frate Elia nel sonetto Solvete i corpi, una vera summa dell’Opera alchemica: “Solvete i corpi in aqua a tutti dico / voi che cercate fare Sole e Luna, / delle due acque poi pigliate l’una, / qual più vi piace e fate quel ch’io dico(12).

La preparazione di questa doppia acqua di Mercurio è descritta dai testi alchemici con frasi quali “eliminare l’umidità superflua” e “irrigare la terra secca”.

Qui si scorge il simbolismo di due Acque, corrispondenti alle due regioni dell’essere e del divenire: è la forza di Vita quale appare sotto l’una condizione o l’altra(13): per fare questo il “corpo” deve morire, e ciò è adombrato nella morte fisica dell’individuo a cui si riferiscono tutte le Vie iniziatiche, è il mezzo necessario per liberare lo spirito dal corporeo dell’individualità e dare la possibilità di giungere alla ricomposizione suprema come Oro.

L’operazione per mezzo di queste due Acque è quanto viene definito come Via Umida e Via Secca: nel primo caso ci si affranca dalla servitù del corporeo liberando il principio di vita che è il Mercurio stesso, nel secondo il Fuoco presente nel Mercurio è dominato da una volontà già esercitata e diretta verso il distacco dalla materialità(14). A questo corrispondono le due possibilità che gli alchimisti definiscono come “bruciare con l’Acqua” e “lavare con il Fuoco”.

Nella Via Umida l’azione si intraprende con un distacco della componente animica dal corporeo ottenuto con il supporto della temperanza e della progressione ascetica ma con il rischio di perdere la centralità della coscienza del Sé come identità nel momento in cui si abbandona l’appoggio nel fisico al quale ogni individuo è abituato. Nella Via Secca invece si agisce purificando e potenziando le facoltà presenti nel complesso corporeo e animico per giungere al distacco del principio spirituale “incarcerato” nel mondo materiale; in questa Via la difficoltà da affrontare è nell’individualità che può essere abnormemente accresciuta e dare luogo a deviazioni che nulla hanno a che vedere con la vera Via alchemica.

Ottenuto con l’una o l’altra tecnica quello che potremmo chiamare il “primo Lapide” o “Lapide inferiore”(15), occorre perfezionarlo attraverso il processo della triturazione (cioè la frammentazione e l’espulsione di ogni residuo psichico e animico) e successivi passaggi nella “Terra”, come descrive Avicenna(16): “In seguito questo Lapide così lodato occorre tritarlo sul marmo insieme con l’elemento estratto nella prima operazione dallo stesso Lapide. E questo elemento è detto aqua lapidis. E lo si deve fare più volte, finché il Lapide discenda una seconda volta in terra in virtù del suo assottigliamento e così riceva la forza superiore per sublimazione e quella inferiore con la sua discesa, cosicché il corporeo sublimando divenga spirituale e quando sia spirituale divenga di nuovo corporeo discendendo”.

Il principio animico estratto dal corporeo viene riunito a questo e il composto formato dall’anima volatile fissata e dal corporeo fisso reso volatile vanno sottoposti ad un’opera di eliminazione delle parti ancora individualistiche “tritandoli” sul “marmo”(17), immagine del primo principio cosciente solare (esso è infatti definito nei testi alchemici coruscans, cioè splendente) che è stato realizzato con la preparazione ascetica e tecnica all’inizio dell’Opera.

Il triplice “passaggio” dal basso in alto e dall’alto in basso è necessario per trasformare la “terra”, che deve essere resa “pura e netta” come l’acqua, e l’acqua, che deve divenire a sua volta corporea come la terra, come insegna Frate Elia nel sonetto già citato: “Dell’acqua fate terra pura e netta / e della terra acqua e l’acqua terra farete”.

“Terra” priva di ogni scoria fisica e animica che possa in qualche modo interferire con il successivo passaggio all’Opera al Bianco, facendo deviare dal corretto iter l’alchimista; questo secondo alcuni autori, tra cui Evola, è uno dei significati della “coda del pavone” a cui a volte fanno riferimento i testi, cioè la comparsa di “colori” attraenti ma falsi, di tonalità dal citrino al rosso, simulanti una diretta transizione dall’Opera al Nero all’Opera al Rosso saltando il passaggio al Bianco, segno del persistere di elementi dell’originaria individualità dell’operatore che interferiscono con la prosecuzione dell’Opera(18).

Una volta compiuto il primo processo di trasmutazione e di purificazione del Sale (corpo) e del Mercurio (anima), ora non più sotto il segno del Mercurio lunare  ma del Mercurio ignificato recante al posto del simbolo della Luna quello dell’Ariete , segno di fuoco per eccellenza, si potrà procedere al passaggio seguente dell’Opera al Bianco.

Ma questo processo di transizione tra l’Opera al Nero e l’Opera al Bianco non costituisce un passaggio immediato: ancora l’alchimista deve compiere un lungo lavoro. Dice Avicenna(19) attribuendo ad Ermete queste parole: “La forza di essa [cioè dell’Acqua] sarà perfetta se sarà tutta trasformata in terra, cioè se l’acqua si converte in terra”.

Questo passaggio è così descritto(20): “Infondi l’acqua sulla sua terra… sappi che la terra deve essere nutrita dalla sua acqua prima modicamente e poi in quantità maggiore, come si usa nella nutrizione dei bambini piccoli… perché la terra non dà frutti senza un’abbondante irrigazione… finché la terra e l’acqua non siano uno e così anche il corpo. Non si arresti la tua mano nella triturazione e nell’assazione(21) finché la tua terra non sia secca e bianca, perché l’albedo nasce da questa frequente e secca triturazione e assazione… E a questo va posto attenzione, che non vi sia troppa secchezza o umidità superflua che corrompano l’opera. Dopo la calcinazione irriga la terra moderatamente, perché se molto (irrigherai) avrai un mare tempestoso e se poco brucerà diventando cenere… Nell’opera ci sono tutti i segni di qualunque cottura [decoctio]: tre sono i colori principali, nero, bianco e giallo, quando diventa nera è perfetta ma non ancora portata a termine… Finché la terra non sarà bianca, tritala con la sua acqua e calcinala più volte, perché l’azoth(22) e il fuoco imbibiscano la terra ed eliminino fin nel profondo la sua oscurità. E quanto maggiore sarà l’abluzione tanto più la terra sarà bianca”.

La “terra” quando è “nera” è perfetta ma “non ancora portata a termine”, deve diventare “bianca” perché la prima parte del lavoro sia compiuta. Per fare questo è richiesta un’esatta proporzione nel rapporto tra Acqua e Fuoco, tra la forza animica del Mercurio e lo spirito ardente del Solfo, per evitare di provocare un “mare tempestoso” per eccesso di mercurialità o un’inutile cenere per eccesso di fiamma sulfurea, e facendo attenzione, come afferma sempre Avicenna, che “prima del bianco compare il colore verde, ma prima del bianco compare anche la coda del pavone”, mentre il colore citrino “compare tra la vera rubedo e la vera albedo”.

Ciò che rimane dopo la calcinazione della materia non deve però essere gettato via ma conservato con cura perché “non devi disprezzare la cenere, perché Dio le restituisce la liquefacibilità e alla fine il Re sarà incoronato per volontà divina con la corona rossa… Infatti il composto non si ha senza matrimonio e putrefazione, e il matrimonio è unire il sottile allo spesso, e putrefare, tritare, assare e irrigare finché non siano insieme mescolati e fin quando divengano una sola cosa”. E ancora(23): “Non si deve mescolare quanto rimane sul fondo [del contenitore], ma ponilo da parte, poiché ciò che resta devi sublimarlo per ottenere un Mercurio incorrotto, fin quando tutto salga in alto”.

Si giunge così all’operazione della “moltiplicazione”, con cui si dà al Lapide la capacità di rendere partecipi delle sue proprietà gli altri “minerali”: per fare questo(24) è necessario cuocere il sublimato ottenuto nel forno di riverberazione con calore sempre più crescente, prima ignis lentus, poi modicus e poi fortissimus (le gradazioni del fuoco indicano la necessità di procedere con prudenza per non “bruciare” il composto, cioè distruggere quanto si è operato finora25), finché la materia non ascenda più essendo divenuta fissa, in quanto il Solfo e il Mercurio si sono uniti in modo perfetto. “Lo spirito e l’anima non si uniscono se non mediante il calore – scrive Avicenna - solo così il volatile diventa fisso e dall’albedo si passa alla citrinitas e infine alla rubedo”.

Questo è “il magisterium magnum per avere un eccellentissimo Elixir al bianco e al rosso(26), e il lavoro giunge al compimento con “la proiezione, il complemento all’opera, gioia desiderata ed aspettata” e si ottiene “l’Elixir, il lapide vero e completo dei Filosofi, che converte il mercurio ed ogni metallo imperfetto in Sole e Luna, di cui non potrai averne di migliore”: l’unione di Solfo e Mercurio, del Re e della Regina, genera l’Androgine o la Res Bina secondo le diverse denominazioni attribuite dai Filosofi. Il “matrimonio” tra Mercurio (il servus) e il Sale (la nigra uxor) e la nascita dell’Oro (il filius flavus) viene così descritto da Frate Elia in una delle redazioni del suo Vademecum(27) seguendo l’allegoria dell’alchimista bizantino Archelao: Servus rubicundus nigram duxit uxorem, positis in fovea et ductis in infernum flavum filium protulerunt. Satis patet quod servus rubicundus sit lapis suprascriptus, nigra uxor plumbum, fovea aliqua vas, infernus ignis, flavus filius sol descendens a predictis.

L’Opera giunge così al suo compimento: l’alchimista ha purificato le componenti fisiche e animiche del suo essere, fissando le mobili attività delle facoltà psichiche (pensiero, sentimenti, passioni, ricordi) e rendendo volatile la parte corporea col richiamare in esistenza la sua vera origine non-materiale, ha liberato il proprio centro spirituale dalla limitazione dell’individuazione facendolo capace di riconoscere il suo essere principio trascendente e realizzandlo in Oro perfetto; la successiva unione dei Tre, spirito anima e corpo fisico, nell’Uno lo conduce alla rinascita in questa vita nella forma del “Corpo di gloria” o “Corpo di resurrezione”, lo stato descritto dalla sapienza antica come “divenire un Dio”.

Nell’àmbito della Gnosi cristiana scriveva Clemente Alessandrino(28) che lo gnostico che ha percorso “i gradi della mistica ascesa attraverso una luce sua propria” giunge “nel luogo supremo del riposo alla vera dimora del Signore. Ivi egli sarà, per così dire, luce ferma e stabile in eterno, assolutamente immutabile” e condividerà il trono con “gli altri Dèi, quelli che appartengono al Primo Ordine sotto il Salvatore”, i sette Angeli Primi-Nati.

All’altro estremo del nostro emisfero nel taoismo cinese è la pratica dello shi kiai, la “soluzione del cadavere”: “Il taoista morendo non lascia dietro di sé un cadavere ma al posto di questo fa trovare una spada o una verga-scettro, e risorge in un corpo immortale, trasformazione essenziale di quello caduco(29).

Nello Zhang Zhung Nyengyud del Bön tibetano si parla di tre “corpi arcobaleno” che il praticante sperimenta in vita: nel primo si trasforma “nell’essenza dei cinque elementi, le cinque luci pure, e questa persona non manifesterà i segni della morte”, nel secondo “il corpo del praticante si dissolve nella luce dell’arcobaleno dell’essenza dei cinque elementi al momento della morte senza lasciar dietro alcun residuo fisico”, nel terzo “ il corpo del praticante si contrae rimpicciolendosi al momento della morte, così che alla fine non restano che i capelli e le unghie(30).

Prima ancora, l’Egitto dei Faraoni celava le stesse conoscenze nella forma del viaggio notturno del Sole per risorgere al mattino seguente in tutta la sua potenza: le prove superate dal Dio, i personaggi che lo accompagnano e la loro progressiva trasformazione in divinità, i “suoni” che queste emettono durante la metamorfosi, infine la gloriosa uscita della barca solare dalla bocca del Serpente altro non sono che la descrizione di un iter di palingenesi dell’iniziato(31), palingenesi che ancora nella seconda metà del XVIII secolo il principe Raimondo De Sangro perseguiva con i suoi “esperimenti” alchemici nel cuore della Napoli borbonica.

NOTE 1 Il presente articolo costituisce la revisione corretta ed ampliata del I Capitolo de Lo Speculum alchimiae di Frate Elia, Roma 2016. 2 Alcune “ricette” che troviamo negli scritti più antichi, a volte definite dagli studiosi moderni come “ricette mediche” ma che mediche non sono, possono essere comprese solo attraverso la traduzione dei componenti di cui in esse si parla nei rispettivi principi che compongono il complesso umano nella sua triplicità. 3 FRATE ELIA Speculum alchimiae, ms C.2.567 della Biblioteca Nazionale di Firenze c. 22v. Si veda la trascrizione e traduzione integrale in GALIANO La sacra arte dell’Alchimia, Roma 2018. 4 Questi esercizi preparatori non sono mai esplicitamente riportati nei trattati alchemici, almeno per l’epoca del Medioevo occidentale a cui facciamo qui riferimento, probabilmente perché essi facevano allora parte di una conoscenza comune a tutte le arti e i mestieri, alle associazione esoteriche quali le confraternite religiose come a quelle più ristrette quali le corporazioni dei muratori, degli scalpellini, ecc. 5 EVOLA La Tradizione ermetica, ed. Laterza, Bari 1948 p. 128. 6 BASILIO VALENTINO De prima materia lapidis philosophici (in Musaeum hermeticum reformatum et amplificatum, 1678, Yale Library Z92 20 pp. 424-425): Adam in balneo residebat / In quo Venus sui similem reperiebat, / Quod praeparaverat senex Draco / Cum vires suas amitteret, / Nil est, inquit Philosophus, / Quam geminus Mercurius. 7 La “ricetta” è contenuta nella Ad album recepta magistri Alphonsi et Georgii del ms Sloane 3661 di Londra. 8 EVOLA La Tradizione cit. p. 123, ma si abbia presente che “Leone Rosso” è altresì il nome di un’operazione alchemica volta a realizzare il “sangue di Leone”, esposta nell’edizione dello Splendor solis pubblicata da Regan et al. a Londra nel 1920 pp. 90 ss. sulla base dei trattati a stampa dello Splendor solis a partire dall’edizione tedesca del 1598. 9 BOEHME De signatura rerum III, 14. 10 AVICENNA De alchimia cap. IV De extractione Aquae ex Terra (in MANGET Biblioteca chemica curiosa, ed. 1702 p. 629). Ad Avicenna (Abu Ali al Husain ibn Abdallah Ibn Sina), eminente medico e studioso del X sec. nato e vissuto in Persia ma di lingua araba a causa dell’invasione musulmana, sono stati attribuiti testi alchemici tra cui il De alchimia, o più esattamente Liber Aboali Abincinae de anima in arte alchimiae (Abincina è corruzione del nome di Avicenna). 11 AVICENNA ibidem. 12 Il sonetto lo riportiamo nella redazione del ms Riccardiano 946 c. 10a della Biblioteca Nazionale di Firenze, XV secolo. 13 EVOLA La Tradizione ermetica cit. p. 116. 14 Facciamo riferimento a quanto scrive EVOLA in La Tradizione ermetica cit. pp. 126 ss. 15 FRATE ELIA parla di una “Pietra superiore” nella Quarta operazione dello Speculum che conduce alla preparazione dell’Oro dei Filosofi. 16 AVICENNA ibidem (si confronti con la Tabula smaragdina: Ascendit a terra in coelum, iterumque descendit in terram, et recipit vim superiorum et inferiorum). 17 Il “marmo” è secondo PERNETY Dictionnaire mytho-hermétique, Genova 1979, s. v. la materia che “tritura, divide ed attenua l’oro dei Filosofi”, chiamato anche Saturnia vegetabile, la quale è “della razza di Saturno”, “uno dei principali ingredienti del magistero dei Filosofi”, detta vegetabile “perché durante le operazioni vegeta e racchiude il frutto dell’oro che produrrà a suo tempo”. 18 EVOLA La Tradizione ermetica cit. p. 141. L’ Autore peraltro considera (p. 151) la possibilità di una “via che si potrebbe chiamare ultrasecca, inquantochè essa condurrebbe direttamente all’ultima fase, al ‘rosso’, saltando ogni fase intermedia” in rapporto con l’uso di tecniche sessuali da parte di soggetti altamente qualificati. Il concetto di una via alternativa si ritrova nell’egiziano Libro di ciò che è nell’Amduat, ove nell’Ora Undicesima, quasi al completamento dell’operazione di rivivificazione di Râ, si parla della “sconosciuta e sacra via di Sais” (città sacra alla Dèa guerriera Neith) che è “presso la seconda porta delle tenebre”, il che potrebbe forse indicare che a questo punto della realizzazione si apre una duplice possibilità, ma non esplicitata con maggior precisione (rimandiamo a GALIANO La via iniziatica dei Faraoni, Roma 2016, p. 108).. 19 AVICENNA De alchimia cap. VI De modo sublimationis Terrae. Modo volo tibi narrare quod est Sublimatio (MANGET cit. p. 632). 20 AVICENNA De alchimia cap. V De Fundatione seu etiam Fusione Aquae super terram suam (MANGET pp. 629-630). 21 PERNETY Dictionnaire cit. s. v. definisce assazione “l’azione del digerire, cuocere, sublimare, volatilizzare, fissare la materia dell’Opera”. Secondo Arnaldo da Villanova assazione e contrizione (riduzione in polvere per azione del fuoco) sono da considerare sinonimi: per contritionem et assationem, quae idem sunt (in MANGET p. 694). 22 Azoth è il nome dato dagli alchimisti al Mercurio purificato, il “Mercurio dei Filosofi”, 23 AVICENNA De alchimia cap. VI De modo sublimationis Terrae (MANGET p. 631). 24 AVICENNA ibidem. 25 Il regime del fuoco alchemico è fondamentale nelle operazioni alchemiche, tanto che FRATE ELIA scrive nello Speculum alchimiae: “Tutta la perfezione consiste nel regime del fuoco, e lì si trova tutto l’arcano” (ms C.2.567 della Biblioteca Nazionale di Firenze c. 4r, scritto nel 1491). Alcuni trattati sono dedicati espressamente all’insegnamento di come realizzare i quattro gradi di fuoco in relazione alle due principali operazioni (si veda ad esempio il testo di Frate Elia Il Magistero della Pietra Filosofica, di prossima pubblicazione). 26 AVICENNA De alchimia cap. VIII De modo projiciendi medicina et tingendi quodlibet Metallum in Solem et Lunam (MANGET p. 632). 27 FRATE ELIA Vademecum, ms Pal. Lat. 1267 della Biblioteca Apostolica Vaticana c. 17va del XIV secolo. 28 CLEMENTE ALESSANDRINO Stromata VII 10, 56, 6 e 10, 57, 1-5; per maggiore conoscenza dell’argomento si veda GALIANO Gnosi cristiana e gnosticismo eretico, ed. Simmetria, Roma 2016. 29 EVOLA La metafisica del sesso, Roma 1958, p. 316. I lettori delle opere di Meyrink avranno riconosciuto il tema del suo romanzo Il Domenicano Bianco. 30 LOPÖN TENZIN NAMDAK RIMPOCHE Masters of the Zhang Zhung Nyengyud: Pith Instructions from the Experiential Transmission of Bönpo Dzogchen, Heritage Publishers, New Delhi 2010. 31 Rimandiamo per un’analisi del Libro di ciò che è nell’Amduat a GALIANO La Via iniziatica dei Faraoni cit.

  Paolo Galiano
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