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La Via del Nord: Valerio Crusco ed il ritorno all’Origine – Luca Valentini

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Ricordati Malcolm che nella vita, per essere un vero Uomo e membro del Clan,

devi imparare a guardare sempre nella giusta direzione.

Verso Nord, verso Thule, l’antica sede della Tradizione primordiale.

Dove tutto è cominciato. Questo vuol dire la frase incisa nel marmo!” (1)

Un marinaio esperto, che tante lune, tanti porti, tante tempeste ha salutato, possiede un bagaglio di esperienze e professionale, che davvero pochi “specialisti” moderni possono pensare minimamente di eguagliare, e tra le sue maestrie rientra sicuramente la conoscenza delle stelle, dei venti, ed ovviamente dei mari. Ad primo mozzo alla sua prima navigazione l’esperto navigante insegna alcuni comportamenti essenziali di orientamento, che poi saranno fondamentali per la propria maturazione di mare: se dovesse, il mozzo trovarsi sperduto, senza mezzi di comunicazione, senza orientamento, senza bussola, per orientarsi e navigare, dovrebbe alzare lo sguardo al cielo e fissare il Nord, prendendo il Grande Carro dell'Orsa come riferimento. Il Nord quale Origine è segnato anche dal magnetismo della Bussola, è l’inizio con la Tramontana della descrizione nella Rosa dei Venti dei marinai. E tale nostro iniziale riferimento, non sembri fuorviante per il tema che ci siamo prefissi di approfondire, perché le tecniche nautiche spesso sono associate alla mitologia ancestrale dei popoli, alla cultura primordiale, alla correlazione strettissima  che perdura tra l’Uomo, il Divino e le manifestazioni della Natura. La direzione di Settentrione non è una semplice variante della ordinamento cardinale, ma ne costituisce il Polo, l’inizio, il Principio da cui ogni cosa si palesa e si sviluppa. Come testimoniano testi tradizionali come i Veda o il Mahabharata, la terra ove il Sole non tramonta mai, spiritualmente è identificata al deva-yana, la via agli stati super-individuali a cui si può accedere durante la celebrazione del Solstizio d’Inverno, denominata, non casualmente Via del Nord:

Secondo la tradizione, in un’epoca dell’alta preistoria che viene a corrispondere alla stessa età dell’oro e dell’ <<essere>>, la simbolica isola o terra <<polare>> sarebbe stata una regione reale situata nel settentrione, nella zona dove oggi cade il polo artico della terra; regione abitata da essere i quali, in possesso di quella spiritualità non-umana…” (2).

Sorge il tema della mitica Thule, come sempre Evola fece notare (3), della mitica isola Ogigia, evocata da Omero (4), degli Iperborei legati al culto di Apollo (5) ed alle aurea figura di Abaris (6) e di Pitagora (7) a tale nume associate.

In tale solco tradizionale, si inserisce il bel romanzo di Valerio Crusco, La Via del Nord, pubblicato per le Edizioni “Passaggio al Bosco”, in cui una possibilità si determina, anche tramite una separazione violenta, anche tramite una malattia, tramite un lutto, la morte del padre del protagonista Malcolm. La bella e magistrale penna dell’autore tratteggia la vicenda di un uomo in carriera, immerso nella demonia del denaro, simboleggiata perfettamente tramite la City londinese, che quasi violentemente, inesorabilmente, la perdita del padre riconduce alle proprie memorie, alle proprie radici, non solo familiari, ma principalmente a quelle culturali, d’identità, spirituali. La morte, come direbbe forse un Hillman, è il processo di autocoscienza maggiormente adeguato alle grandi imprese, in particolare l’intrapresa che conduce al ritrovamento del proprio Io ancestrale.

E nelle belle pagine, anche come qualità e dettagli di stampa, di Valerio Crusco si rivivono tutte le emozionalità sottili dei Clan scozzesi dell’Evo antico, la magia runica ad esse inevitabilmente ricollegata, le fantastiche atmosfere de “Le nebbie di Avalon” di Marion ZImmer Bradley, quale riferimento costante della narrazione:

Per noi, la ricchezza sta nella diversità delle persone e nella loro dignità, sentirsi parte di un mondo antico eppure vivissimo, come le braci che continuano ad ardere sotto la cenere. Per noi le ricchezze sono l’onore, la giustizia, la correttezza, l’onestà ed il coraggio” (8).

Con piacere, nella lettura del romanzo, abbiamo notato – qualità assolutamente rara e che va ascritta a titolo di merito all’autore – una profonda competenza dei riferimenti tradizionali trattati, non solo a livello mitico-simbolico, ma anche a livello di comprensione magico – trasmutatoria. Non ci si ritrova, infatti, dinanzi ad una storia in cui l’archetipo si adagia in una stantia e fumosa rappresentazione, ma, al contrario, ritrova nella prassi divinatoria, per esempio, un’esemplare esplicitazione del proprio portato metastorico, Di tutto ciò l’autore è profondamente cosciente e sapientemente informato, quando accenna all’ispirazione di Volundr, quale fabbro divino:

L’Odr, secondo la sua cultura e secondo i Godi, era una particolare condizione di trance che permetteva il prorompere selvaggio di uno stato interiore di intensa esaltazione mistica. L’Odr era ciò che donava l’irrompere della veggenza nel vate, la profezia nell’oracolo, la vita nel seme sepolto sottoterra, la visione dello sciamano, il furore nei guerrieri in battaglia, la furia nel Berserker e l’ispirazione poetica nel cantone. Volundr era un fabbro ed ora, grazie al Possente Vate, aveva acquisito lo straordinario potere di fabbricare un canto ogni qualvolta realizzava una delle magiche statuette” (9).

Sono immagini di magia simpatetica che conosceva i terghi della Tradizione Nostra, dai simulacri e le statue viventi di Plotino e Porfirio, alle bamboline votive ritrovate presso la fonte romana di Anna Perenna, fino a giungere a tutta quella conoscenza platonica, che sopravvisse all’ecatombe galilea nella tarda età antica, nel Rinascimento fiorentino, nella Napoli dei Misteri e ben oltre…Ogni riferimento è, a nostro giudizio, ben calibrato e non offerto casualmente ai lettori, dalla consapevolezza spirituale del “Dies Natalis Solis Invicti” dei Romani, alla rappresentazione del sogno quale realtà onirica esprimente precise dinamiche dell’anima: esemplari, infatti, sono i riferimenti al tronco d’albero che si trasmuta in un Re ed alla lunga trasvolata sul Mare del Nord tra lo Jutland e le Ebridi Esterne (10).

Valerio Cruco, in conclusione, ha saputo comporre una pregevole romanzo, che forse ripercorre parti importanti della propria esperienza personale, quale cultore e serio studioso delle tradizioni del Nord, ma anche delle tracce che le stesse si possono ritrovare in posti meravigliosi come sono le alture austere delle Alpi Apuane. “La Via del Nord”, infatti, è un cammino a ritroso che prima a poi ogni serio sodale della Tradizione deve necessariamente compiere, affinchè la Weltanschauung, la visione del mondo e della vita, che ci è propria, quale dato genetico e prenatale, non si riduca a sterile astrattismi o vuota agitazione da mercato rionale. E la chiusura non poteva che essere delle migliori:

Rinnovatevi con il Sole e con ogni Sole rinnovatevi

(Ezra Pound).

Note: 1 – Valerio Crusco, La Via del Nord, Edizioni Passaggio al Bosco, 2018, p. 15; 2 – Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1993, p. 234; 3 – Ibidem, p. 239; 4 – Omero, Odissea, V, descrizione di Ogigia, quale “remota isola … dove si conoscono i Numi”; 5 – Virgilio, Ecloga IV, 5-10; 6 – Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. I, Edizioni Adelphi, Milano 1977, p. 322; 7 – Giamblico, La vita pitagorica, BUR, Milano 2001, XXVIII, p. 283ss; 8 – Valerio Crusco, op. cit., p. 113; 9 – Valerio Crusco, op. cit., p. 207; 10 - Valerio Crusco, op. cit., p. 294 – 5.

Luca Valentini


Elogio del Silenzio – Gianfranco De Turris

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Due immagini, due notizie.

La prima è una foto pubblicata da diversi giornali il 26 maggio. Vi si vede la innevata cima di una montagna e una interminabile e compatta fila di persone che salgono verso di essa dal basso. Che c’è di strano? C’è di strano che non si tratta di una montagna qualsiasi, ma dell’Everest con una catena umana di alpinisti che stanno aspettando pazientemente il loro turno per raggiungere la vetta più alta del mondo con i suoi 8848 metri. Attesa di vari giorni all’addiaccio, e infatti in una settimana sono morte dieci persone.

L’altra notizia è del 28 maggio in occasione del bicentenario de L’infinto, forse la più famosa poesia che Giacomo Leopardi scrisse nel 1819. Ecco quel che è avvenuto secondo quanto scritto sul sito di Casa Leopardi: “Grazie alla collaborazione fra Casa Leopardi e il Miur, gli studenti saranno invitati a dedicare la giornata al poeta e a uno dei suoi più noti componimenti. I ragazzi reciteranno L’Infinito in un flash mob che alle 11,30 attraverserà tutta l’Italia, collegandosi idealmente, da una scuola all’altra, con Recanati, città natale del poeta, dove il Miur premierà le scuole vincitrici del concorso dedicato al bicentenario della celebre lirica”. L’idea - purtroppo – è stata di una discendente del poeta, la contessa Olimpia Leopardi, accettata dal ministro dell’Istruzione Bussetti.

Che cosa hanno in comune due fatti tanto apparentemente diversi e distanti fra loro nel tempo e nel luogo? Hanno in comun una clamorosa violazione del silenzio, una offesa alla solitudine, la massificazione di una esperienza personale e interiore. Ricordiamo alcuni versi immortali:

"Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura".

E poi la conclusione:

"Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare".

Ecco cosa hanno in comune questi due incredibili episodi: il totale disprezzo per l’immensità, lo spazio infinito, la necessità di sentirsi soli e nudi di fronte a qualcosa di più grande e inaccessibile: la montagna più alta del pianeta, la volta del cielo sopra di noi. Entrambi ti annullano e ti fanno capire chi sei, come sei, dove sei. Ti fanno, contemporaneamente, rientrare in te stesso e ti fanno confrontare con una Natura che non è quella chiacchierona e demagogica degli ecologisti di maniera, ma quella sacra e magica che l’uomo contemporaneo non solo distrugge ma soprattutto continua a non capire pur credendo di difenderla. La gente che si mette in coda per raggiungere una vetta che costò incredibili fatiche e terribili congelamenti a coloro che la conquistarono per primi (l’inglese Hillary e lo sherpa Tenzing il 29 maggio 1953), l’ha trasformata in un fatto commerciale, alla portata di tutti coloro che vi giungono dai quattro angoli del mondo per poter poi dire, sfoggiando foto e autoscatti – oggi più noti col nome di selfie - digitali di cui pavoneggiarsi su Internet, su facebook, nel loro blog: “Ecco, io sono stato in cima al monte più alto della Terra. Bravo, no?”. Figuriamoci un po’…

Il turismo di massa in quei posti dell’Asia, per i quali ci vuole un permesso ed un pagamento al governo del Nepal di appena 11mila dollari a persona, ha prodotto tonnellate di sporcizia, rifiuti, escrementi, rottami, al punto che certi Paesi himalayani, ma non il Nepal che ha permesso questo sconcio di incolonnare un migliaio di turisti pieni di soldi, hanno deciso di bloccarne l’accesso per alcuni anni. Cosa è rimasto della meraviglia di questi luoghi? Oggi gli ecologisti e certi storici della montagna ingaggiati per deprecare la foto in questione, lanciano anatemi, ma al contempo dimenticano, e magari criticano speciosamente, coloro che questa tendenza denunciavano e denunciavano sin da quanto iniziò a manifestarsi negli anni Trenta, Julius Evola tra i rimi. Ma c’è anche chi critica questi limiti: il contingentamento degli alpinisti sul lati francese del Monte Bianco è stato infatti definito “antidemocratico” e “antipopolare”! E ben difficile frenare il “turismo di massa”: è tanta la gente che vuol raggiungere la vetta del Gran Paradiso (4061 metri in Valle d’Aosta) che per evitare “ingorghi” è stati deciso a giugno di stabilire dei “sensi unici” con in una grande città, quelli per chi sale e quelli per chi scende! Le meraviglie del progresso…

Cosa è rimasto del silenzio e della solitudine della montagna, del cammino interiore che deve compiere un vero alpinista? Cioè chi non ritiene di fare del mero sport agonistico, ma si mette personalmente alla prova? Chiedetelo al cantante rap Jovanotti al quale si è concesso di tenere un concerto a Plan de Corones, cima del Trentino-Alto Adige a 2275 metri, suscitando le proteste di Reinhold Messner (9 aprile 2019). Un concerto rap nel regno della solitudine e della pace silente, avallato addirittura dal WWF, è il trionfo di quella cultura plebea e quantitativa, di massa appunto. Dal silenzio delle vette al chiasso delle vette…Lo stesso si può dire di questi ragazzi e ragazzini inquadrati per schiamazzare L’infinito. Ehi, fanciulli, ma le avete lette le parole della poesia: “interninati spazi”, “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete”, “immensità”. Ma avete capito bene? Non schiere di studenti vocianti, non urla e parole ad alta voce, non massa di adolescenti e dei loro professori. Non folla ma rifugio in se stessi, non strepito ma sussurro e contemplazione in pace. Ma cosa mai vi hanno insegnato? E li hanno mai veramente letti questi versi il signor ministro leghista Bussetti e la signora contessa Olimpia, non degna erede del conte Giacomo, timido e introverso, che li scrisse a ventun anni? Benissimo le mostre a Recanati, ma di fronte i “flash mob poetici” (sic) Giacomo si sarà rivoltato nella sua tomba al Parco Vergiliano di Piedigrotta… Sarà pure lo “spirito del tempo”, come qualcuno giustificherà questa kermesse, ma non è certo un bello “spirito”. Non si rende “popolare” e “appetibile” alle incolte generazioni del XXI secolo un capolavoro che invece deve essere meditato e recepito interiormente.

Il vero problema che sta alla base di una totale incomprensione e ricezione de L’infinito è che nell’era della connessione sempiterna con tutti e dappertutto, nessuno è più capace di stare solo con se stesso. Si ha addirittura paura di esserlo, forse perché al proprio interno non c’è un bel Nulla. Si ha timore di non avere contatti con gli altri perché ci si dovrebbe confrontare con il proprio Vuoto. E’ nato l’Homo Connexus, involuzione dell’Homo Sapiens. Si è sviluppata oggi una sindrome del distacco dallo smartphone e ci sono centri specializzati per la disintossicazione. Nessuno riesce più ad essere disconnesso, cioè di vivere senza collegarsi ad altri in ogni luogo e momento. Insomma: non essere più capaci di restare soli (e autonomi) è diventata come una patologia che ti travolge e per cui devi essere curato…. Non è una distopia televisiva come Black Mirror, ma la Realtà. Simbolicamente l’“ermo colle” di Recanati di poche centinaia di metri, e l’Everest in Asia di migliaia di metri sono la stessa cosa: un’ascesa al cielo, un contatto più prossimo al divino, un luogo di meditazione e devozione, ed è per questo che su colli e montagne venivano costruiti templi e santuari. Così li vedevano gli antichi e i popoli collegati ad una Tradizione. Gli antichi in Occidente come in Oriente lo sapevano benissimo. Non luoghi in cui concentrare i ricchi vacanzieri e il turismo di massa, anche se magari ci si rimette la pelle, né la scusa per far scendere in piazza o in cortile adolescenti distratti perché questo si ritiene l’unico modo per “coinvolgerli” su un tema culturale.

Gianfranco de Turris

Sulla rivoluzione modernissima – Luca Valentini

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Bisogna rendersi conto che tutto ciò è vano, perfino a un fine semplicemente dimostrativo, se non si attacca il male alle radici le quali, per quel che riguarda il ciclo storico al quale qui restringiamo le nostre considerazioni, sono costituite dalla sovversione determinata in Europa delle rivoluzioni dell’89 e del ‘48” (1)

Disquisire lucidamente e serenamente circa i legami esistenti tra storia, metapolitica e Tradizione non è impresa semplice, particolarmente per le implicazioni di appartenenza religiosa o ideologica che possono intervenire, che possono introdursi erroneamente, per quell’umana tendenza di far discendere tutto al proprio livello, considerando, erroneamente, l’umano come riferimento indiscutibile, che abbaglia e non fa comprendere come, tradizionalmente insegnato, l’inferiore, quindi la storia e la politica, non possano indirizzare, giustificare, giudicare il Superiore, quindi la dimensione ontologica. Nel caso di specie il rifiuto della linearità storico-temporale è acquisizione comune di una visione del mondo tradizionale, similmente alla ciclicità come valore assoluto, come norma generale di analisi: al di là dei riferimenti indù, possiamo rifarci, per esempio, sia al tramando esiodeo sia alla conoscenza dei saecula da parte di Etruschi e Romani, oltre che a quello che gli Elleni denominavo “grande anno platonico”. Da ciò, è possibile comprendere simbolicamente e geometricamente, come i diversi elementi costituenti il ciclo possano relazionarsi in un preciso processo involutivo inerente alla dinamica organica e totale dell’intero ciclo e che solo apparentemente tali elementi risultano essere in contrapposizione dualistica, facendo parte, altresì, di un disegno cosmico di ben altra profondità. Tale prospettiva è assolutamente necessaria per comprendere come ciò che storicamente si palesa come uno scontro di civiltà o di idee, spesso debba intendersi come un processo “metabolico” invisibile che presuppone, quasi sempre, un ulteriore sviluppo ciclico di natura involutiva.

Da tale sintetica precisazione si può facilmente comprendere come autenticamente tradizionali possano essere considerate solo le determinazioni storiche rivoluzionarie che riconducono ad uno stato primordiale, che aspirano realmente ad un ritorno alla Sacralità delle origini, e che non siano mera rottura con la civilizzazione precedente, profana ribellione ad uno status quo degenerescente. Si evince che la portata rivoluzionaria debba necessariamente affermarsi come esclusivamente affermativa di una realtà persa, che si voglia rimanifestare, come emanazione di una perennità spirituale. Seguendo tale inquadramento, sarà facile per il lettore comprendere come le rivoluzioni che hanno indotto e propiziato l’avvento della modernità – e non quelle che l’hanno eroicamente combattuta – abbiano completamente tradito la propria definizione, apparendo nel corso della storia non come un’evidenza metanoica (cioè come un ritorno alle origini), ma come ulteriori fasi, ancor più accelerate, di un unico e medesimo processo involutivo. Come accennato inizialmente, un’analisi a riguardo è possibile solo qualora ci si ponga oltre sterili dogmatismi d’appartenenza, oltre la “difesa” di periodi storici, che per la loro stessa natura transuente, non comprendiamo come per essi si possa fare un tifo a favore o contrario, appartenendo alla dimensione del divenire e non a quella permanente dello Spirito, se non aderendo ad una risibile deriva nostalgica.

Nello specifico, analizzeremo le dinamiche pseudo-rivoluzionarie dei moti che condussero ai rivolgimenti del 1779 in America, del 1789 in Francia, ponendo in evidenza come tali accadimenti siano ben inquadrabili in una condizione di decadenza precedente (e non in contrasto con essa) e come, successivamente, tutto il loro bagaglio ideologico abbia costituito le fondamenta della società mercantilistica contemporanea. Studi davvero illuminanti in tal senso sono stati condotti da Bernard Fay (1893 – 1978), docente di letteratura francese al Collège de France, storico e specialista del XVIII secolo, amministratore generale della Biblioteca Nazionale (2). Condividiamo il parere di Gian Pio Mattogno, che nella nota introduttiva al testo di Fay (3), definisce le ricerche dello stesso pioneristici, per l’attenzione prestata alla dimensione intellettuale del processo di erosione posto in essere dalle varie centrali sovversive e da alcuni specifici personaggi. Il quadro che se ne desume è assolutamente diverso rispetto a molte e note opere di stampo controrivoluzionario. Non si prospetta una società, quella del ‘700 in Europa e nelle colonie americane, in cui si cristallizza una rigida dicotomia tra un Potere Politico ed un’Autorità Religiosa attanagliati da spinte di dissoluzione esterne, ma, diversamente da come spesso si crede, emerge un quadro quanto mai complesso e dinamico, in cui le sfere istituzionali sono primariamente fonti di decadimento di ciò che formalmente rappresentano, in cui anche la religione dominante è parte integrante del medesimo processo di dissoluzione. Testimonianza di ciò, come riporta scientificamente il Fay, sono le relazioni ben articolate tra la Corona d’Inghilterra, la Monarchia e la nobiltà francese, i Borbone e alte sfere ecclesiastiche con precisi ambienti di una massoneria secolarizzata, che aveva ormai abbandonato al letteralismo i principi ispiratori delle corporazioni operative e pitagoriche, che certamente non erano la fratellanza universale, tra tutti i popoli della galassia, e la libertà di pensiero: la strumentalizzazione di Giordano Bruno è un caso esemplare di tale processo, come ha ben scritto Luigi Morrone, sempre su queste pagine. Bisogna necessariamente comprendere a pieno tale diversità d’impostazione, perché non ci si trova dinanzi ad una dimensione tradizionale, politico o sacrale che sia, che viene assaltata dall’esterno, né ci si trova dinanzi ad una rivolta contro una visione della società obsolete. Qui, non vi sono steccati tra Ancien Règime e mondo rivoluzionario, come le vulgate pro o contro tentano di far credere. Vi è, al contrario, una sotterranea e grigia linea di contiguità – non molto dissimile alle dinamiche mafiose contemporanee che ben conosciamo -, in cui la pseudo-rivoluzione non è la causa del decadimento di un mondo, ma è solamente l’effetto vettoriale del decadimento interno di quello stesso mondo. Tale prospettiva – essa si rivoluzionaria – scompagina ogni velleità interpretativa dualistica della storia, emergendo tutta la pregnanza della morfologia tradizionale, che non ragiona per riferimenti evoluzionistici e lineari, ma per dinamiche assolutamente cicliche. Quanto evidenziato, Fay lo esprime saggiamente nei suoi scritti e evidenzia come due componenti hanno influito nella decomposizione della civiltà occidentale, quella intellettuale e quella dell’agire prettamente umano:

Nel Settecento la massoneria riesce assai meglio come forza sociale che come società di pensiero. Infatti si prefigge il compito di preparare un alimento intellettuale che si addica alle masse, che formi l’unità sentimentale di tutti gli uomini e la loro felicità comune. Perciò si preoccupa innanzi tutto delle nozioni che hanno un valore collettivo. Non sarà mai particolarmente appassionata per la letteratura, in cui l’elemento individuale ha una parte importante, mentre la scienza, con il suo carattere di universalità, l’attira e la impegna. Desaguliers, Franklin, Court de Gèbelin sono o credono di essere degli scienziati” (4).

Su di una linea interpretativa simile si pone Augustin Cochin (5), il quale nella sua interpretazione sociologica della Rivoluzione Francese ebbe il merito di penetrare dal profondo le cause che furono scatenati per il rivolgimento del Terzo Stato, quindi, borghese, perché tale fu la pseudo – rivoluzione francese dell’89, e non certo una ribellione di popolo, come la storiografia ha ormai assunto come dato certo e definitivo. Una linea rossa (oppure grigia come l’abbiamo definita precedentemente) coniuga, pertanto, la separazione dei poteri istituzionali di Montesquieu, alla cosiddetta Rivoluzione delle lettere operata verso il 1770 dalla “Chiesa laica” di Voltaire e degli Enciclopedisti, fino a giungere al Contratto Sociale di J.J. Rousseau. Ci si trova dinanzi parimenti, a quanto Tommaso Campanella rimproverava a Nicolò Macchiavelli, cioè dinanzi alla mancanza di una concezione dello Stato fondata su valori dall’Alto, il Politico che viene fondato ed informato dal Sacro:

Nessun impero né regno si è potuto reggere con la sola prudenza politica (…) Per questo Socrate affermò che lo Stato va in rovina se viene meno l’arte divinatoria, e Salomone che il popolo è perduto senza profezia“ (6).

Si comprenderà come tramite Campanella, ritroviamo la perfetta armonia tra Ordine divino-cosmico, Ordine civile-sociale, Ordine personale-psichico, in cui la Pace degli Dei, la Giustizia nel Politico, il riconoscimento del Demone nel cittadino, possano realizzarsi simultaneamente con un processo di identificazione palingenetica, tramite un’opera di visione e di equilibrio, di anamnesi e di riconquista di un ordine primordiale smarrito, dimensione platonica (7), un’Idea dello Stato che è ben diversa da quella che emergerà dalle rivoluzioni modernissime.

L’elemento costitutivo, emerso dalla Rivoluzione Francese, era l’individuo e la volontà dello Stato coincideva con la somma delle volontà dei singoli, non essendo, così, una vera volontà unitaria, l’ordine individualistico rappresentando una delle più tormentate fasi di vita che la stirpe europea abbia mai attraversato e questo, in poco più di un secolo, dall’affermazione del sistema liberale e di quello sociale, facendo precipitare nel dissolvimento ogni retta concezione del vivere: rammentiamo di sfuggita, come magistralmente già fatto in queste pagine da Giandomenico Casalino, come l’idea dell’organismo giuridico – sociale quale somma puramente numerica di cittadini, non fosse presente non solo in Platone, ma neanche nella Civitas Romana, in cui il corpo di appartenenza primeggiava rispetto alla singola individualità (8).

In base a ciò l’ordine corporativo si poneva, nelle sue diverse manifestazioni nella storia ma come espressione dall’Alto di un ordine civico, come contraltare di Montesquieu e di Rousseau, contrapponeva a quello individualistico per la sua finalità, che era quella di elaborare da una massa informe “l’entità morale del populus”, una Weltanschauung tradizionale, che si caratterizzasse attraverso un’efficace personificazione dello Stato, per la priorità data al volere e al benessere dello Stato stesso, rispetto a qualunque altro ideale libertario, come superamento dello Stato laico ottocentesco, liberale, individualista e contrattualista:

”Il regime capitalistico, pur rivelandosi in pratica un regime di sottomissione e di schiavitù completa, è almeno in teoria un regime di indipendenza e di completa libertà. Ma quale libertà? E’ la libertà dei senza – patria, dei bohemiens, dei nomadi che non hanno concittadini ma solo clienti…” (9).

Lo Stato è, pertanto, un prius-logico, la cui esistenza non è riconducibile all’attività degli individui: l’opposto è rappresentato dallo Stato Moderno, in cui l’autorità è fatta discendere non da un vero e giusto potere, ma dalla sopraffazione di una parte sulle altre, in cui si manifesta il totalitarismo del libero pensiero e del mercante che deve essere assente in uno Stato Tradizionale, organico, articolato, differenziato. Ancora grazie ad Augustin Cochin comprendiamo come l’opera di sovversione sia stata completa, non solo limitata al dominio della politica, ma anche estesa al dominio appunto intellettuale, e, nello specifico, alla sua componente artistica. Il livellamento, l’assenza d’ispirazione trascendente, nelle Francia rivoluzionaria, dovevano comportare della cultura popolare, anzi popolana, la stessa che trasformò, come scritto più volte, Notre Dame de Paris in una stalla:

Il mare, un mare monotono e sterile, piatto e cupo…un mare senza nome e senza patria ha coperto questo bel paese” (10).

Un’ultima analisi la riserviamo ad un personaggio che ha svolto un ruolo di primo piano nelle insurrezioni moderniste del XVIII secolo, sia in quella Americana (1775 – 1783) sia in quella Francese (1789): Benjamin Franklin. Bernard Fay gli dedica un capitolo intero, definendolo “il più ortodosso dei massoni del suo tempo” (11), analizzando tutta la sua influenza non solo nelle vicende americane, ma successivamente anche in quelle francese, segno di una continuità d’indirizzo ben nota. Nella sua figura, nei suoi contatti con Voltaire, con la nobiltà francese, con l’intervento francese a sostegno delle colonie americane in rivolta contro il dominio britannico vi sono tutti i prodomi di un disegno che va al di là della mera appartenenza massonica. Quasi contemporanea sorsero – e Franklin né fu uno dei massimi ispiratori – le ideologie che sarebbero poi servite all’involuzione ulteriore della civilizzazione occidentale e alla costituzione del nuovo ed attuale Gendarme del Mondo, gli Stati Uniti, in sostituzione del vecchio ed ormai logoro Impero Britannico.

Quanto detto, anche in riferimento allo stesso Franklin, serve a superare due stantie convinzioni circa la massoneria e la dimensione esoterica. La prima, come ha ribadito più volte Julius Evola nei suoi scritti (12), negli accadimenti storici in riferimento come in altri, è servita da veicolo, da agente rispetto ad influenze ancor più sotterranee ed disgregatrici che l’hanno eterodiretta. E’ d’uopo far propria tale considerazione, per coniugarla con quanto espresso all’inizio di codesto scritto circa il doveroso superamento di una visione dualistica, che non releghi le logge all’Inferno e le sacrestie in Paradiso, tutt’altro. Chi rammenta come il potere sinarchico dei Rothschild, dei Bauer abbia di fatto influenzato e finanziato ogni sconvolgimento politico dal ‘700 in poi, interessando anche parti che la storiografia ufficiale pone in estrema antitesi, può comprendere la seguente espressione di Malynski:

Così, sia durante il diciottesimo secolo che per tutto il diciannovesimo, la massoneria rappresentò l’anticamera inconsapevole del male, il veicolo <<buon conduttore>>, grazie al quale l’elettricità sovversiva raggiunse la politica e la società – ma non il centro generatore di questo male” (13).

Inoltre, le varie interpretazioni para-esoteriche del mondo pseudo-rivoluzionario non tengono conto dell’essenzialità e dell’elemento primo di un vero percorso esoterico, cioè la sua dimensione realizzativa. Ogni strumentalizzazione simbolica, ogni accostamento vagamente arcano viene inficiato qualora l’analogia tra Cosmos – Antropos – Polis non sussista e non si configuri come adesione, non solo ideale e vagamente emozionale, ma secca e priva di buoni intendimenti, perché autentica trasfigurazione metanoica, a cui abbiamo accennato tramite Platone e Tommaso Campanella. E quando il dato si pone su tale tema, non si può non constatare che si siano affrontate forze di natura e di origine anglo – francesi, dimenticandosi, però, che la dimensione latomistica fu vettore di esse, ma anche di altro, di un retaggio italico e specificatamente napoletano, che mal si conciliava sia con Parigi e Londra, sia con il potere ecclesiastico, perché preesistente alla logica dei rinculi della storia, come li definiva Hegel, cioè dei rimbalzi di un ciclo che è sviluppato completamente al nascere ed al lento morire del Cristianesimo, e rispetto al quale quel retaggio arcaico non è avverso, ma semplicemente estraneo.

Servano, queste nostre brevi considerazioni, a rammentare l’importanza della terza dimensione della storia, che veda e riconosca in profondità le radici antitradizionali della modernità, ne colga il nesso con i vari accadimenti storici e sappia farci capire che il Potere è ormai vincente su tutta la linea e non serve più che esso si debba occultare, perché ora è divenuto il Verbo, che unicamente è possibile esprimere:

E’ nel quadro di una simile problematica che si definisce il concetto della guerra occulta. E’, questa, la guerra condotta inesorabilmente da quelle che, in genere, si possono chiamare le forze della sovversione mondiale, con mezzi e in circostanze ignorati dalla corrente storiografia. La nozione di guerra occulta appartiene pertanto ad una concezione tridimensionale della storia, che non considera come essenziali le due dimensioni di superficie comprendenti le cause, i fatti e i dirigenti visibili, bensì anche la dimensione in profondità, dimensione <<sotterranea>> dove si applicano forze ed influenze la cui azione spesso è decisiva e che non di rado non sono nemmeno riconducibili a ciò che è soltanto umano, individualmente e collettivamente umano” (14).

Note:

1 - J. Evola, Gli Uomini e le Rovine, Edizioni Mediterranee, Roma 2002, p. 61;

2 - B. Fay, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del Settecento, Edizioni di Ar, Padova 1999; 3 - B. Fay, op. cit., p. 22; 4 - B. Fay, op. cit., p. 258; 5 - A. Cochin, Le società di pensiero e la Rivoluzione Francese, Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini 2008;

6 - Secunda delineatio defensionum, I processi di Campanella, Napoli, Febbraio–Aprile 1600, Giugno 1601;

7 – Platone, Repubblica, 592b:“Esiste dunque nei cieli un modello per chiunque intenda vederlo e, vedutolo, fondarlo in sé stesso. Che siffatto esemplare esista o abbia mai a esistere in alcun luogo non importa, giacché questo è l’unico Stato di cui egli sia partecipe”;

8 – Giandomenico Casalino, Le ragioni dell’inesistenza della persona giuridica in Diritto Romano, pubblicato su Ereticamente il 18 Novembre 2018;

9 - E. Malynski, Fedeltà feudale, Edizioni di Ar, Padova 2014, p. 78;

10 - A. Cochin, op. cit., p. 200. Un panorama non dissimile, erede di tale deviazione, è ben visibile nell’età contemporanea, nella pittura, nell’architettura e nella vuota poesia;

11 - B. Fay, op. cit., p. 148ss;

12 - J. Evola, La Massoneria e la preparazione intellettuale delle Rivoluzioni, La Vita Italiana, anno XXXVIII, luglio 1940, anche in appendice al testo di Fay, già indicato in nota;

13 - E. Malynski, op. cit., p. 121;

14 - J. Evola, op. cit., p. 177.

Luca Valentini

Evola, l’«Ordo Templi Orientis» e la lotta di classe – Giuseppe Acerbi … in memoria!

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In occasione della prematura scomparsa dello storico delle religioni Giuseppe Acerbi, il prof. Ezio Albrile (di cui il lettore troverà un ricordo al termine di questo saggio), suo amico fraterno, ci ha trasmesso questa sua pubblicazione inedita. Che l'anima dello scomparso possa riposare in pace. La Redazione.

I. Evola cita Crowley con evidente ammirazione nei due capitoli finali del pur bellissimo, per altro verso, ‘Metafisica del sesso’. Ma purtroppo mostra di confondere l’iniziazione col sabba. Anche per il fatto della paralisi la versione ufficiale è quella del bombardamento, mentre si trovava in Austria [nell’originale, sbagliando, dicevo Germania]. In questo caso credo che la versione ufficiale sia quella giusta, altro non saprei. Mi risulta che Evola fosse comunque impegnato con giovani fanciulle [lo afferma persino un personaggio femminile del ‘Salò ovvero le 120 giornate di Sodoma’ di P.P. Pasolini] e quanto scrive in proposito nel libro suddetto non è rassicurante. Non voglio fare il moralista, il problema è un altro. Che Evola confonde i riti iniziatici veri, di tipo shaktico, con quelli di tipo tantrico-satanico. Tant’è che allude al coltello sacrificale con parole oscure, non degne di un vero sadhaka. Le ragazze consumate da Crowley e De Sade, che Evola voleva spacciare come shakti incapaci di elevarsi e resistere alle passioni della controparte maschile, erano delle povere giovani oggetto di torture fisiche e psicologiche. Come ancor oggi accade a chi è sottoposto ai metodi del mind-control. I metodi prima erano meno tecnologizzati, ma lo sostanza è rimasta immutata. Di queste cose gli evoliani in genere non parlano, si occupano solamente delle sballate teorie politiche che caratterizzavano lo scrittore siciliano.

Evola è conosciuto come il tradizionalista per eccellenza in Italia, ma non era un tradizionalisa ortodosso. In effetti, nel mondo luciferiano il culto della Tradizione – intesa quale semplice trasmissione dei miti e dei riti del passato, senza l’essenziale aggiornamento spirituale – ha sempre avuto un particolare seguito, come dimostra quel che sappiamo della Skulls and Bones statunitense. La Tradizione vera tuttavia è altra cosa, è legata a catene iniziatiche che vanno molto addietro nel tempo, fino ai primi uomini. A meno d’intendere per Tradizione il Satanismo, che è effettivamente ricollegato anch’esso ad antichi cerimoniali, ma in modo distorto e malefico. Vi è poi l’Occultismo, che è ancora altra cosa. Una contraffazione bella e buona, senza neppure quella patente di seriosità che ha il Satanismo. Sbaglia profondamente chi afferma che tutte le iniziazioni hanno un carattere deviato. Quella che io ho personalmente ricevuto da un guru indiano non è assolutamente deviata, ha un carattere invece genuino. Il fatto semmai è che quasi tutto, a mio parere tutto, in Occidente oggigiorno è deviato in tal campo.

II. La lotta di classe è il sottoprodotto della società moderna in disfacimento. L’idea che tutte le classi debbano trasformarsi in una sola è aberrante. Ciascuna ha le sue caratteristiche proprie. La suddivisione in Varna (‘Colori’, il termine ‘Caste essendo un termine improprio d’origine latino-portoghese) non dipende dal dominio e dalla sopraffazione cui Tu ed altri sembrate alludere, si basa sul fattore astrologico: Aria, Fuoco, Acqua, Terra. Questi sono i Varna venerati dagli Indoiranici e dai… Greci. Non altro. Rispetto ai 4 Elementi è possibile teorizzare una Supercasta originaria, quella sì realmente unica, donde tutte le altre sono originate. Secondo il mito palingenetico il ritorno imminente del ‘Nuovo Apollo’ (“iam redit et Virgo”, diceva Virgilio, in senso astrale) cui alludeva la IV Ecloga, avrebbe determinato la ricostituzione di un novello Eden. Colla conseguente formazione di un’unica supercasta dai tratti eterici e quintessenziali. Marx, da buon sionista (in senso modernistico) non era anche lui che un satanista. Infatti ha distorto tale principio a livello demonico e lo ha tramutato nella “società finale senza classi”. Ma, come ripeto, è la distorsione di un vero mito tradizionale. La Tradizione in ogni caso appartiene a tutti gli uomini, non ai ceti più abbienti. Come costoro fanno credere, ingannando. La Tradizione è la trasmissione umana della Rivelazione concessa ad Adamo nei primordi e Adamo significa ‘Uomo’. Non la lotta di classe serve, bensì la solidarietà verso tutte le classi sociali. Come insegnava Menenio Agrippa a Roma. Il vero conformismo è ripetere le cose dette da altri senza capirle sino in fondo.

L’oligarchia era considerata da Platone una tirannide e Platone faceva testo per tutti i Greci. Attribuire delle motivazioni economiche a tutti i fatti umani è errato. La società muta perché cambiano le idee. Persino il marxismo fa fede nel mutamento di idee, pur blaterando che è stata l’industrializzazione a cambiare volto al mondo. I paletnologi d’impostazione marxiana d’altronde, come… G.Childe, attribuiscono al Neolitico la formazione delle Caste. Cosa del tutto falsa. La verità, testimoniata dai miti e dalle leggende tradizionali, è che le Caste alludono al mutamento costante cui è stata sottoposta l’umanità in tutta la sua storia. Vale a dire, se ne è formata una alla volta. Prima la supercasta, poi il clero (versato nello sciamanismo), indi la nobiltà; in seguito è nata la borghesia ed, alfine, la servitù. Secondo un processo ciclico, dovuto sia a cause storiche sia a cause superstoriche. È vero che dei diversi mezzi di produzione economica hanno accompagnato codeste fasi umane, ma se ciò è avvenuto è stato solamente come sviluppo di date potenzialità insite nell’orda originaria, non come fattore trainante.

Sì, effettivamente, persino la nomenclatura divina e l’ordine gerarchico dei numi ha a che fare coi mezzi di produzione (dei oceanici dei pescatori, dei agrari degli orticoltori, dei delle piogge degli orticoltori avanzati ecc.), ma è sempre stata la cultura in senso spirituale – non antropologico – il veicolo determinante dello sviluppo umano. Ecco perché il sacerdozio ha sempre dominato, in quanto deteneva la cultura. E non lo faceva opportunisticamente quale instrumentum regni, come talvolta ha fatto in passato il clero cristiano. Lo faceva magistralmente, come i brahmani indiani o i sacerdoti toltechi. L’idea di veder dappertutto e in ogni tempo uno sfruttamento sociale dei miseri, delle donne, dei popoli inferiori è un‘idea peregrina di stampo modernistico. Non corrisponde alla realtà, se applicata all’Antichità. Le distanze sociali erano minime rispetto ad oggi. Faccio un esempio. Fra i Pellerossa quali erano le caste dominanti? E’ molto difficile stabilire delle differenze. E se differenze vi erano, erano più o meno quelle idealmente stabilite da Platone nella ‘Repubblica’, modello di tutte le utopie successive. Platone stabiliva 4 Classi, che altro non sono che i Quattro Stati feudali o le Quattro Caste indù. Le differenze non sono destinate a durare in eterno. Oggi non è più tempo di caste e in questo erra la Destra, senza per questo dover ammettere la teoria marxista. Tutte le classi sociali sono destinate ad essere riassorbite in una nuova umanità senza classi, per superamento verso l’alto delle stesse, non per defezione ed annichilimento delle classi superiori.

Giuseppe Acerbi   Ricordo di Giuseppe Acerbi (17 gennaio 1951- 6 giugno 2019)

Un corpo dimenticato in una casa dove abbondano gatti e qualche cane, ritrovato dopo quasi un mese dal trapasso. Non siamo in una anonima metropoli da un milione di abitanti ma in un minuscolo paesino da un centinaio di anime: nessuno si è accorro di nulla, in morte come in vita. Nessuno si era accorto di chi realmente fosse Giuseppe («Pino» per gli amici) Acerbi, geniale orientalista, scrittore – e in gioventù anche esordiente regista -, ma per i compaesani solo una presenza «strana», marginale, se vogliamo servirci di questo termine pur non avendone ancora valutato appieno la portata.

Al Liceo, Giuseppe Acerbi è già un ribelle; siamo negli anni ’70, quelli della contestazione, le sue provocazioni sono raccolte da un importante e allora esordiente giornalista musicale, Mario Luzzatto Fegiz. A queste prime esperienze faranno seguito tra il 1971 e il 1977 i classici viaggi in Oriente (India e Iran) e in Africa, e l’autoproduzione di un film in 16mm ispirato al mito anatolico (ittita) di Kessi. Il film, originariamente girato in b/n (negli anni ’90 rielaborato anche in una versione ricolorata) verrà presentato in diversi festival, senza purtroppo ricevere l’attenzione che merita.

Gli anni che vanno dal 1978 al 1984 vedono l’Acerbi impegnato ad approfondire le tematiche legate alle religioni e alle filosofie orientali. Si laurea all’Università di Venezia Ca’ Foscari in Indologia con il prof. Gian Giuseppe Filippi, con una monumentale tesi sulle origini indiane (principalmente il Mahābhārata) del Kālacakra. Una tematica legata all’avvicendarsi dei cicli cosmici, che segnerà in maniera profonda gli studi a venire. Dopo una breve collaborazione con il Dipartimento di Lingue e Letterature Orientali sempre dell’Università di Venezia, Acerbi inizierà una intensa attività pubblicistica che non sempre avrà riscontri positivi da parte degli editori.

Acerbi studia le fonti mitologiche del Medio ed Estremo Oriente con l’intento di svelare relazioni e analogie con l’epica del Medioevo romanzo. Una dimensione «comparativa» nella quale gli avvicinamenti e i paralleli assumono un significato completamente nuovo. Si pensi ad esempio ai cicli leggendari hindu e buddhisti legati alla versione orientale del Castello del Graal, cioè il Monte Meru. Collocato al centro del mondo, il Meru viene talora raffigurato a gradini e circondato dall’acqua; intorno vi ruotano il Sole e la Luna. Su di esso è intronizzato il Buddha con i suoi Bodhisattva, mentre la Fenice vaga sotto gli alberi. In un altro mito c’imbattiamo nella figura del Pescatore associato al Monte, al modo che il «Re Pescatore» lo è al Castello del Graal. È un motivo che l’Acerbi ha studiato esaustivamente in tante pubblicazioni. Basti ancora ricordare l’iconografia del Monte Meru circondato dalle acque dell’Oceano, sulle quali il Pescatore naviga nella sua Barca: un’epifania del dio Brahmā, un «Pescatore di Luce» talora duplicato nell’Avatāra del dio Viṣṇu noto come il «Pesce d’Oro», funzione in origine rivestita da Brahmā. È il custode della Montagna Sacra, nonché il suo gnomone o dominatore. Tutti questi esempi esprimono coerentemente un simbolismo unico: il «ricordo» di una forma ideale di esistenza e il «ritorno» a una condizione di perfezione interiore.

Il luogo della libertà è ben diverso dalla semplice opposizione, e non si trova neppure mediante la fuga. La vicenda di Giuseppe Acerbi, ribelle alla filologia ingessata e alla storia delle religioni incardinata su forme avulse del sentire, è emblematica per chi da un punto di vista «illuminato» ha tentato di creare una nuova ortodossia, questa volta fondata su norme editoriali e diacritici. Acerbi non ha mai accettato tutto questo, anche se i suoi lavori esprimono una acribia e una precisione infinite.

Se è vero, come pensavano Buddha, Platone e Shakespeare, che l’universo è un gioco di illusioni, e noi ne siamo le infime ombre teatrali, allora ogni evento si dissolve nella propria vacuità. Ma gli umani fantasticano, delirano, giocano senza sapere cosa stanno realmente facendo, esibiscono il gigantesco ego, ripongono la loro fiducia nel progresso, si credono immortali. Nell’agosto del 2007, l’Ufficio statale cinese per gli affari religiosi approvò l’«ordinanza numero cinque», una legge che doveva entrare in vigore il mese successivo e che regolava «le misure di gestione della reincarnazione di Buddha viventi nel buddhismo tibetano». Questo «importante passo per istituzionalizzare la gestione della reincarnazione» stabiliva le procedure attraverso le quali si compiva la reincarnazione – in breve, proibiva ai monaci buddhisti di reincarnarsi senza permesso governativo: nessuno fuori della Cina poteva influenzare il processo di reincarnazione, e solo i monasteri in Cina potevano fare domanda per averne il permesso.

Ezio Albrile

Il ritmo del desiderio: Evola, Jung e la luminosità dell’Io – Giovanni Sessa

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Auspichiamo da tempo che gli autori afferenti al pensiero di Tradizione siano letti oltre gli steccati eretti da scolastiche riduttive e dogmatiche e che le loro opere siano discusse, messe a confronto, con i grandi nomi del pensiero contemporaneo. Siamo stati pertanto piacevolmente colpiti dalla lettura del libro di Roberto Cecchetti, Il ritmo del desiderio. Da Jung alle pratiche filosofiche, edito da Mimesis (per ordini: 02724861657, mimesis@mimesisedizioni.it, pp.206, euro 22,00). Il libro è impreziosito dalla prefazione di Massimo Donà e dalla postfazione di Luca Siniscalco. La firma di Donà non è affatto casuale. Il volume che presentiamo è, infatti, caratterizzato da una significativa adesione-discussione delle tesi estetico-teoretiche del filosofo veneziano e di autori su cui egli ha condotto esegesi esemplari, non ultimo Evola. Sappia, inoltre, il lettore, che Cecchetti condivide con Donà una duplice vocazione: quella musicale (è batterista) e quella speculativa. Tale dato biografico, come rileva Donà in Prefazione, non è di scarso rilievo in quanto: «ogni esercizio autenticamente filosofico […] è quintessenzialmente autobiografico» (p.7).

Ed allora, per entrare nelle vive cose trattate da Cecchetti, muoviamo da quanto gli disse il suo maestro di batteria: «Sai qual è la differenza tra un buon dilettante e un vero professionista? Il professionista sa come trattenersi» (p. 18). Il musicista provetto ha la medesima qualità del saggio ed opera nello stesso modo: ha, in qualche modo, attraverso una prassi faticosa e lunga, ottenuto il controllo degli impulsi immediati, e riesce a trasporli nell’atto creativo. Come seppe fare, del resto, Socrate nel racconto del Simposio platonico. L’Ateniese rimase lucido, presente a se stesso, nell’ebbrezza alcolica. L’acquisizione di un tale stato interiore è la conseguenza del confronto con il terreno infido sul quale appaiono l’identità e la differenza, il mutamento e la permanenza, il tempo e l’eternità e, soprattutto, l’essere e il nulla. Il sapere di cui l’autore si fa latore mira, attraverso una domanda che non vuole oltrepassare il reale, a: «conoscere la leva segreta della sua possibile santificazione» (p. 19). Un pensiero siffatto è sintonico con l’esperienza estetica: pensa per immagini, nella consapevolezza che i concetti puri: «siano determinatezze assolutamente vuote» (p. 20). Il pensiero immaginifico, nel questo qui rileva l’altro. Memore della lezione musicologica di Marius Schneider, Cecchetti ricorda come simbolo illuminante di tale intuizione sia il tamburo, nella cui costruzione rituale sono posti in Uno, Cielo e Terra: «Il suono della cassa ha la profondità dello squasso tellurico […] il rullante può essere lo stato mediano della manifestazione che ogni tanto raggiunge il cielo […] e il piatto allora […] esplode come un boato celeste» (p. 17). Il suo suono, prodotto in illo tempore da una pelle di animale sacrificale, non tacita la dimensione tragica del vivere, perché è sempre unito alla dimensione del silenzio, nel quale, immediatamente prodotto, è riassorbito. Si mostra, nel suono, il principio infondato, il non consustanziale agli enti. E’ così che la pratica musicale e l’autentica filosofia, consentono di acquisire consapevolezza che i ritmi sostanziano le cose e abitano la nostra mente. Come nota Donà, la nostra ambivalenza ritmica si mostra quando un contenuto sale alla coscienza: ciò determina il contemporaneo negarsi, venir meno, di un contenuto inconscio: «Conscio e inconscio […] sono […] i poli in rapporto a cui, solamente, ogni atto psichico viene di fatto a costituirsi» (p. 9). La posizione di Cecchetti, originata da una evidente condivisione della pratica filosofica di Roberto Màdera, mira a recuperare negli uomini quella capacità di sintonizzarsi con l’identità degli opposti, sostenuta dalla prisca philosophia, oltre il logocentrismo dominante la modernità.

Il pensiero ermetico, mitico-simbolico, insegna come dalla ripetizione ritmica, che trova la propria scansione nel ciclo dell’anno, distinto in equinozi e solstizi, sortisca il novum. La modernità, chiosa l’autore, sorse dalla separazione di ritmo e contenuto. Ma anche in essa sono possibili uscite dal mondo: in ciò i magisteri di Baudelaire e di Benjamin risultano esemplari. Il flâneur, uomo fuori dal comune, nell’accelerazione della vita della metropoli moderna, attraverso la passeggiata ebbra, si sottrae allo scacco dell’utilitarismo reificante, mentre la prostituta di Baudelaire è essere doppio, è merce e venditrice, riflette la scissione contemporanea tra una natura sentita come fruibile e il tratto sacro, apparentemente irraggiungibile che alita in lei. Come ricomporre la scissione di conscio-inconscio, di natura fruibile e sacra, di essere e nulla? Seguendo un itinerarium in veritatem che ha come tappe significative, Evola, Jung e Neumann.

Per Evola il desiderio è, nella opzione oggettiva, mancanza. Noi desideriamo e, pertanto, bramiamo il possesso degli enti, inseguendoci vanamente nel futuro che il desiderare apre, senza mai possederci (la rettorica di Michelstaedter). Ma all’uomo è data un’altra possibilità: ponendosi in sequela con Novalis, Evola, a differenza di Kant, non ritiene che l’immaginazione sia una semplice facoltà, ma forza, assoluta e incondizionata, afferente all’inconscio, che si mostra prepotentemente nel desiderio. L’ Idealismo magico evoliano, rileva Cecchetti, indica la via per: «giungere ad attraversare e “padroneggiare” l’inconscio» (p. 55), perché è in esso che, attraverso la dimensione mitico-simbolica, si genera la mediazione con il reale. Sullo stessa tema si soffermò Jung: come Evola, lesse nell’oggetto-natura, non riconducibile immediatamente alla volontà, la necessità. I due percorsi si configurano, nel loro confronto con il luogo del desiderio, l’inconscio, quali filosofie della libertà. Tale iter, nota l’autore, è stato proseguito da Neumann, in un confronto serrato con il testo chiave dello psicanalista svizzero, ampiamente discusso da Cecchetti, Simboli della trasformazione.

Va detto che, opportunamente, nel volume vengono anche sottolineate le divergenze che distinguono il pensiero di Tradizione dalla via junghiana. E’ noto che Evola inserì la psicanalisi tra le espressioni, aspramente criticate, dello spiritualismo contemporaneo e che non fu, di certo, tenero con Jung. Per i tradizionalisti, l’inconscio corrisponde al subconscio, ma solo la dimensione del superconscio consente una reale integrazione dell’io nel Sé. Inoltre, i simboli, questa la lezione guénoniana, non sono prodotto umano, ma sovrumano. Nonostante ciò, Ritmo del desiderio, indica, con forza e persuasività d’accenti, la necessità di un confronto intellettuale e spirituale solo agli inizi, che va proseguito.

Giovanni Sessa

La Dimora del Sublime: l’Eros sacro secondo Luca Valentini – Umberto Bianchi

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Un libretto denso ed affascinante, “La dimora del Sublime: Metafisica e Ierofania di Afrodite”, di Luca Valentini,  edito dal Progetto Ouroboros, collana di studi sulla Tradizione Occidentale, di recente fondazione. Un testo che offre numerosi spunti di riflessione e che va a toccare un argomento trattato e bistrattato da letterati, critici, poeti e quant’altro: l’eterno tema dell’Amore, anzi di quell’Eros che, in Occidente, suscita brame e pulsioni, troppo spesso, assolutamente non rispondenti all’esatta valenza di questo aspetto dell’Essere. Sì perché Eros, altri non è che un fondamento ontologico dell’intera costruzione cosmica. Eros alimenta, sostiene, incanta, ma distrugge anche. Il libro del Valentini si articola fondamentalmente in “partes duas”. Una dedicata alla poetica e l’altra a quattro capitoli di riflessione. Eros/Amor è primieramente “Part Construens”, ispiratore di sentimenti forti e contrastanti e la poetica può esserne considerata una tra le più pregnanti espressioni. Eros/Amor/Afrodite, nell’antichità furono giustamente divinizzati, poiché sotto queste numinose personificazioni si cela la più portentosa sostanza dell’universo, in grado di scagliare l’animo umano sino alle vette della più elevata e luminosa sublimazione o sin nelle tenebre di una caduta senza fine negli abissi, della più oscura e degradante depravazione ed abbrutimento.

Eros può esser comparato ad una delle sostanze universali, che la scienza alchimica raffigura quali cardini dell’ordine cosmico. Esso può esser quell’ Azoth che, impalpabile avvolge ogni cosa, o il Sale che ispira ed anima le più elaborate combinazioni di quella Sacra Chimica che regola il mondo, ma può anche esser visto quale Venere, contrapposta a Marte, che la dovrà possedere per rinnovare l’ordine cosmico. Eros è “mania/furor”, da dosarsi con equilibrio ed attenzione, al pari di una accurata preparazione spagirica. Se gli Antichi, attraverso il mito del cieco indovino Tiresia, ci mettono in guardia dal cercare di carpirne il mistero con occhi profani, dall’Evo Medio dei Fedeli d’Amore, alla Rinascenza di Marsilio Ficino, dalla prima Modernità con Giuliano Kremmerz sino alla sua più avanzata fase con gli scritti di Massimo Scaligero e Julius Evola, Amor deve esser veduto ed inteso come veicolo di elevazione per mettere l’uomo, il miste, l’iniziato in grado di elevarsi via via, verso le più elevate sfere del numinoso, un po’ come accadeva con le Sacee babilonesi, il Tantra Yoga o con le antiche dionisiache.

Ma ad Eros/Amor/Afrodite è consustanziale una doppia natura. Cercare di smussarne le proprietà, diluendone la pura ed ignifera sostanza in arzigogolate combinazioni è quanto di più inutile si possa fare. Dioniso, Dio dell’ebbrezza, si accompagna ad una pantera, l’animale in cui si trasforma l’uomo durante le sacee babilonesi o le dionisiache del mondo classico. Venere/Afrodite si connette a Diana, dea della natura selvaggia ed a Dioniso, colui che esalta e veicola gli istinti. Eros è simbolo di sublimazione verso l’Assoluto, al pari dell’ immedesimazione nel perenne e ferino rinnovellarsi di una Natura senza fine né soluzione di continuità. Eros/Amor/Afrodite/Venus/Astarte nei suoi mille nomi, sembra porci di nuovo dinnanzi all’eterno dilemma che, per primo, davanti agli intorpiditi occhi di un Occidente, che tanto sapeva di stantia accademia, seppe porre il “padre putativo” della Modernità, Friedrich Nietzsche: Apollo o Dioniso? Eros investe di sé, ambedue questi irriducibili aspetti, ma ne è, anche, da questi due, irrimediabilmente diviso. Oscura ferinità contro luminosa ed algida armonia e solarità, sembrano l’un contro l’altro irriducibilmente fronteggiarsi.

Il libro del Valentini sembra indicarci una via d’uscita all’annoso dilemma, data proprio da quella poetica, da quella "poiesis-creazione” in grado di dare volto e parola all’ineffabile, all’Essere. E’ in quel linguaggio “parmenideo” che, dunque, sta la soluzione all’annoso dilemma di cui sopra. Quel linguaggio che, a detta di un Heidegger, rappresenta l’unica vera risposta al sopravanzare di una Modernità Globale, anch’essa stranamente divisa tra le suggestioni di uno iato alla perfezione, incarnato dalla Techne e dai suoi continui progressi e da una irrimediabile e ferina discesa nelle Tenebre, data dalla demonia dell’Economia e dall’alienante modello di società che essa va imponendo al mondo intero. Ed ecco allora, Eros/Amor/Afrodite/Venus/Astarte, d’improvviso, assumere l’aspetto di un armonico contorno di quella realtà, di quell’Essere che, inizialmente deturpato da una profonda frattura ontologica, ritorna così a comporsi in un armonico ed universale “Kosmos”.

UMBERTO BIANCHI  

Il testo è ordinabile su Amazon (https://www.amazon.it/Dimora-del-Sublime-Metafisica-Ierofania/dp/1079106111) e nelle maggiori librerie esoteriche d'Italia.

Atlantide e la trasposizione mitologica della stirpe radicale – Simöne Gall

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“Himmler volle sapere se in Tibet avessi incontrato persone con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Quando gli dissi di no, mi chiese in che modo pensavo si fosse sviluppato l’uomo e ascoltò in silenzio. Poi scosse il capo e disse: ‘Lei non ha la più pallida idea delle forze che realmente muovono il mondo’”. (Ernst Schäfer)

Nel singolare racconto proto-fantascientifico di Edward Bulwer-Lytton, The Coming Race (1871), poi ripubblicato come Vril, The Power of the Coming Race – da noi noto come La Razza Ventura e successivamente come La Razza Che Verrà) - , si narra di una misteriosa civiltà, residente al di sotto della Terra, nota come Vril-ya, la quale, grazie alla purezza di un potentissimo fluido energetico chiamato “Vril” è in grado di acquisire poteri illimitati, sia fisici che mentali. L’ipotesi che questa misteriosa energia fosse realmente esistita ha affascinato moltissimo gli studiosi del moderno esoterismo, e così il testo di Bulwer-Lytton nel suo insieme, che fu preso assai seriamente anche dai sostenitori dell'esistenza della leggendaria isola di Atlantide. “Vril, una forza cosmica primordiale, una tecnologia spirituale esotica che porterebbe a una nuova era utopica per l'umanità: la rinascita di Atlantide”. Questo enunciato apparve in alcuni opuscoli pubblicati a Berlino nel 1930 da un oscuro gruppo chiamato Reichsarbeitsgemeinschaft Das Kommende Deutschland (Società di Lavoro Imperiale della Germania Ventura). Il testo all’interno descrive la tecnologia della “dinamo atlantidea”, che avrebbe rappresentato qualcosa di nettamente superiore rispetto a una più moderna scienza meccanicistica. Grazie a questa tecnologia spirituale, dotata di un’energia illimitata, “gli Antichi Egizi ed i Maya avrebbero costruito enormi piramidi”.

Nel classico saggio di occultismo Il Mattino dei Maghi (1960), si afferma l’esistenza di una società segreta pre-nazista di Berlino – fondata all’incirca nel 1921 – chiamata Loggia Luminosa, ma nota soprattutto come Vril Gesellschaft, i cui membri si mescolavano alla Società Thule, ai teosofi e ai rosacrociani dell'epoca. Una giovane medium, Maria Orsic, fu un esponente di spicco della Vril Gesellschaft. All’interno della loggia, la Orsic capeggiava un piccolo gruppo chiamato Vril-Damen, composto interamente da giovani medium psichiche. Una particolarità del loro aspetto fisico era quella di mantenere i capelli esageratamente lunghi. Le chiome, intese dalle Vril-Damen come estensioni del sistema nervoso, fungevano da antenna per comunicare telepaticamente con altri mondi. La leggenda vuole che Maria ricevesse informazioni da presunte entità provenienti da Alpha Centauri, nel sistema solare di Aldebaran. Tali messaggi erano trasmessi in una lingua a lei sconosciuta, l’antico sumero. In seguito a successive decrittazioni, per conto di un’altra sensitiva della Vril, Sigrun, sarebbe emerso il progetto della costruzione di un velivolo circolare e i militari tedeschi dell’epoca avrebbero finanche acquisito tali notificazioni. Al di là di ogni ragionevole dubbio, tale impianto mitologico ci riporta a quello che sarebbe stato il futuro sviluppo di velivoli a reazione da parte della Germania, l'Me 262 o l'Ho 229, ma anche i missili - guidati e balistici - come il V-1 e il V-2 (la “V” attiene direttamente al termine “Vril”), la cui tecnologia avrebbe fornito la base per il programma missilistico-spaziale americano, poi immesso dagli scienziati dell'Unione Sovietica nelle loro già avanzate conoscenze nel campo.

Decenni prima che si costituisse la società di Maria Orsic, il racconto di Bulwer-Lytton fornì ad Helena Blavatsky, fondatrice della teosofia, lo spunto per pronosticare l’avvento di una o più nuove razze. Blavatsky utilizzò la parola "razza radice" come termine tecnico per descrivere l'evoluzione umana durante gli immensi periodi di tempo della sua cosmologia. Le rivelazioni della Blavatsky e di altri teosofi come Annie Besant, Charles Webster Leadbeater, Rudolf Steiner, condotte tramite supposte capacità chiaroveggenti, contribuirono a diffondere una concezione di Atlantide come luogo ideale e primordiale della sapienza e della civiltà umana. Tra i punti in comune delle loro tesi vi era la suddivisione della razza atlantidea in sette sotto-razze, cui avrebbero corrisposto sette epoche di sviluppo e di progressiva evoluzione del genere umano. Platone, il primo in assoluto a parlare di Atlantide, narra della leggendaria isola nei dialoghi intitolati Timeo e Crizia (IV secolo a.C.). Riscoperta dagli umanisti nell'era moderna, la storia di Platone ha ispirato, come sappiamo, teorie ed opere utopiche di numerosi scrittori dal Rinascimento in avanti. Il Timeo rivela che l’isola, prima di inabissarsi senza mai più riemergere, sarebbe stata una potenza navale situata "oltre le Colonne d'Ercole" che avrebbe conquistato molte parti dell'Europa occidentale e dell'Africa novemila anni prima del periodo di Solone (pressappoco nel 9600 a.C.). Venuta meno la conquista di Atene, Atlantide si sarebbe inabissata nell’arco di un giorno per mano di Poseidone. Il nome dell'isola è derivativo di Atlante, leggendario governatore dell'Oceano Atlantico, nonché figlio di Poseidone e, secondo Platone, il primo re dell'isola. Essendo una storia funzionale ai dialoghi di Platone, Atlantide dev’essere intesa, secondo i suoi studiosi, come un mito primariamente concepito dal filosofo greco per esprimere le proprie idee politiche. Le interpretazioni di questa storia, tuttavia, sono innumerevoli, tanto che gli appassionati e i ricercatori hanno sempre considerato il racconto di Atlantide geograficamente e storicamente attendibile. Nell’antichità, tuttavia, Aristotele, discepolo di Platone, non credeva all’esistenza di Atlantide, liquidandola come una mera invenzione del di lui mentore ("L'uomo che l'ha sognata, l'ha anche fatta scomparire”, avrebbe asserito a suo tempo).

Accanto all’Atlantide illustrata da Platone, potè svilupparsi la saga dell’isola di Thule, terra che diversi antichi collocano nell’estremo nord, a sua volta impiegato come scenario ideale per la rilettura nordico-razzista del mito dell’isola. Nei racconti di Thule, la rappresentazione mitologica del mondo ha in sé un tratto tipicamente nordista. La prima connessione fra Atlantide e i territori nordici, nondimeno, avvenne per tramite dell’intuizione di un autore svedese, tale Olof Rudbeck il Vecchio, che nel 1675 collocava in territorio svedese la base geografica dell’isola. Dalla mitologia greca si apprendono inoltre riferimenti al popolo degli Iperborei, anch’essi localizzati al nord, la cui leggenda, nelle varie trasposizioni, è stata spesso accostata alla narrazione di Atlantide e di Thule. (La tradizione situa gli Iperborei in prossimità del Polo Nord.) Stando ai racconti, gli Iperborei sarebbero stati un popolo vegetariano fino al momento in cui, disgustati dall’esistenza, non si diedero la morte gettandosi in mare. Ne La Dottrina Segreta, ancora la Blavatsky riporta i contenuti di un antico manoscritto perduto intitolato ‘Le Stanze di Dzyan’, ove rifulgono le storie di Atlantidei nordici dipinti come eroi culturali (per Platone, diversamente, questi erano dediti prevalentemente alle arti militari). Costoro sarebbero stati la quarta "razza radicale" dopo quella polare, iperborea e lemurica, da cui sarebbe sorta la più famosa "razza ariana". La Blavatsky, in realtà, aveva ampliato le teorie dell'astronomo e letterato francese Jean Sylvain Bailly, il quale sosteneva che gli Atlantidei fossero la civiltà originaria del genere umano, responsabili delle civilizzazione di Cinesi, Indiani, Egizi e dei popoli antichi in generale. Egli collocò questo popolo primordiale nel lontano nord dell'Eurasia, poiché quella zona sarebbe stata una delle poche abitabili in un momento in cui la Terra, originariamente incandescente ed inospitale alla vita, aveva cominciato a raffreddarsi. Il costante raffreddamento della Terra le aveva però rese inabitabili, inumando l'ancestrale territorio di questa civiltà sotto lastre di ghiaccio e costringendo i suoi abitanti a muoversi verso sud.

Delle razze citate dalla Blavatsky alcune sarebbero creature con fattezze simili a degli animali; in essi sono inclusi gli aborigeni della Tasmania, gli australiani aborigeni e le tribù di montagna presenti in Cina. In più, un notevole numero di popoli misti cosiddetti "Lemuro-Atlantidei" sarebbero sorti da vari incroci con razze semi-umane quali i selvaggi del Borneo o i Vedda dell'isola di Ceylon. Rudolf Steiner, che si separò dalla Società Teosofica per fondare la Società Antroposofica, ha invece ipotizzato che l’intelligenza logica dovesse essere completamente carente nella popolazione di Atlantide. Per questo i suoi abitanti originali avrebbero avuto una memoria estremamente sviluppata. A differenza degli uomini, i quali pensano tramite concetti, essi ragionavano per immagini. A dispetto delle sue originali e discutibili teorie “razzistiche”, la Blavatsky credeva fortemente in una fratellanza universale di tutti i popoli, essendo questi dotati della stessa origine sia spiritualmente che fisicamente: “L'umanità è essenzialmente una ed è composta dalla stessa essenza".

Un rivestimento di natura storicizzante del mito di Atlantide fu poi fornito dal barone italiano Julius Evola (1898-1974), teorico dalla personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del Novecento, molto apprezzato nel periodo fra le due guerre. Per un certo lasso di tempo, anche Evola si orientò sulle linee di pensiero dei teosofi, che in seguito, tuttavia, avrebbe rinnegato. Nella sua opera, esponendo quanto segue in forma di “fattori storici”, Evola fonde la terra degli Iperborei e le isole Thule e di Avalon in un’unica “terra del sole”, propagandandosi dalla quale, l’uomo dominatore, la razza nordica, nel suo “trionfante superomismo” si sarebbe messa in cammino per affrontare le “assai meno valorose razze del sud”. In tale contesto, Evola espone anche quello che doveva essere il meccanismo del funzionamento di un mito secondo uno studioso di Atlantide quale era egli stesso. La veridicità storica di un mito, secondo lui, non è un aspetto così rilevante quanto invece dev’essere la sua funzione di strumento di manipolazione delle masse:

“La sovranità, se esercitata consapevolmente, si può ritenere, come la magia, comunicante in senso superiore. Il sovrano deve mantenere il suo dominio sul mito, ma non può soccombere alle illusioni e diventarne un fanatico”.

Queste illusioni devono essere utilizzate esclusivamente come preciso strumento per affascinare le masse ed esercitare su di esse la propria influenza. Evola, rifacendosi alle argomentazioni mosse da Georges Sorel sulla “teoria dei miti”, non fa che affermare il concetto di “strumentalizzazione funzionale” del mito stesso. Sorel definisce il mito come la veste esteriore di un’idea, idea intesa come sinonimo del concetto di immagine. Il mito, a cominciare da quello pesantissimo dell’Apocalisse, sarebbe quindi da intendersi come una successione di immagini in grado di far riemergere indirettamente sentimenti e precisi convincimenti. L’immagine dell’isola di Atlantide, pertanto, rappresenta un sistema in sé conchiuso, una superficie in grado di fornire una base geografica favorevole alla proiezione di una teoria totalitaria che permei in senso pratico tutti gli angoli dell’esistenza. Da qui, la pulsione nazionalsocialista di Hitler e di Himmler, che nell’inseguire le origini della razza ariana, forti di un’immagine catastrofica del mondo, elaborarono l’assunto secondo cui l’isola, da loro collocata nel nord del mondo, si dissolse dopo che i suoi abitanti, facenti capo alla razza primordiale, si mescolarono ad altre specie inferiori. Ispirati dalla “purezza atlantidea”, ancor prima della salita al potere di Hitler, Himmler inviò l'ornitologo e zoologo tedesco Ernst Schäfer in Tibet e in Nepal, dove ritenne fossero comparsi i primi Ariani. Assieme a questi vi era l'antropologo Bruno Beger, il quale operò - invano - una serie di misure di biometria sui nativi locali. L’ossessiva convinzione di un'unica e irripetibile civiltà indoeuropea millenaria, nondimeno, avrebbe condotto il movimento nazionalsocialista ad adottare come emblema ufficiale un antico simbolo indoeuropeo: la swastika.

Simöne Gall

Nei penetrali del Tempio: Reghini, Armentano, Evola e il rapporto fra Filosofia e Tradizione Misterica – Nicola Bizzi

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Il tema dello stretto rapporto esistente tra Filosofia e Tradizione Misterica, che fu compreso piuttosto bene nella prima metà del ‘900 da autorevoli autori quali Arturo Reghini e Amedeo Rocco Armentano, come dimostrano le opere di grande profondità e rilevanza che ci hanno lasciato, venne notoriamente affrontato nel 1934 anche da Julius Evola, nel suo saggio Rivolta contro il mondo moderno¹. Nonostate le innegabili diverse posizioni e visioni interpretative tra Reghini, Armentano ed Evola, riguardo alla Filosofia greca quest’ultimo aveva giustamente compreso che essa «ebbe quasi sempre il suo centro non tanto in sé medesima, quanto in elementi che avevano carattere metafisico e misterico ed erano echi di insegnamenti tradizionali»². E, sorprendentemente, Evola aveva parimenti anche intuito, e in maniera a dire il vero piuttosto corretta, le virtualità insite nella dottrina pitagorica del numero nei confronti del Platonismo. Ma tuttavia, e non me ne vogliano gli Evoliani,occorre sottolineare come, in quanto intransigente fautore del soggettivismo idealistico, il Baronesottovalutassela portata del significato vero e tradizionale dell’oggettivismo metafisico delle principali scuole elleniche di Sapienza, sia che si parli di quello platonico-trascendente dell’Accademia, che di quello aristotelico-immanente del Liceo. E, come ha esemplarmente osservato Piero Fenili in un suo saggio³, la mancata comprensione del significato e del valore tradizionali dell’oggettivismo metafisico impediva a Evola di riconoscere quanto questo rappresentasse lo sbocco positivo – anche per via delle acquisizioni iniziatiche da parte di Platone di importanti conoscenze misteriche dell’Eleusinità e della sua derivazione pitagorica nello specifico – del movimento iniziato da Socrate con il suo sforzo nella ricerca di definizioni e concetti validi da apporre ad ogni arbitrio sofistico. E così il Barone, che pure riconosceva la piena validità dell’istanza socratica ma sorvolava stranamente sulle conquiste dell’Accademia e del Liceo, riteneva che l’impegno socratico fosse approdato soltanto ad una fatale “deviazione”, in quanto «il pensiero che invece cerca di dare l’universale e l’essere nella forma che gli è propria – ossia razionalmente e filosoficamente – e di trascendere col concetto, in sede retorica, la particolarità e la contingenza, costituisce la seduzione e l’illusione più pericolosa, l’organo per un umanismo e, quindi per un irrealismo molto più profondo e pervertitore, che doveva poi sedurre interamente l’Occidente». Questa di Evola, come giustamente rileva Fenili, è una visione sostanzialmente incompleta, perché descrive un fallimento laddove vi è stato un successo, perché dalle definizioni e dai concetti di Socrate si passò all’ordine oggettivo delle idee platoniche e delle forme aristoteliche, dalle quali l’intera realtà è disciplinata e ridotta, per quanto possibile, da cháos a kosmos, secondo la luminosa istanza apollinea sempre presente nella più alta speculazione greca. Come ha sottolineato Daphne Varenya Eleusinia in un suo articolo sulla Teologia Platonica di Proclo, secondo il grande Iniziato della Scuola di Atene, la Filosofia e le Iniziazioni dimorano perpetuamente presso gli Dei e vengono fatte rifulgere nell’ambito della temporalità per tramite dei sacerdoti⁴. Vi prendono parte «quelle anime che si attaccano in modo sincero alla vita felice e fonte di beatitudine [eudaimonia]»⁵. E la prima trasmissione dell'Iniziazione, secondo Proclo, «rifulse in modo così venerabile ed ineffabile, come avviene nel corso dei Sacri Riti», saldamente posta «nei penetrali del Tempio»⁶.

               

Julius Evola

Rileva sempre la Eleusiniache il riferimento di Proclo ai “penetrali del Tempio” e il continuo rimando al “rifulgere” sono chiarissime allusioni ai Misteri di Eleusi; tutto rifulge in modo venerabile, semnos, ed ineffabile, indicibile, aporretos: espressioni notoriamente ricorrenti nel contesto dell’Eleusinità⁷. Come prosegue Proclo, la trasmissione della Conoscenza iniziatica si presenta successivamente anche all’esterno dei Templi, per quanto possibile, «ad opera di alcuni Sacerdoti autentici, che adottarono la vita che si confà all’Iniziazione ai Misteri»⁸; Sacerdoti che egli definisce «interpreti della suprema visione»⁹, «che esplicarono i precetti santissimi concernenti le realtà divine»¹º. In sintesi, le norme da seguire per l’apprensione e la trasmissione della Filosofia non sono molto dissimili da quelle richieste per l’Iniziazione, e la Filosofia rappresenta, per Proclo, un’estensione e un’integrazione della pratica iniziatica al di fuori delle mura dei Templi: la vita dell’Iniziato e la vita del Filosofo coincidono. Ma questa estensione e questa integrazione della pratica iniziatica al di fuori delle mura dei Templi menzionate da Proclo erano divenute, a quel tempo, anche una drammatica necessità, un percorso obbligato privo di reali alternative (se non quelle della morte o del martirio). Se già in precedenza il legame fra Filosofia e Iniziazione Misterica era stato forte e consolidato, ancora di più lo divenne al tempo di Proclo, un’epoca che, come vedremo più dettagliatamente nel secondo volume del mio saggio Da Eleusi a Firenze, nel capitolo Da Eleusi all’Accademia Neo-Platonica di Atene: la prima fase della clandestinit๹, coincide pienamente con la prima difficile fase della sopravvivenza in clandestinità della linea iniziatica di Eleusi. In tale delicata e complessa fase, caratterizzata dal raggiungimento dell’apice delle persecuzioni cristiane (raggiuntocon i cupi e terribili anni di regno del sanguinario Teodosio), dalla forzata chiusura e distruzione dei Templi ad opera delle “autorità”imperiali asservite al nuovo culto dominante e di folle di fanatici istigate dai Vescovi e dalla chiusura motupropriu del Santuario Madre di Eleusi ad opera dell’ultimo Pritan degli Hierofanti ufficialmente in carica, Nestorio il Grande, la trasmissione della linea iniziatica (e con essa la salvaguardia e la messa in sicurezza dell’immenso patrimonio sapientale e dottrinale dell’Eleusinità) potette avvenire soltanto dietro il paravento “ufficiale” della Filosofia e delle sue Accademie. Come avrò modo di spiegare in maniera più esaustiva nel secondo volume del mio saggio Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta, la Scuola Neo-Platonica di Atene venne fondata da Plutarco di Atene, nipote del Pritan degli Hierofanti Nestorio, proprio in concomitanza con la formale chiusura del Santuario di Eleusi.

               

Ritratto scultoreo del grande Filosofo ed Iniziato Proclo

Plutarco aveva ereditato dal nonno non solo il titolo pritanico e il relativo bagaglio di esperienza e conoscenza iniziatica e sacerdotale, ma era stato cresciuto e preparato negli anni dai Sacerdoti al difficile compito che seppe poi brillantemente adempiere: permettere alla linea iniziatica, e con essa alla Tradizione Misterica dell’Eleusinità, di sopravvivere e perpetuarsi all’interno della Scuola da lui aperta.E proprio Proclo, nel primo Libro della sua Teologia Platonica, ci fornisce una piena conferma di questa linea diretta di trasmissione – e quindi della piena continuità operativa – dei sedici secoli precedenti di esperienza e pratica iniziatica dell’Eleusinità. E lo fa chiaramente in vari passaggi, da quando si sofferma sul ruolo di Siriano come Maestro/Mistagogo, «guida per tutte le cose belle e buone», a quando lo definisce colui che «accolse nella parte più intima della sua anima in modo incontaminato la luce più genuina e pura della verità», colui che «rese partecipi [gli apprendisti e gli allievi della Scuola, n.d.a.] di tutta l’altra parte, quella misterica, della Filosofia di Platone». E, in particolare, quando lo definisce colui che «fece prendere parte a quelle dottrine che in segreto ricevette da quelli più antichi di lui»,colui che «rese compartecipi delle verità misteriche circa le realtà divine». E, soprattutto, infine, quando afferma che «dobbiamo lasciare a coloro che verranno in seguito memoria delle beate visioni», riferendosi chiaramente al gravoso ma nobile compito ricevuto di trasmettere alle generazioni successive la continuità della linea iniziatica Eleusina. Siriano, infatti, succedendo a Plutarco di Atene alla guida della Scuola, ereditò da questi (che a sua volta li aveva ereditati da suo nonno Nestorio) sia il titolo di Pritan degli Hierofanti che il relativo bagaglio di esperienza e conoscenza iniziatica e sacerdotale. Requisiti e cariche che, come vedremo, alla morte di Siriano passarono proprio a Proclo, e da lui ad altri ancora, in una linea di successione, in una Catena Aurea di trasmissione che fino ad oggi non si è mai interrotta.

Arrivati a questo punto, visto che poc’anzi ho chiamato in causa Arturo Reghini e Amedeo Rocco Armentano, non posso esimermi dallo spendere alcune pagine sul tema dell’Estasi Filosofica (tema che il grande Iniziato fiorentino e il suo fraterno amico e Maestro pitagorico calabrese, come più avanti vedremo, conoscevano piuttosto bene e anche per diretta esperienza personale), delle sue basi eleusine e orfico-pitagoriche e delle sue intime connessioni con l’esperienza iniziatica e con l’elevazione spirituale derivante dagli antichi Misteri.  Roberto Sestito, in un suo interessante articolo uscito nel 1991 su Ignis¹², ci ricorda come Porfirio, altro grande Filosofo neoplatonico, nonché Iniziato, teologo ed astrologo del III° secolo, nel suo commento ad un Oracolo di Apollo pronunciatosi intorno al suo Maestro Plotino, scrisse che il Fine Supremo gli apparve e gli si pose proprio accanto. Dalla biografia di Plotino lasciataci da Porfirio si apprende infatti che, seguendo il metodo indicato da Platone nel Simposio, a Plotino si manifestò il Fine Supremo, al quale egli si unì in un mistico connubio estatico.Ecco la celebre testimonianza di Porfirio:«E così, seguendo la strada indicata da Platone nel Simposio, gli apparve quel Dio che non ha né misura né forma, ma domina sull'intelligenza e su tutto l'intelligibile. Per il vero anch’io, Porfirio, posso affermare di essermi avvicinato e unito a Lui una volta sola, e ora ho sessantotto anni. A Plotino, dunque, apparve e si pose vicino il Fine»¹³. Plotino, ci riferisce Porfirio, aveva un’anima insonne, pura, sempre protesa verso il Divino, al quale anelava con tutto sé stesso. Meta, infatti, e fine per lui era l’accostarsi e l’unirsi col Dio “che è al di sopra di tutto”. E Plotino, nel periodo in cui Porfirio visse con lui, realizzò ben quattro volte questa unione mistica, come ci conferma sempre una testimonianza porfiriana:«Egli raggiunse quattro volte, per quanto so, nel periodo in cui rimasi presso di lui, questo Fine, con un atto ineffabile»¹⁴. Plotino, nelle Enneadi¹⁵, faceva una chiara distinzione fra praxis e poiesis. La praxis, in senso “tecnico”, esprime l’azione pratica, rivolta a tutto ciò che è sensibile ed esteriore e condizionata da esso. Si tratta, come sottolineava Maria Luisa Gatti Perer¹⁶, di una sorta di effusio ad exteriora in cui l'uomo si disperde e si aliena. E in questo senso specifico la praxis si oppone alla theoria. La poiesis, invece, è l’azione che coincide con la contemplazione e da essa dipende, è la facoltà creatrice di chi è intimamente arricchito dalla partecipazione metafisica all'Assoluto. La vera forza creatrice, quindi, secondo Plotino, non è la “prassi”, ma la contemplazione, e l’attività metafisica del “vedere” è di per sé feconda creatività.

Tutti gli esseri, per Plotino, aspirano alla contemplazione, e anche la praxis, che cerca di cogliere e di conoscere l’oggetto, sia pure per via indiretta, e desidera possedere il bene, ha come fine la contemplazione. Perfino la celia, lo scherzo e il gioco, secondo questo Maestro del pensiero, hanno come scopo la conoscenza e la contemplazione, e ogni prassi, sia necessaria che deliberata, in varia misura attinge ad essa. Anche le deviazioni nella prassi sono per Plotino una deviazione dei contemplanti dall'oggetto della loro contemplazione¹⁷.E non a caso gli Iniziati al secondo Grado dei Misteri Eleusini, l’Epoteia, erano (e tutt’oggi sono) chiamati “Contemplari”.  Come ho scritto nel mio recente saggioLa Via di Eleusi: il perorso di elezione e i gradi dell’Iniziazione ai Misteri, il primo grado dell’Iniziazione eleusina, che rappresenta l’accesso del profano ai Sacri Misteri e quindi il passaggio dallo stato di profano a quello di Iniziato, è rappresentato dalla Mysta (chiamata anche Mysteia o, in taluni casi, Mystaia).  La Mysta rappresenta quindi la condizione stessa dello stato di Iniziazione (Mύησις), ma anche il primo gradino di un potenziale lungo e faticoso percorso verso la Conoscenza di sé stessi, del mondo e degli Dei. Come scrisse Jean Marie Ragon, interessantissima figura di grande Iniziato sia Massone che Eleusino vissuto a cavallo fra il XVIII° e il XIX° secolo, la parola “iniziato”, nel suo primitivo significato (la cui etimologia richiama l’abito bianco che nei tempi antichi si riceveva), implica il cominciare una nuova vita: novamvitam inibat¹⁸. L’aspirante o postulante, cioè colui che chiedeva di essere iniziato, se il Tempio, i Sacerdoti o i Maestri preposti acconsentivano alla sua ammissione ai Sacri Riti, diveniva candidato e poteva così prepararsi a ricevere l’Iniziazione. Presso gli antichi Romani il candidatus era colui che aspirava ad una carica e che vestiva un abito bianco, appunto la toga candida. Anche il grande Lucio Apuleio scriveva che l’iniziazione è la resurrezione ad una nuova vita. Nell’antichità, soprattutto nelle fasi di massima espansione e diffusione dell’Eleusinità in tutte le province dell’Impero Romano, erano decine di migliaia le persone che ogni anno, provenienti da ogni luogo e senza distinzioni di sesso, ceto o classe sociale (ad eccezione di chi si era macchiato di gravi reati di sangue), ricevevano ad Eleusi, o in numerosi altri Santuari eleusini presenti in Europa, nell’area mediterranea o nel Vicino Oriente, l’Iniziazione e con essa la qualifica di Mystai, di Iniziati. La maggior parte di essi, però, si fermava al primo grado dell’Iniziazione, decidendo di non proseguire la propria esperienza verso gradi superiori all’interno di precipue Coorti ecclesiali, e faceva ritorno alle proprie case, alle proprie città o nazioni, alla propria esperienza di vita quotidiana, vedendo comunque il mondo con altri occhi. Essi si sarebbero realmente sentiti, da quel momento in avanti, “stranieri a sé stessi”, ed avrebbero acquisito una nuova visione delle cose e del mondo. Ricevendo l’Iniziazione, in loro si era risvegliata e riattivata quell’essenza, quella scintilla divina donata illo tempore dagli Dei Titani all’umanità figlia di Giapeto. Si tratta di un qualcosa che l’Eleusinità chiama “Notte”, un termine che esprime un concetto misterico assai superiore a quello di “anima” che comunemente intendiamo; esprime il concetto stesso dell’essenza divina titanica, che, tramite e grazie all’opera dei quattro Titani Creatori (Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo), alberga oggi potenzialmente in ogni uomo. Il Mystes, un po’ come l'Apprendista nella Massoneria (nella quale dell’Eleusinità sono confluiti non pochi retaggi, anche se spurii e deformati) doveva solo tacere ed apprendere, con la massima umiltà e deferenza, quegli insegnamenti dei Mistagoghi che erano consoni al suo grado e alle sue capacità di comprensione e di assimilazione di determinate verità. Se l’Iniziazione è una rinascita, la Mysta rappresenta, a livello simbolico, l’infanzia o la primavera della vita e allo stesso tempo un ritorno ad uno stadio primordiale e puro dell’evoluzione umana: lo stadio in cui si trovavano i primi uomini creati dai Titani Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo.

Come osservava Jean Marie Ragon, in effetti i primi uomini erano in qualche modo paragonabili a dei muti, non possedendo alla loro nascita, in origine, una vera e propria lingua¹⁹. Ecco perché il Mystes, come del resto l’Apprendista nella Loggia, non può parlare. Cosa avrebbe da dire? Su cosa potrebbe istruire gli altri? Il Mystes, ricevendo l’Iniziazione dopo un percorso preparatorio ed una necessaria purificazione, è soggetto ad una vera e propria morte rituale: egli si spoglia della sua profanità e della sua condizione di caduco, di semplice mortale, per entrare nel novero di coloro che, ricevendo in Eleusi il sale della vita, possono assumere in questa vita una maggiore consapevolezza e che, al termine di questa vita mortale, seguiranno un percorso ed una sorte diversi rispetto a quella riservata ai mortali ed ai profani. Ma è ricevendo l’Epopteia – il secondo grado dell’Iniziazione che veniva nell’antichità conseguito nell’ambito dei Grandi Misteri – e divenendo così un Epopte, che l’Iniziato vive l’esperienza di una morte rituale ancora più forte e sconvolgente, quella mors mystica che, trasformandolo in “contemplare” gli permette appunto di contemplare con occhi nuovi il mondo degli Dei e gli Dei stessi in tutta la loro magnificenza. Con l’Epopteia l’Iniziato diveniva organico all’istituzione ecclesiale, accedendo così ad una Coorte (l’equivalente eleusino di una Loggia) al cui interno poteva acquisire nuove conoscenze e ricevere nuovi apprendimenti, nuovi Semna, consoni al grado ricevuto. L’Eleusinità, infatti, e in particolare quella Madre, al di là dei suoi aspetti simbolici e rituali, ha sempre rappresentato un lungo cammino di studio e perfezionamento di cui l’Epopteia rappresenta la soglia vera e propria. E il termine Ἐποπτεία, composto daἐπί, epi (“sopra”) e opteuô (“vedo”, “osservo”, con radice in op), significa concettualmente “contemplazione”, ma, nello specifico dei Misteri, soprattutto la visione degli Dei che si ha con la pratica iniziatoria. L’Epopteia rappresenta quindi, come abbiamo detto, l’esperienza contemplativa culminante dei Misteri, ed è proprio per questo che uno dei principali significati del termine Ἐπόπτης è “Contemplare” o “Contemplare del Tempio”, cioè colui a cui è consentito contemplare gli Dei. Ma soprattutto, come evidenziò nel 1841 Jean Marie Ragon, «colui che vede le cose tali e quali sono, senza veli»²º.

               

Il Filosofo ed Iniziato Porfirio di Tiro in un’incisione settecentesca

Se la Mysta comporta per l’iniziando una morte rituale simbolica e “di concetto”, con l’Epoteia l’Iniziato vive l’esperienza di una morte rituale vera e propria.  Un discusso frammento oggi attribuito ufficialmente a Plutarco di Cheronea, ma che, prima dell’attribuzione voluta e di fatto imposta da Francis Henry Sandbach²¹, molti filologi classici ritenevano (secondo me a ragione) di Plutarco di Atene²², risulta fondamentale per comprendere la natura dell’esperienza epoptica:

«L’anima al momento della morte fa un’esperienza analoga a quella provata da coloro che si sottopongono all’iniziazione ai Grandi Misteri. Perciò anche il verbo teleutàn (morire, n.d.A.), come anche l’azione che esso esprime, sono simili a teléisthai (essere iniziato, n.d.A.).Dapprima si erra faticosamente, smarriti, correndo timorosi attraverso le tenebre senza raggiungere alcuna meta; poi, prima della fine, si è pervasi da ogni genere di terrore, spavento, tremore, sudore e angoscia. Ma poi una meravigliosa luce ci viene incontro e si è accolti da luoghi puri e da prati, dove risuonano voci e si vedono danze, dove si odono solenni canti ieratici e si hanno divine apparizioni. Tra questi suoni e queste visioni, ormai perfetti e pienamente iniziati, si diviene liberi e si procede senza vincoli, con ghirlande di fiori sul capo, celebrando i Sacri Riti insieme agli uomini santi e puri. Si osserva allora la massa degli uomini che vivono qui sulla terra, i non iniziati e i non purificati, schiacciarsi e spingersi nel fango della palude e nelle tenebre, attanagliati dalla paura per imali della morte a causa della mancanza di fiducia nei beni dell'Aldil໲³.

Tornando all’articolo di Sestito, egli si chiede in che modo avesse divinato l’Oracolo in merito all’Estasi di Plotino. E nel testo di Porfirio non fatica a trovare la risposta: descrivendo, nello stile aulico, poetico ed enigmatico che gli era proprio, il percorso della sua “anima demoniaca” verso la dimora beata ove soggiornare in compagnia dell’Aurea Stirpe degli Dei: Minosse e Radamante, Eaco, Platone e Pitagora. E, secondo Sestito, è proprio la presenza di Pitagora a questo consesso di Immortali che segna il punto di partenza, storicamente parlando, di una disciplina esoterica che ha avuto, in tempi a noi più vicini, e per l'esattezza in personaggi come Tommaso Campanella e Giordano Bruno, degli interpreti fedeli e dei seguaci scrupolosi. Infatti, quella che viene chiamata, dal titolo di un manoscritto conservato nel Fondo Magliabechiano²⁴ della Biblioteca Nazionale di Firenze, Pratticadell’Estasi Filosofica, altro non sarebbe, secondo l’opinione espressa da Reghini fin dal 1912, che vera e propria una pratica di “alchimia spirituale” di scuola pitagorica che era stata trasmessa e tramandata attraverso i secoli e che era ben nota a grandi Iniziati quali Tommaso Campanella e Giordano Bruno. Torneremo più avanti su questo straordinario testo, riportandolo anche nella sua versione integrale, e avremo modo di riflettere sul suo contenuto in compagnia di uno straordinario dialogo filosofico-iniziatico di Amedeo Rocco Armentano. Scrive Sestito, nel suo articolo, che «il racconto di Porfirio è nondimeno privo di veli quando cita l’Oracolo di Apollo sulla sorte toccata all'anima di Plotino e richiama alla memoria i passi più salienti dei Versi Aurei attribuiti a Pitagora»²⁵. Sestito pone poi a confronto le più salienti frasi di questa palingenesi divinizzante tratte dalla Vita di Plotino con la ritualistica pitagorica dei Versi Aurei, nella celebre traduzione che ne fece nel 1928 per il Gruppo di Ur Ercole Quadrelli sotto lo pseudonimo di Tikaipôs:

1 - Sciogliersi dai vincoli dell’umana necessità, ossia liberarsi dai legami del corpo, progressivamente «il corpo lasciando» (v. 70 degli Aurei Detti nella traduzione di Ercole Quadrelli), traendo dallo spirito la potenza e lo slancio per giungere «sì là dove ti esorto, ...e l’anima immune da mali» (v. 65-66) nelle giuste condizioni affinché l'anima possa godere dello splendore divino.

2 - Spezzare l’involucro per abbandonare la tomba dell’anima, che, nel linguaggio simbolico dell’Eleusinità Orfica e poi Pitagorica, voleva indicare la separazione cosciente dell’Essenza Divina prigioniera del corpo-tomba (σωμα-σήμα), partendo da una perseverante ed equilibrata catarsi della sostanza fisica e del suo rivestimento fluidico. Per la mistica orfica, infatti, il corpo (soma, σωμα) è visto come “tomba” (sèma, σήμα) dell’anima. Da qui, tutte le regole alimentari notoriamente attribuite agli Orfici e ai Pitagorici, e altre pratiche che andavano dal controllo del sonno e del pensiero fino al dominio dei sensi.

3 – L’accenno alle sofferenze e alle battaglie della vita che possono e debbono essere vinte con la potenza che presiede alla generazione della vita stessa, non altro significa se non «che gli uomini prove sopportan da essi accettate». E quel che si intuisce nell’esercizio del triplice esame d’ogni atto diurno eseguito prima di addormentarsi – rileva sempre Sestito – svela, quando è giunto il momento, il mistero della “Eterni-fluente Natura”, ovverosia della Divina Tetraktys sulla quale giuravano tutti i Pitagorici prima di essere ammessi al sodalizio iniziatico.

Lo scrittore, esoterista ed Iniziato Elémire Zolla, nel suo celebre saggio Uscite dal mondo, ha affermato che il messaggio reghiniano più autentico consiste proprio nel «tentativo severo e secco, talvolta toscaneggiante con disinvoltura violenta, di delineare l’esperienza centrale, l’Estasi Filosofica»²⁶.

             

Giordano Bruno in una incisione ottocentesca

Ha osservato Natale Mario Di Luca che questo riferimento di Zolla è evidentemente rivolto alla descrizione del transumanare o del pitagorico abbandono del corpo –vera e propria morte iniziatica – che Arturo Reghini dimostrava di ben conoscere e che una prima volta esemplificò attraverso l’integrale citazione dell’antico manoscritto conservato a Firenze che poc’anzi abbiamo menzionato, la Prattica dell’Estasi Filosofica²⁷, e poi, direttamente sebbene in terza persona, in un suo articolo su Ignis:«(...) se, spenta ogni viltà, se lasciata ogni speranza, rinunciando con assoluta e profonda sincerità a tutto quello che ne fa un individuo umano, ei si riduce, indifferente ma non insensibile, a vivere perindeaccadaver come un morto ambulante, e di nuovo si affaccia sereno ed impassibilmente all’orlo del pozzo metafisico, sente ancora la misteriosa e paurosa attrazione dell’antro immane, ma non ne subisce più la vertigine. E, securo, equilibrato e sereno,procede oltre, senza sottrarsi, senza smarrirsi; e s’interna, gradatamente e tranquillamente profondando. Si lascia afferrare dall’attrazione affascinante e solenne e trascinare invincibilmente giù per le liscie pareti del formidabileSantuario, fino alla cripta del Tempio. Ei prova allora la sensazione indicibilmente intima di insinuarsi attraverso una sottile commettitura che dà sul di dentro; e, sospinto, compresso, svesciato, ne sguscia via internandosi; oltrepassatene le pareti, si tuffa nel Santuario, e si inabissa nei penetrali dell'intima sua non impenetrabile natura. Come un morto, penetra nell’invisibile, nell’Ade, e diviene immateriale, a-eides. Talora la misteriosa attrazione opera in modo così veemente che ci si sente come sradicare, come divellere dai cardini; talora è così rapida che è come un salto, un rapimento; altre volte infine è come un tranquillo salir di marea, è un subentrare alto e fatale, una graduale, purissima, nitida effusione di una chiara alba spirituale, un lento e silente affiorare di una ieratica insostenibile beatitudine»²⁸. E Reghini tornò a parlarne due anni dopo su Ur, e stavolta in termini più chiaramente autobiografici, sia pure sotto il velo del semianonimato rappresentato dal suo pseudonimo Pietro Negri, come della “coscienza della immaterialità”:

«Circa quattordici anni fa stavo un giorno, fermo ed in piedi, sul marciapiede del Palazzo strozzi a Firenze, discorrendo con un amico; non ricordo di che ci intrattenessimo (...). Era una giornata affatto simile alle altre, ed io mi trovavo in perfetta salute di corpo e di spirito, non stanco, non eccitato, non ebbro, libero da preoccupazioni ed assilli. E, ad un tratto, mentre parlavo od ascoltavo, ecco, sentii diversamente: la vita, il mondo, le cose tutte; mi accorsi subitamente della mia incorporeità e della radicale, evidente, immaterialità dell’universo; mi accorsi che il mio corpo era inme, ossia al centro profondo, abissale ed oscuro del mio essere. Fu un’improvvisa trasfigurazione; il senso della realtà immateriale, destandosi nel campo della coscienza, ed ingannandosi col consueto senso della realtà quotidiana, massiccia, mi fece vedere il tutto sotto una nuova e diversa luce;fu come quando, per un improvviso squarcio in un fitto velario di nubi, passa un raggio di sole, ed il piano od il mare sottostanti trasfigurano subitamente in una lieve e fugace chiaritàluminosa. Sentivo di essere un punto indicibilmente astratto, adimensionale; sentivo che in esso stava interiormente il tutto, in una maniera che non aveva nulla di spaziale. Fu il rovesciamento completo della ordinaria sensazione umana; non solo l’Io non aveva più l’impressione di essere contenuto, comunque localizzato, nel corpo; non solo aveva acquistato la percezione della incorporeità del proprio corpo, ma sentiva il proprio corpo entro di sé, sentiva tutto sub specie interioritatis. (...). Fu un’impressione possente, travolgente, soverchiante, positiva, originale. Si affacciò spontanea, senza transizione, senza preavvisi, come un ladro di notte, sgusciando entro ed ingrandendosi col consueto grossolano modo di sentire la realtà; affiorò rapidissima affermandosi e ristando nettamente, tanto da consentirmi di viverla intensamente e di renderne conto sicuro; eppoi svanì, lasciandomi trasecolato»²⁹.

Nel 1928, quasi in concomitanza con la definitiva rottura dei rapporti con Julius Evola che portò Arturo Reghini, il fido Giulio Parise, e con essi l’intera loro pattuglia di valenti intellettuali pitagorici, ad essere estromessi dal Gruppo di Ur, la rivista pubblicò, dandone grande risalto, alcune istruzioni di catena provenienti da un circolo iniziatico che si era costituito a Roma qualche tempo prima. Al punto terzo di dette istruzioni, l’esercizio prescritto si avvaleva proprio della Prattica dell’Estasi Filosofica, che in tale contesto venne pubblicata però in forma incompleta e commentata in modo impreciso e frammentario. Vale la pena, a mio avviso, concentrarci su questo raro testo e sul suo contenuto, al fine di comprenderne il reale significato e, soprattutto, il messaggio che il suo autore intendeva trasmettere o veicolare. La Prattica, il cui titolo completo è La Prattica dell’Estasi Filosofica del B., che come abbiamo detto è conservata nella sua forma originale manoscritta del XVI° secolo presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (Codice Magliabechiano VIII:6), per il suo indubbio valore documentario è stata oggetto più volte, negli ultimi decenni, di pubblicazioni, accompagnate da commenti non sempre a mio parere adeguati. Più volte è stata attribuita a Tommaso Campanella o a qualche ignoto allievo di scuola campanelliana, ma questa attribuzione al Filosofo, mistico e mago calabrese o alla sua cerchia è tutt’altro che dimostrata. L’insigne italianista Alessandro D’Ancona (1835-1914), pur avendo inserito la Prattica in appendice alla sua dotta edizione delle Opere di Tommaso Campanella³º, lasciava trasparire dei dubbi, osservando che«la iniziale B. parrebbe togliere la possibilità che questa fosse opera del Campanella. Ma noi la crediamo sua o di qualche suo scolaro, e forse potrebbe esser anche di Giordano Bruno».

               

Tommaso Campanella in una incisione del 1654

In realtà, come ha osservato lo studioso di Alchimia e di Tradizione Ermetica Massimo Marra, che ne ha recentemente curato una riedizione critica sul suo sito internet, «non vi è nessuna traccia sicura che possa portare ad una attribuzione certa, e, d'altro canto, la concezione ermetica ed il richiamo a pratiche estatiche si inscrivono perfettamente nell'atmosfera culturale e nelle coordinate filosofiche di autori come il Bruno o il Campanella, e più in generale, nel vitalismo ermetico rinascimentale»³¹.  Marra, che definisce il testo «un rarissimo caso – nell’ambito della Tradizione Occidentale – di descrizione non criptata di un metodo meditativo-immaginativo con dichiarata finalità illuminativo-estatica, scevro da qualsiasi riferimento mistico-religioso»³², inquadra la Prattica all’interno della ricca temperie culturale e filosofica tardo-rinascimentale e seicentesca di area meridionale. Un’interpretazione, questa, senz’altro più condivisibile di quelle di precedenti studiosi che, non senza alcune forzature, hanno tentato di ascriverla ad una generica “mistica cristiana” di epoca rinascimentale o al controverso fenomeno del Rosacrocianesimo. Ma non concordo con Marra proprio sulla scevrità del testo da qualsiasi riferimento mistico o religioso. Il testo della Prattica, che fra poco esamineremo nella sua interezza e che si presenta visibilmente, per la forma, di area meridionale (si veda, ad esempio, il “sagliano” per salgano), ben lungi dal contenere riferimenti o tratti di mistica “cristiana o tantomeno rosacrociana, è a mio parere anche scevro dalle influenze ermetico-alchemiche ravvisate da Marra nella sua analisi. Esso riflette piuttosto le antiche pratiche e gli esercizi mistici e fisico-spirituali dell’Eleusinità Orfica e del Pitagorismo, connettendosi quindi direttamente con la religiosità iniziatica dei culti misterici pre-cristiani e con la Filosofia di grandi Iniziati di scuola neoplatonica come Plotino e Porfirio, ma anche di Proclo, Giamblico, Siriano, Marino, Asclepigenia e Plutarco di Atene.

Molto spesso, nella pur dotta saggistica profana inerente le molteplici espressioni della spiritualità rinascimentale, e in particolare nel rapporto fra queste e la forte ed esuberante “riscoperta” della Filosofia Neoplatonica e della religiosità “pagana” e nel loro straordinario riflesso sull’arte e sulla letteratura, si tende a fare, come si suol dire, di tutta un’erba un fascio e a bollare o a etichettare con eccessiva disinvoltura con il termine “ermetico” tutto ciò che appare come “eterodosso”, “fuori dai canoni”, “magico”, “esoterico” o “esoterizzante”. E si tende a ignorare, a non accettare, o a far finta di non sapere che quella straordinaria stagione di rinascita delle scienze e delle coscienze e di riscoperta, dopo secoli di oscurantismo clericale medioevale, dello splendore della civiltà classica greco-romana; quella straordinaria stagione che, fra il XV° e XVI° secolo, partendo dall’Italia e da Firenze in particolare, si irradiò su tutta Europa, fu possibile anche e soprattutto grazie all’azione di antichi ordini iniziatici e scuole misteriche che, come un fiume carsico, erano sopravvissuti, con il loro bagaglio di conoscenze e dottrine, a secoli di persecuzioni, rialzando finalmente la testa e riemergendo alla luce del sole. Ordini iniziatici e scuole misteriche che con il fenomeno del cosiddetto “Ermetismo” (nato sostanzialmente in area alessandrina in epoca tarda, non prima del I° secolo a.C., e sviluppatosi nei secoli successivi con connotazioni salvifiche tratte sincretisticamente in buona parte dal caotico e variegato bacino dello Gnosticismo) assai poco, se non niente, hanno mai avuto a che spartire, sia da un punto di vista strettamente dottrinale che storico, simbolico ed allegorico. In tale saggistica si tende così purtroppo a fare un indiscriminato abuso del termine “ermetico”, come se l’intera esperienza mistico-misterica tradizionale che caratterizzò e vitalizzò la stagione rinascimentale fosse interamente riconducibile all’Ermetismo, che rappresentò a dire il velo in tale contesto solamente una delle “anime” in campo e che ebbe un ruolo in fin dei conti piuttosto marginale rispetto a grandi Tradizioni sapientali ed iniziatiche quali quella Eleusina e quella Pitagorica. Tradizione che, come ho già sottolineato, con l’Ermetismo ebbero sempre ben poco in comune. A prescindere, quindi, che il testo della Prattica sia da attribuire a Tommaso Campanella, ad un suo ipotetico allievo, oppure a Giordano Bruno o a nessuno di questi, esso riflette una conoscenza misterica e sapientale marcatamente eleusino-orfica e pitagorica riconducibile ad un filone che, proprio nell’Italia meridionale, ha trovato una diretta linea di continuità e di trasmissione. Come ho evidenziato nel mio saggio introduttivo ad una recente riedizione di Sulla Tradizione Occidentale di Arturo Reghini³³, al di là della sopravvivenza in clandestinità del ramo Madre e dei filoni Figlia dell’Eleusinità e di quello Pitagorico, e dalla complessa realtà determinatasi dalla dispersione, nell’ambito dell’Eleusinità Madre, di alcune delle Tribù Primarie di Eleusi, frammenti non certo trascurabili della Tradizione sono sopravvissuti, in Italia e in particolar modo nelle regioni del Sud, nell'ambito di ristretti gruppi di famiglie, e un esempio calzante a riguardo ci è fornito da Roberto Sestito nel suo saggio Storia del Rito Filosofico Italiano³⁴, quando egli ci parla delle fratrie. Il contesto di riferimento a cui si riferisce Sestito, quello dei prodromi della Massoneria “egizia” napoletana, potrebbe apparentemente esulare dal nostro discorso, ma vedremo che non è così. L’autore evidenzia, infatti, che i fondatori della Libera Muratoria di Napoli del XIX° secolo, nei loro Prolegomeni storici alle Costituzioni del Rito Scozzese pubblicate nel 1820 (che con molta probabilità non sono altro che la trascrizione delle costituzioni del 1750 del Principe di Sansevero Raimondo Di Sangro) si riallacciano esplicitamente ad una certa tradizione “regionale” dell'Italia meridionale, una tradizione espressamente di carattere “pitagorico”, e che un discendente del Conte di Clavel, proprietario di una villa ad Anacapri (località in cui il Conte, finita la Iª Guerra Mondiale, era solito passare lunghi periodi dell’anno in compagnia di Amedeo Armentano e di Italo Tavolato) sosteneva di aver saputo che i gradi coperti del Rito mizraimita non erano mai usciti da Napoli, rappresentando per la nostra penisola una sorta di “pignora sacra”³⁵. E inoltre che, negli Annali del Rito Filosofico Italiano, in relazione al Rito di Mizraìm e al relativo Supremo Consiglio per la Francia, si parli di una “costituzione calabrese”³⁶.

           

Napoli: Stutua del Dio Nilo in Largo Corpo di Napoli (Piazzetta Nilo), scultura marmorea di epoca romana imperiale del II°-III° secolo d.C.

Come evidenzia Sestito, la locuzione costituzione calabrese nasconderebbe una precisa allegoria filosofica, come del resto anche quella rito egiziano, indipendentemente dal puro e semplice riferimento geografico, perché, come scrisse in un suo articolo Giustiniano Lebano, «La voce "Egitto" in arcano non era intesa per quel luogo geografico comunemente conosciuto. La voce "Egitto" è primandria di Aig-Ipt-Os. Spiegate le varie voci con l'ermeneutica s'intendeva ogni Urbe Arcana collegata alla vasta fascia dello zodiaco urbico dell'universo arcano. Egitto quindi è voce arcana che spiega il Mondo arcano. E gli Egizi furono detti i Subcostituiti»³⁷. Sembrerebbe, quindi, come evidenzia sempre Sestito, che a Napoli, nella prima metà del XVIII° secolo, sia venuta (o riemersa) alla luce una corrente iniziatica che, con criteri propri, non solo era molto antica, ma che si era insediata negli alti gradi del Rito Scozzese della Massoneria e tra i vertici di altri ordini esoterici di carattere misterico, ermetico, egizio e templare. In poche parole, «una superba rinascenza spirituale non limitata soltanto alla Massoneria e non dissimile da altre fioriture avvenute in altre epoche e con finalità alquanto simili»³⁸. Lo scrigno che conservava una semente così preziosa era probabilmente custodito nell’ambiente delle “fratrie”, misteriose associazioni tipiche dell’Italia meridionale, i cui vincoli di solidarietà furono sempre strettissimi e resistenti, per costumi e mentalità, a tutte le innovazioni di carattere sociale e religioso e che si sono perpetrate nel tempo senza bisogno di statuti o di regolamenti scritti. La fratria, nell’interpretazione che ci fornisce Sestito, era un sodalizio, derivato dal modello antico, potremmo tranquillamente dire dal γένος (ghenos) greco, che attraversava e trascendeva il modello della famiglia tradizionale, normalmente molto chiusa, per aprirsi a determinati individui anche di diverso livello sociale o di altre località geografiche, e si formava di fronte all’esigenza di mantenere e trasmettere un segreto, un sapere occulto o un bagaglio di tradizioni e conoscenze destinate a restare appannaggio di pochi e a non divenire di pubblico dominio o oggetto di una condivisione allargata. Un concetto, quindi, che può trovare similitudine nel clan di modello scozzese, o in quello di tribù (si pensi alle Tribù sacrali di Eleusi), vere e proprie famiglie allargate la cui esistenza e le cui azioni si fondavano sulla difesa e sulla tramandazione di una determinata tradizione.

               

Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, in un ritratto di scuola napoletana del XVIII° secolo (collezione privata)

In effetti, come ci confermano varie fonti, è proprio anche grazie all’operato di un qualcosa di molto simile alle fratrie che la Tradizione Misterica è riuscita a sopravvivere, con un filo ininterrotto, dall’antichità pre-cristiana fino ad oggi. Sia gli Eleusini Madre che quelli di altri ordini e riti questo lo sanno molto bene, perché, a prescindere dalla parallela sopravvivenza delle legittime istituzioni ecclesiali occultatesi all'interno delle Scuole Neoplatoniche, delle Accademie e di altre simili strutture, una cospicua parte dell’antico patrimonio misterico e sapientale è sopravvissuto all’interno di gruppi di famiglie, che potevano o meno essere in contatto fra loro (ma che per molti secoli preferirono non esserlo), famiglie che potevano essere o divenire anche di natura allargata, sul modello del clan, della tribù o della fratria, qualora se ne presentasse la necessità (ad esempio, nel caso della mancanza di un erede diretto per linea di sangue, ricorrendo ad adozioni di persone fidate o a matrimoni a tal fine pianificati). Famiglie in cui la tramandazione del patrimonio sapientale e della conoscenza iniziatica sovente avveniva secondo una regola non scritta ma motivata da tutta una serie di ragioni di sicurezza: quella del salto generazionale, con il passaggio – ad esempio – da nonno a nipote. E molte di queste famiglie sono coincise, nella storia, con importanti dinastie, casate nobiliari e signorie, come nel caso dei Medici, dei Gonzaga, degli Este, dei Visconti, dei Da Varano, dei Da Montone o dei Malatesta. Ma la stragrande maggioranza di esse, soprattutto nell’Italia meridionale, non si è mai palesata ed ha sempre fatto dell’anonimato una regola stessa di perpetuazione e di sopravvivenza. Appare decisamente significativo quanto scrisse a riguardo Giulio Parise nel 1947:«Qualcuno forse rammenta di aver udito accennare, o di aver letto, fugaci accenni ad una Tradizione autoctona, di pretto carattere Italico, trasmessa da epoca arcaica e tuttora esistente; qualche studioso di cose massoniche sa che, dopo la creazione della Gran Loggia di Londra, nel periodo della massima espansione della fratellanza iniziatica così rinnovata nella forma, vi fu chi, dall’Inghilterra e dalla Francia, venne qui, a cercare quelle regole dell’Arte che si sapevano qui note, e non altrove»³⁹. Ritengo quindi, con piena cognizione di causa, a prescindere da chi sia l’autore della sua versione manoscritta conservata a Firenze, che il testo della Prattica dell’Estasi Filosofica sia stato trasmesso proprio nell’ambito di certe fratrie dell’Italia meridionale detentrici e perpetuatrici di un'antica sapienza iniziatico-misterica eleusino-orfica e pitagorica. Vediamone adesso il testo nella sua versione integrale:

«Bisogna eleggere un luogo, nel quale non si senti strepito d’alcuna maniera, all'oscuro, o al barlume d’un piccolo lume così dietro che non percuota né gli occhi, o con occhi serrati. In un tempo quieto et quando l’uomo si sente spogliato d’ogni passione tanto del corpo quanto dell’animo. In quanto al corpo non senta né freddo, né caldo, non senta in alcuna parte dolore, la testa scarica del catarro et da fumi del cibo et da qualsivoglia umore; il corpo non sia gravato di cibo, né abbia appetito né di mangiare né di bere, né di purgarsi, né di qualsivoglia cosa; stia in luogo posato a sedere agiatamente appoggiando la testa alla man sinistra o in altra maniera più comoda... l’animo sia spogliato d’ogni minima passione o pensiero, non sia occupato né da mestizia, o dolore, o allegrezza, o timore, o speranza, non pensieri amorosi o di cure familiari o di cose proprie o d’altri, non di memoria di cose passate, o d’oggetti presenti; ma essendosi accomodato il corpo come sopra, deve mettersi là, e scacciar dalla mente di mano in mano tutti i pensieri che gli cominciano a girar per la testa et quando viene uno subito scacciarlo, et quando ne viene un altro, subito anco lui scacciare insino che non ne venendo più, non si pensi a niente al tutto, et che si resta del tutto insensato interiormente et esteriormente, e diventi immobile come se fussi una pianta o una pietra naturale; et così l’anima, non essendo occupata in alcuna azione è vegetabile né animale, si ritira in se stessa, et servendosi solamente degli instrumenti intellettuali, purgata da tutte le cose sensibili, non intende le cose più per discorso, come faceva prima, ma senza argomenti e conseguenze: fatta Angelo, vede intuitivamente l’essenzia delle cose nella lor semplice natura, et però vede una verità pura, schietta, non adombrata, di quello che si propone speculare: perciocché avanti che si metta all’opra, bisogna stabilire quello di che si vuole speculare o investigare et intendere, et quando l’anima si trova depurata proporselo davanti, et allora gli parrà d’avere un chiarissimo e risplendente lume, mediante il quale non se gli nasconde verità nessuna.

Et allora si sente tal piacere e tanta dolcezza che non ci è piacere a questo mondo che a quello si possa paragonare: ne anco il godimento di cosa amatissima e desideratissima non ci arriva a un gran pezzo. In tal maniera che l’anima pensando d’avere a ritornare nel corpo per impiegarsi nelle vil’opere del senso, grandemente si duole et senz’altro non ritornerebbe mai se non dubitasse che per la lunga dimora in tal estasi si spiccherebbe al tutto del corpo, percioché quelli sottilissimi spiriti né quali ella dimora se ne sagliano al capo, et però alcuni sentono un dolcissimo prurito nel capo, dove son gli strumenti intellettuali: et a poco a poco svaporano, i quali se tutti svaporassero, senz’altro l’uomo morirebbe. Et però sono più atti a questa estasi quelli che hanno il craneo aperto per la cui fessura possino exalare alquanto gli spiriti; altrimenti se ne raduna tanti nella testa che l’ingombrano tutta, et gli organi per così gran concorso si rendono inabili.  Questa credo che sia l’estasi Platonica, della quale fa menzione Porfirio che da questa Plotino sette volte fu rapito, et egli una volta, essendo che di raro si trovan tante circostanze in un uomo. Con tutto ciò in duoi o tre anni potrebbe anco succedere tre o quattro volte; et quelle cose che allora s’intendono bisogna subito scriverle et diffusamente, altrimente ve le scorderesti, o rileggendole poi non l’intenderesti».

Dettaglio di un'incisione rinascimentale a soggetto ermetico. Come rileva sempre Roberto Sestito nel suo articolo, l’esercizio descritto nella Prattica si propone un fine elevato: l’anima, divenuta “angelo”, arriva ad ammirare sé stessa, intuendo e contemplando ad un tempo la sublime essenza che la pervade e la vivifica. Questo atto contemplativo (quindi epoptico nel senso pieno del termine) gli Iniziati lo spiegavano con il conseguimento in un templum di uno stato di fissità, di un assimilarsi all’Uno. E l’atto dell’intuire lo consideravano come un movimento verso l’essenza delle cose, un rivolgersi per stare, in opposizione allo svolgersi dell’ex-stare, dell'esistere che consideravano uno stato inferiore di caduta⁴º. Secondo Sestito, si può sostanzialmente suddividere la Prattica in tre parti, sulla base di una classificazione ternaria che ricorre spesso in tutte le discipline di carattere pitagorico:

1 - Un esercizio sul corpo;

2 - Un esercizio sul pensiero;

3 - Un esercizio sulla mente-intelletto.

La parola “esercizio”, come osserva sempre questo grande studioso reghiniano, non deve trarre in inganno: si può trattare, nel caso specifico, di più esercizi strettamente collegati tra di loro che interessano oggettivamente una parte del nostro corpo con risonanze dirette o indirette sul resto del nostro microcosmo (basti pensare al ruolo assegnato dall'autore della Prattica alla sfera cranica e all'importanza di una certa fessura per comprendere come l'esercizio sul corpo vada preso in serissima considerazione). L'esercizio sul pensiero, che è sottilmente polarizzato sul respiro, è per Sestito sicuramente il più impegnativo di quello sul corpo, e il loro comune carattere con l'elemento aereo risulta evidente. Una volta postosi nelle condizioni richieste dall'esercizio ed essendosi messo in armonia con il ritmo luminoso del suo respiro, l'officiante si troverà di fronte all'ostacolo più serio al movimento della sua anima sulla via della liberazione: il pensiero. Il pensiero, di fatti, di per sé non ha nulla di spirituale o divino. Esso è un prodotto esclusivo dei nostri sensi, e proprio per questo, nel contesto di determinate pratiche epoptiche di natura misterico-iniziatica, non può essere lasciato scorrere liberamente, ma deve necessariamente essere dominato e allontanato ("scacciato", come suggerisce la Prattica), affinché l'anima - che è sensibilissima come uno specchio - non ne venga impressionata negativamente.

               

Ipotetico ritratto dell'Iniziato e Filosofo neoplatonico Plotino in un dettaglio dell'affresco di Raffaello Sanzio La Scuola di Atene (Vaticano, Pal. Apostolici, Stanza della Segnatura)

Lasciare il pensiero scorrere liberamente con la segreta speranza di vederne esaurirsi il flusso è un'ingannevole illusione buona per i pigri, gli sciocchi e i fiduciosi. Esso non potrà mai del tutto esaurirsi spontaneamente (le sue risorse possono essere definibili infinite, "eterne") e quando qualcuno crederà di aver frenato la spinta del pensiero in tal modo, egli si ingannerà due volte, perché ciò che vedrà sorgere in sé non sarà il sole dell'anima, ma la sua grottesca caricatura. Come sosteneva Amedeo Rocco Armentano nelle sue Massime di Scienza Iniziatica, «Il pensiero, per la sua stessa natura, non può secernere il puro spirito delle cose, imperrocché vede tutte le cose sotto duplice aspetto»⁴¹. Torneremo più avanti sulle Massime di Scienza Iniziatica di Armentano e ne capirete il motivo. Con la pigrizia o con la creduloneria, osserva sempre Sestito, non si raggiunge l'Iniziazione: ecco perché il pensiero deve necessariamente essere dominato, padroneggiato e, soprattutto, conosciuto. E, quando si presentano il momento o la necessità, nel contesto di determinati esercizi, deve essere assolutamente posto in condizione di non nuocere. Ma come si fa a dominare il pensiero? Secondo Sestito, non certo costringendolo con la forza, bensì con l'uso intelligente di quella potenza che è alla radice della vita e che presiede a tutte le manifestazioni visibili e invisibili del Cosmo. E, man mano che il pensiero si allontana, la mente (nous) cessa di apparire un passivo strumento dei sensi e riprende il ruolo che l'origine della parola stessa le assegna: misura di tutte le cose, per cui ad uno stato di oscurità, di ignoranza e di paura (che può essere lungo e fatale) segue uno stato di quiete profonda, che precede l'esperienza unica dell'Estasi. La prima delle Massime di Scienza Iniziatica di Armentano recita testualmente, in forma dialogica:

«È possibile conoscere? È possibile. Come? Dominando il pensiero, facendo a meno di credere e liberandosi dalle passioni e dalla paura del nulla»⁴².

E, in alcune delle Massime successive, Armentano affermava che è la Contemplazione che dà la Conoscenza⁴³, che per contemplare è necessario essere liberi nei sensi⁴⁴ e che per essere liberi nei sensi occorre saper usare i sensi liberamente⁴⁵. Nella sua quinta Massima, Armentano ci insegna infine che i sensi non devono essere negati né bestemmiati, poiché essi ci accompagnano dal primo all'ultimo giorno, e che occorre saper ascoltare la loro voce. Arturo Reghini, che si cimentò in un importante commento interpretativo delle Massime di Armentano fra il 1923 e il 1925 in alcuni suoi articoli sulle riviste Mondo Occulto, Atanòr e Ignis⁴⁶, ci ha fornito, soprattutto riguardo a quelle Massime relative al pensiero e ai sensi, delle fondamentali chiavi di lettura. Riguardo alla prima Massima, che poc'anzi abbiamo riportato, Reghini osserva che, benché il testo nella lapidaria sua concisione non ci dica di quale conoscenza si tratti, è implicitamente inteso che la domanda non possa riferirsi che ad una conoscenza degna di questo nome, ossia ad una conoscenza sintetica integrale che possa chiamarsi la Conoscenza (con la "C" maiuscola). Come ci faceva notare Reghini, una conoscenza limitata ad un'area finita e confinante con un campo indeterminato e sconosciuto non merita il nome di Conoscenza, e, sebbene gli uomini si accontentino generalmente di conoscenze di questo genere e credano alla fatalità di tale carattere, si può pure porre il problema se sia o no possibile pervenire ad una Conoscenza superiore, ad una vera e propria Conoscenza esente da ogni limitazione e momento di errore. Naturalmente - osservava sempre Reghini - questo problema non può essere a sua volta risolto con i soli mezzi atti a dare all'uomo la conoscenza "ordinaria", ed è perciò naturale che non sia possibile dare la dimostrazione logica dell'esattezza della risposta positiva che il nostro testo dà a questa domanda. Infatti, l'affermazione che il conoscere è possibile è già di per sé frutto di una esperienza trascendente il pensiero, a meno che essa non provenga da una credenza religiosa di natura dogmatica, da una mera illusione o da una menzogna cosciente. Ma nel nostro caso Reghini rileva che queste ultime sono ipotesi che possono essere scartate, poiché il testo di Armentano afferma categoricamente che dalle credenze e dalle passioni occorre liberarsi e che il pensiero deve essere dominato, quindi tenuto immune dalle passioni e dalle credenze stesse. La positiva affermazione della Massima è quindi, secondo il grande Iniziato fiorentino, risultato dell'esperienza, dell'aver provato e sperimentato, toccato con mano (o, più propriamente, con la mente o con l'anima), da parte di Armentano, un qualcosa che l'antica Tradizione Misterica Eleusina ben conosceva e che ci è stato trasmesso fino ad oggi attraverso gli scritti di Plotino, di Porfirio e dell'autore seicentesco del manoscritto della Prattica. Che sia necessario trascendere il pensiero per ottenere questa Conoscenza, come giustamente sottolineava Reghini, è cosa che si può comprendere anche logicamente. Il pensiero infatti, di sua natura, definisce e rappresenta, riferendosi e coordinandosi alle esperienze dei sensi. E comprendere, capire, è necessariamente ed etimologicamente limitare. La facoltà della mens è infatti quella di misurare (mensura), e quindi le sfugge non solo l'indefinito, ma anche ciò che è rispetto ad essa incommensurabile. Assegnare al pensiero, come generalmente si usa, la funzione della conoscenza, e concepire l'Universo come infinito, illimitato, equivale a condannarsi per un duplice motivo, secondo Reghini, ad un inesorabile e spenceriano inconoscibile. Osserva ancora Reghini che la mentalità moderna (e ben poco è cambiato dai suoi tempi ad oggi), che non ha alcuna ripugnanza a limitare l'Universo nel tempo e ad accettare acriticamente le varie "cosmogonie" religiose e scientifiche con tanto di "creazione" e di "fine del mondo", è invece portata ad ammettere ad accettare l'idea di un Universo spazialmente infinito, concezione che appare inevitabile perché un nec plus ultra senza al di là spaziale sembra apparentemente un "assurdo logico". E se l'Universo - si chiedeva Reghini - è spazialmente infinito, come potrà il pensiero arrivare a conoscerlo tutto? E, senza conoscere tutto l'Universo, si potrà mai parlare di vera Conoscenza?

             

Illustrazione dell'edizione del 1888 del saggio di Camille Flammarion L'atmosphère: Météorologiepopulaire

Tutto questo si basa però sull'intuizione umana dello spazio e, in particolare, sul concetto di retta indefinita sopra la quale non vi può essere né un primo né un ultimo punto, ossia sull'ipotesi implicita che la concezione di un Universo esteriore spaziale tridimensionale ed euclideo corrisponda alla realtà, e sia anzi l'unica ipotesi adeguata. Un concetto dello "spazio assoluto" che già al tempo di Reghini era stato messo in discussione dalle teorie di Albert Einstein e dal postulato di un Universo spaziale finito e multi - o pluri - dimensionale, e ancora di più oggi, grazie alle teorizzazioni della Fisica Quantistica. Per Reghini era curioso osservare che mentre il pensiero trova assurdo che una retta tracciata nello spazio debba arrestarsi ad un ultimo punto, viceversa non può immaginare altro che dei segmenti di tale retta. Perciò, se la logica conduce ad ammettere un'ipotetica infinità dell'Universo, l'immaginazione conduce alla concezione di un Universo limitato. Reghini, nei suoi articoli, indugiava in queste considerazioni unicamente per mostrare come non vi sia alcuna vera ragione per accettare aprioristicamente il postulato dell'infinità dell'Universo e che, di conseguenza, il concetto pitagorico della Monade, l'Entità unitaria, limitata e indivisibile, l'elemento primo matematico dell'Universo, il principio (arché) da cui derivavano tutti i numeri, la molteplicità di entità monodimensionali e tridimensionali, il concetto stesso di unità in quanto principio di molteplicità, non sia affatto da ritenersi superato. Osservava infatti Reghini che pitagoricamente l'Essere è necessariamente limitato nella sua unicità e che l'unità è unica, senza altro né altri. La dualità e la molteplicità sono apparenze che non distruggono l'unicità dell'essere. E che, passando dalla unità alle unità, dall'uno ai numeri, dalla unità integrale alla numerazione indefinita, si passa dall'unicità dell'essere all'indefinita varietà e diversità della natura. L'Universo illimitato in questa sua varietà è contrapposto alla caratteristica limitazione dell'essere, e ci dà la prima coppia degli opposti pitagorici, di quella fondamentale dualità su cui poggia la natura tutta. Una dualità che, come vedremo, è sempre stata un concetto di fondamentale importanza nella Tradizione Misterica Eleusina, dal cui alveo nacque e si sviluppò il Pitagorismo. Ma pitagoricamente, come osservava Reghini, la indefinita illimitazione della natura non porta ad inferire analogicamente una simiglianteillimitazione dell'Essere, anzi giusto l'opposto. Dedurre dall'infinità del mondo l'infinità divina è un po' come trascinarsi nel Regno dei Cieli i concetti di questo mondo, è appoggiarsi sopra a delle idee per cercare di comprendere quel che trascende le idee stesse, è pretendere di levarsi in volo senza liberarsi dalle impedimenta.

               

Amedeo Rocco Armentano in una rara immagine giovanile

Aveva quindi ben ragione Reghini quando affermava che coloro che, attraverso un'esperienza estatica di natura epoptica o altre pratiche similari, sono pervenuti a "sentire il proprio corpo dentro di sé", e che perciò possono, come Plotino, arrivare ad intuire che, similmente, il Macrocosmo è nella Divinità come il Microcosmo è in noi, possono anche comprendere come si possa parlare di limitazione dell'Essere ad anche dello stesso Macrocosmo. Un grande Iniziato come Dante Alighieri, giunto alla fine della sua ascesi, vide che «nel suo profondo si interna»:

«Nel suo profondo vidi che s'interna, legato con amore in un volume, ciò che per l'universo si squaderna»⁴⁷.

Questo, come ci faceva notare Reghini, è il nesso, unico, dell'illimitata molteplicità, e la coscienza umana, connettendovisi a sua volta, può raggiungere la "coscienza dell'universale connessione", ed in essa e per essa raggiungere la Conoscenza. È un nesso tutto interiore a-spaziale, questo enunciato da Reghini. Exotericamente, il simbolismo geometrico spaziale fa corrispondere e rappresenta questo nesso con il volumen, l'ὁλκός pitagorico della sfera racchiudente il mondo squadernato nei quattro elementi, volume che avvolge il mondo; e mostra che solo dal centro è possibile la visione sintetica, simultanea, globale dell'intera sfera e del suo volume o nesso. Il simbolismo aritmetico, temporale, musicale, ritmico - ci insegna sempre Reghini - percepisce e rappresenta questo nesso nell'armonia che fa del mondo un cosmo, e mostra che solo con l'accordo è possibile armonizzare col tutto e vivere all'unisono con l'armonia delle sfere. Con tutto questo il grande Iniziato fiorentino non intendeva affatto togliere il suo valore al pensiero. Il "picciol lume" nell'oscurità della notte può infatti servire all'uomo per non mettere il piede in fallo, ma sarebbe assurdo pretendere tale oscurità facesse scomparire. Anzi, chi nella piena oscurità, «spento d'intorno ogni lume», assuefà l'occhio alla notte (Madre e Germinatrice secondo la Tradizione Misterica Eleusina) finisce con l'ottenere la percezione più o meno indistinta delle cose vicine e di quelle lontane. Mentre, al contrario, una luce vicina ci permette, sì, la visione delle cose vicine, ma rende intorno ad esse più fitte le tenebre e ci impedisce ogni percezione di ciò che sta in lontananza. Soltanto il Sole, che fuga le tenebre, illumina parimenti quel che è vicino e quello che è lontano. E prima che l'aurora spunti è pur savio contentarsi della visione notturna consentita dagli astri senza ricorrere a lumi artificiali. Ma, se la coscienza si affida, si identifica e si vincola al pensiero, non distaccando mai l'attenzione dalla piccola luce della ragione, non solo finirà col perdere perfino la nozione del mare di tenebre che la avvolge e coll'illudersi di vedere, ma si metterà da sé stessa in condizione di insensibilità verso ogni possibile aurora.

               

William Blake: The Sun at his Eastern Gate, 1820 (Illustrazione per L'Allegro e il Pensieroso di John Milton)

NOTE:

1 Julius Evola: Rivolta contro il mondo moderno. Ed. Hoepli, Milano 1934. 2 Ibidem. 3 Piero Fenili: Gli errori di Julius Evola. Su Ignis n. 1 - Giugno 1991. 4 Daphne Varenya Eleusinia: Teologia Platonica. Articolo su www.academia.edu. 5Proclo: Teologia Platonica, I°, 6, 7. 6 Ibidem. 7Daphne Varenya Eleusinia: Articolo citato. 8Proclo: Teologia Platonica, I°, 6, 12. 9 Ibidem, I°, 6, 16. 10 Ibidem, I°, 6, 17. 11Nicola Bizzi: Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta, vol. 2°: Dal Medio Evo al rinascimento: la rinascita delle scienze e delle coscienze. Ed. Aurora Boreale, di prossima pubblicazione. 12 Roberto Sestito: Le basi pitagoriche dell'Estasi Filosofica. Su Ignis n. 1, Giugno 1991. 13 Porfirio: Vita di Plotino, 23, 9-14. 14 Ibidem, 23, 16-17. 15 Plotino: Enneadi, III°, 8. 16 Maria Luisa Gatti Perer: Plotino e la metafisica della contemplazione. Ed. Vita e Pensiero, Milano 1996. 17Plotino: Enneadi, III°, 8. 18Jean Marie Ragon: Iniziazioni antiche e moderne. Ed Atanòr, Roma 2014. 19Ibidem. 20Ibidem. 21Francis Henry Sandbach (1903-1991) è stato uno dei più noti filologi classici. Docente all'Università di Cambridge, ha pubblicato molti testi, fra cui una sua traduzione dei Libri VII°, IX°, XI° e XV° dei Moralia di Plutarco di Cheronea. 22Plutarco di Atene, noto come filosofo neoplatonico, fu il fondatore della Scuola Neoplatonica di Atene, all'interno della quale si perpetuò in clandestinità l'Eleusinità Madre per sfuggire alle persecuzioni cristiane. Era nipote del grande Nestorio, l'ultimo Pritan degli Hierofanti Eleusini ufficialmente in carica, dal quale ereditò il titolo pritanico e la Tradizione Misterica. Personalmente, in disaccordo con Sandbach, attribuisco a lui, e non a Plutarco di Cheronea, il Frammento 178. 23 Plutarco di Cheronea (attribuito a): Frammento 118 (Sandbach). 24 Il Fondo Magliabechiano, comprendente 5.799 manoscritti suddivisi in quaranta classi e un vasto numero di opere a stampa, costituisce la raccolta più antica della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e nacque nel 1714 con il lascito di Antonio Magliabechi, grande letterato, erudito ed Iniziato, bibliotecario di Cosimo III° de' Medici e sospettato di eresia dall'Inquisizione per i suoi molteplici interessi umanistici. La raccolta venne poi incrementata con acquisizioni successive provenienti dall'Accademia degli Apatisti, dall'Accademia della Crusca, dall'Accademia Fiorentina, dalla Biblioteca Mediceo Palatina Lotaringia, dalla Congregazione dei Teatini,dalla Badia Fiorentina, dal Convento S. Agostino di Cortona, dalla Chiesa di S. Giuseppe, dall'Ospedale di Santa Maria Nuova, dalla Libreria Strozziana, da vari altri enti e istituzioni e dalle raccolte personali di personaggi come Antonio Cocchi, Anton Maria Biscioni, Giuseppe Bardelli, Vincenzo Follini, Niccolò Gamurrini, Giovanni Lami, Paolo Lorenzini, Flaminio Pellegrini e diversi altri. 25 Roberto Sestito: Articolo citato. 26Elémire Zolla: Uscite dal mondo. Ed. Adelphi, Milano 1992. 27 Arturo Reghini ne riportò integralmente il testo nel suo saggio Le Parole Sacre di Passo dei primi tre Gradi e il Massimo Mistero Massonico (ed. Atanòr, Roma 1922). 28 Arturo Reghini: Ex Imo. Su Ignisnn. 8-9, Agosto-Settembre 1925. 29 Arturo Reghini (con lo pseudonimo Pietro Negri): Sub specie interioritatis. Su Ur n. 1, 1927. 30 Alessandro D'Ancona: Opere di Tommaso Campanella. Ed. Pomba, Torino 1854. 31Massimo Marra: La materia degli angeli: per un'interpretazione della "Prattica dell'estasi filosofica" dello Pseudo-Campanella. Su: www.massimomarra.net. 32 Ibidem. 33 Arturo Reghini: Sulla Tradizione Occidentale. Con prefazione di Moreno Neri e saggio introduttivo di Nicola Bizzi. Ed. Aurora Boreale, Firenze 2018. 34 Roberto Sestito: Storia del Rito Filosofico Italiano e dell'Ordine Orientale Antico e Primitivo di Memphis e Mizraìm. Ed. Libreria Chiari, Firenze 2003. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 37Giustiniano Lebano: Il Senato Occulto di Roma, in Ignis, Anno V°, n. 2, Dicembre 1992. 38 Roberto Sestito: Opera citata. 39 Giulio Parise: Biografia di Arturo Reghini. Pubblicata su Rivista di Studî Iniziatici (Mondo Occulto) - Napoli, Anno XXI, n. 1-2-3, Gennaio-Luglio 1947. 40 Roberto Sestito: Articolo citato. 41 Amedeo Rocco Armentano: Massime di Scienza Iniziatica. Ed. Associazione Culturale Ignis, Ancona 2004. 42 Ibidem. 43 Ibidem, Massima n. 2. 44 Ibidem, Massima n. 3. 45 Ibidem, Massima n. 4. 46La prima parte di questo studio interpretativo di Reghini venne originariamente pubblicata su Atanòrnei numeri 5 e 6 di Maggio e Giugno 1924 (preceduta da una parziale pubblicazione delle Massime stesse sui numeri di Gennaio-Febbraio e Novembre-Dicembre 1923 di Mondo Occulto), mentre la seconda apparve nell'ultimo fascicolo (Novembre-Dicembre 1925) di Ignis. Tali interventi sono stati, in tempi recenti, raggruppati sotto il titolo di Commento alle Massime di Scienza Iniziatica di Amedeo Armentano, oggetto di una pubblicazione on-line curata dal sito www.lamelagrana.net, oggi risultante non più attivo. 47 Dante Alighieri: Commedia, Paradiso, XXXIII°, 85-87.

Nicola Bizzi


Studi Evoliani 2018: il nuovo numero dell’annuario della Fondazione Evola – Giovanni Sessa

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Anche quest’anno è puntualmente nelle librerie l’Annuario della Fondazione Evola, Studi Evoliani 2018. L’opera artistica completa di Evola, edito dalle Edizioni Arktos (per ordini: edizioniarktos@yahoo.it. pp. 261, euro 22,00). Lo scopo di questa pubblicazione periodica è informare gli studiosi e i lettori del filosofo romano, o chi fosse interessato al pensiero di Tradizione, intorno a tutto quanto in tema si è prodotto in Italia e/o all’estero, nel corso dell’ultimo anno. Questo numero del 2018 è particolarmente ricco di contributi stimolanti e di disparate, come si vedrà, suggestioni culturali. La prima sezione dell’annuario si apre con gli atti del Convegno svoltosi a Roma il 7 marzo 2019, nella prestigiosa sede della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, di fronte ad un folto pubblico. Relatori in quell’occasione furono Gianfranco de Turris, il patron delle Edizioni Mediterranee, Giovanni Canonico, gli storici dell’Arte Carlo Fabrizio Carli e Vitaldo Conte ed il grafico Dalmazio Frau. Gli studiosi hanno contribuito, con dei saggi, alla realizzazione del volume di Evola, Teoria e pratica dell’arte d’avanguardia. Manifesti-Poesie-Lettere-Pittura, edito dalle Mediterranee, che era oggetto delle relazioni del Convegno. Il testo raccoglie, per la prima volta, l’intera produzione artistica di Evola, tanto quella poetica che quella pittorica, oltre gli scritti teorici relativi all’arte d’avanguardia. Si tratta, pertanto, di un quadro d’insieme sull’intensa esperienza estetica del tradizionalista, che permette di fare il punto sul fondamentale contributo da lui fornito alla cultura europea primo novecentesca. Le relazioni contenute in questo Studi Evoliani, contestualizzano ulteriormente la produzione pratico-teorica di Evola e propongono approfondimenti significativi della sua esperienza artistica, finora sottovalutata. Evola attraversò l’esperienza futurista, ma va ricordato, soprattutto, quale massimo rappresentante in Italia del dadaismo. A tale esperienza giunse attraverso l’idealismo magico. In soli cinque anni, la fase in cui effettivamente partecipò allo sturm und drang italiano, riuscì ad imporsi quale punto di riferimento imprescindibile, intrattenendo proficui rapporti con artisti europei, non ultimo con lo stesso Tristan Tzara. Ufficialmente portò a termine la stagione artistica nel 1921, ma tale esperienza segnò il suo percorso verso la Tradizione.

Molto ricca la sezione dei Saggi. Tra essi segnaliamo lo scritto del filosofo russo Aleksandr Dugin, che propone un itinerario teorico di grande interesse, centrato sul confronto con la post modernità, al fine di superarla. Le pagine di Dugin discutono di individuo assoluto e di soggetto radicale, suo succedaneo nel mondo contemporaneo: in esso il pensatore slavo individua il nuovo soggetto della storia. Nazzareno Mollicone ricorda la figura dello scrittore e artista, Giuseppe Aziz Spadaro, da poco scomparso, e già Presidente della Fondazione, mentre Giovanni Damiano presenta il pioneristico e rilevante contributo fornito dal prof. Piero Di Vona, che recentemente ci ha lasciato, all’esegesi dell’opera evoliana. Riccardo Scarpa si occupa dell’iniziazione guerriera in Tolkien, mentre Giacomo Rossi affronta il tema dell’estetica tradizionale. Teodoro de la Grange analizza e discute le prospettive politico-tradizionali rilevabili nel film, Il primo Re. Infine, Giandomenico Casalino, intrattiene il lettore sui rapporti tra la Scienza della Logica hegeliana e il pensiero ermetico.

Non basta. Il volume, infatti, richiama l’attenzione su altri aspetti, poco noti, del percorso evoliano. Nuccio D’Anna analizza i rapporti tra il pensatore tradizionalista e lo storico delle religioni Walter Friedrich Otto, mentre Gianfranco de Turris accompagna uno scritto di Bruno Spampanato, intellettuale vicino alla «sinistra» fascista, chiarendo i suoi rapporti con Evola. Guido Andrea Pautasso presenta la «polemica occulta», di cui nulla finora si sapeva, sviluppatasi negli anni Trenta sulle pagine della rivista Il Mistero, tra Ippolito Amicarelli ed Julius Evola, in tema di «spiritismo». Emerge, inoltre, dal contributo di Giuseppe Stilo, un interesse poco noto di Evola, sul quale, ad oggi, poco si è indagato o detto: l’interesse per gli Ufo. Veniamo così a sapere che il filosofo tradusse il «primo vero» libro sugli Ufo, risultato degli studi e delle ricerche di Donald Keyhoe. In tema, peraltro, Evola scrisse dei pezzi giornalisti, pubblicati su quotidiani italiani che sono riprodotti anche nell’annuario. Questo per sottolineare la diversità degli interessi e delle pubblicazioni evoliane. Dalla lettura di Studi Evoliani 2018 si esce persuasi che l’azione indefessa prodotta, in più decenni, dalla Fondazione che porta il nome del pensatore tradizionalista, comincia a sortire frutti significativi. Andrea Scarabelli ricorda, nel suo contributo, come a Milano, tra gli eventi realizzati durante Bookcity nel Novembre 2018, si sia svolto il Processo a Julius Evola. L’incontro pubblico, moderato dal giornalista di Libero, Francesco Specchia, ha avuto quali Pubblici Ministeri il prof. Davide Bigalli ed il giornalista Antonio Carioti, e per Avvocati difensori, Gianfranco de Turris e lo stesso Scarabelli. Alla fine, tutto sommato, la sentenza è stata assolutoria. Nonostante i distinguo, è stata riconosciuta l’originalità speculativa di Evola. A conferma di ciò, Tebaldo di Santangelo rileva che, quasi nello stesso periodo dell’evento milanese, il Sindaco del Comune di Sutri, nel viterbese, Vittorio Sgarbi, ha intitolato un piazzale della storica cittadina a «Julius Evola, filosofo». Nella stessa giornata Pietrangelo Buttafuoco ha tenuto una prolusione su Evola e il suo pensiero alla presenza di un pubblico attento. Studi Evoliani 2018 si chiude con un’ampia rassegna di recensioni, relative a recenti pubblicazioni evoliane o di interesse tradizionale. L’annuario è, inoltre, impreziosito da immagini, per lo più inedite, a corredo degli articoli. Riteniamo, pertanto, che questo numero possa confermare il successo del numero del 2017.

Giovanni Sessa

Crowley (ed Evola): Satanismo e Sesso Magico – Vitaldo Conte

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«Vieni col flauto e la zampogna! … Fai ciò che vuoi come può fare un dio … manichino, fanciulla, ninfa, uomo … nella forza di Pan …»

(A. Crowley)

I. Crowley assunse pseudonimi altisonanti, come l’identità de La Bestia 666, profetizzata dall'Apocalisse. Con questa voleva identificarsi con l'Anticristo che avrebbe soppiantato il Cristianesimo. Nell’attuale mondo della magia cerimoniale Crowley è spesso “inquadrato” nel satanismo, anche se non può essere considerato un satanista nel senso ortodosso del termine, a causa del suo dichiarato ateismo che lo induce a non credere né in Dio, né in Satana. Nel suo Giuramento di Fedeltà c’è: «Io consegno il mio sangue nelle mani di Satana». A lui affida il corpo, la mente, l’anima. Il demonio diviene sinonimo dello spirito creativo dell’essere. Le forze occulte, che propone di richiamare, non s’identificano con il diavolo della Bibbia. Dichiara che non c’è un altro dio al di fuori dell'uomo: «Il Diavolo – scrive in Magick – non esiste. È un falso nome inventato dai Fratelli Neri». Così come Satana è una identità creata dalla religione per propri moventi di esistenza.  Crowley scrive un Inno a Lucifero che esalta nei versi finali: «Con il corpo radioso come un rubino di sangue / con nobile passione, Lucifero, dall'anima di sole / si erse colossale attraverso l'alba e giganteggiò / sul perimetro imbecille dell'Eden. / Spirò la vita nell'universo sterile, / con l'Amore e la Conoscenza cacciò l'innocenza. / La chiave della gioia è la disobbedienza». Questo Inno ha costituito, per diverso tempo, una moda letteraria espressa da diversi autori: come Carducci e, in chiave anti-cristiana, Baudelaire.  Il suo ateismo magico è animato da un furore distruttore contro tutto ciò che possa significare ii Cristianesimo, che ritiene una religione superata, soprattutto come etica e visione dell’esistenza: «È il loro Dio e la loro religione che io odio e che voglio distruggere». In un passo del Libro della Legge l'angelo Aiwass grida in toni blasfemi: «Con la mia testa di Falco cavo gli occhi di Gesù sulla croce (…). Sia condannata la Vergine Maria al supplizio della ruota e per causa sua, siano disprezzate tra voi tutte le donne caste!». Riferimenti che sembrano appartenere, come stato già notato, a pagine del marchese de Sade.  Crowley invita l’essere umano a vivere la propria deità. Satana-Lucifero rappresenta, per lui, la razionalità dell'uomo che è "dio" in quanto negatore di Dio, padrone del bene e del male. Lucifero è il simbolo dell'uomo che si erige contro Dio. Questo ateismo, come è stato sottolineato, risulta però particolare, essendo in maniera paradossale popolato di spiriti e divinità, che possono risultare aspetti proiettivi del suo magico misticismo ateo. Sintetizza così la sua verità: «Nel macrocosmo c'è un solo dio, il Sole. Nel microcosmo, l'uomo, il vice del Sole è il Fallo». In questa dimensione la magia sessuale, con i suoi estremi rituali, diviene l’aspetto centrale, in cui la donna assurge a forza sociale anticristiana.  Massimo Introvigne sottolinea: «Che Crowley sia stato scambiato per un satanista è comprensibile. Egli stesso amava chiamarsi il "servo di Satana" e la "Bestia dell'Apocalisse". (…) Ma era un mago che nei satanisti disprezzava proprio quello che il satanismo ha di specifico, cioè la credenza e la venerazione per Satana. Il fatto che Crowley non sia un satanista non toglie che abbia esercitato una influenza enorme sul satanismo contemporaneo. Si può dire che senza Crowley, il satanismo novecentesco non esisterebbe, o almeno che non esisterebbe nella forma in cui si è manifestato (…). La nuova fioritura di satanismo negli anni Sessanta non è nata dal nulla ma da una lettura di Crowley filtrata dai suoi tardi discepoli californiani Jack Parsons e Kenneth Anger».

II. La formula dell’incarnazione di un dio, secondo antiche tradizioni magiche, passano attraverso l’unione della bestia con la donna. Crowley osserva, al riguardo, che le mitologie contengono il mistero della donna come nucleo centrale del culto. La formula della Bestia, congiunta con la Donna, è in relazione con l’undicesima chiave dei Tarocchi, chiamata Lussuria: questa mostra la Donna Scarlatta. Il suo culto religioso è ripreso dagli adoratori del Sole, soprattutto per estrinsecare pratiche erotiche naturalistiche, in cui Grande Sacerdotessa è la Donna Scarlatta. Nella ricerca di un ambiente magico, Crowley s’interessa ai riti luciferini che attraversano la magia sessuale. Proprio su quest’ultima estensione fonda un movimento di cui diviene protagonista a Londra: l’O.T.O. Questi rituali non vogliono essere, infatti, un pretesto per praticare la sessualità orgiastica, ma, secondo l’influenza tantrica, vogliono divenire un efficace strumento di magia per cercare l’unione con l’universo. Crowley è iniziato alle pratiche più oscure dello Yoga, conosciute genericamente come Tantrismo, che includono la pratica della sessualità. Scrive Kennet Grant sulle basi metafisiche di questa magia sessuale: «la forza fallica opera indipendentemente dal suo possessore e spesso in modo diverso; opera capricciosamente senza tener conto dell’individuo. Essa possiede l’individuo, non viceversa. Nel caso dell’iniziato, invece, la posizione è rovesciata. (…) L’esaltazione mentale generata da un orgasmo controllato magicamente viene a costituire una finestra luminosa (…). Nel rituale segreto dell’O.T.O., denominato De arte magica, si fa riferimento a una “morte nell’orgasmo”, chiamata mors justi. Vengono evocate e “fissate” immagini specifiche che istantaneamente diventano vive». La tecnica indicata, nel rituale, è quella dell’eccesso e dell’ebbrezza. In questo la sessualità, attraversando il piacere o il dolore, fa raggiungere all’essere il limite dell’esaurimento e della frenesia, che conduce a quello compatibile con il poter continuare a vivere. Questo momento diviene quello della lucidità magica, in cui la trance diviene veggenza nell’uomo e nella donna. Così le donne “entrano” in un stato erotico talvolta frenetico, altre volte vicino a una calma profonda, difficilmente distinguibile dalla trance profetica: per cui esse cominciano a descrivere ciò che vedono.  Anche Crowley crede nella possibilità di trasformare il veleno in nutrimento. Invita pertanto a «cercare quelle cose che per te sono veleni, anzi veleni in massimo grado, per farle tue mediante l’amore»: ciò serve a destrutturare i condizionamenti insiti nella propria natura. In genere si mira a superare «le tensioni della Diade mediante le nozze degli opposti», integrando continuamente la propria natura attraverso nuove nozze degli opposti e «mediante nuove spose (mates) su ogni piano dell’essere». Questa personale predisposizione psichica, al limite dell’eccezionale, deve essere insita anche nelle stesse compagne. Nell’Introduzione alla Magia scrive: «Noi prendiamo cose diverse e opposte e le congiungiamo, tanto da costringerle a formare una sola cosa; a mediare questa unione è una estasi, in tal guisa, che l’elemento inferiore si sciolga in quello superiore». Ogni connubio è destinato «a sciogliere un complesso più materiale creandone uno meno materiale; e questa è la nostra via dell’amore, che si eleva di estasi in estasi». Ciò si applica attraverso l’uso specifico del sesso, in cui può risultare una condizione negativa quella di assuefarsi a una esclusiva donna.

Il concetto della Donna Scarlatta è una seduttiva “contaminazione” dell’antica tradizione magica di cui, fuori dai luoghi dell’iniziazione, la prostituzione templare risulta l’unica forma ricordata. Lo scopo dei rituali effettuati da Crowley è diretto a fini spirituali. La Donna Scarlatta, per quanto riguarda l’uso mistico della donna, agisce in trance profonda, in cui l’uso magico agisce a livello di sogno: metodo derivato da un rituale sumero. Per Crowley l’uso di sesso, droga e danza, può essere un ausilio per chi non riesce a destare, dal sonno, la consapevolezza primordiale dell’energia kundalini. Questa deve essere “risvegliata” per vitalizzare e integrare gli stati di coscienza superiore. Crowley sottolinea l’importanza di una partner adatta per i rituali sessuali: «Non credo che i tipi (di donne) raffinati siano i più adatti; mi paiono migliori i tipi volgari, persone i cui istinti procreativi sono naturalmente eccessivi, ma sono stati trasformati dalle circostanze in canali di voluttà ed estrema libidine. Intendo il termine libidine nel suo senso più ampio: un’intensa ed istintiva concupiscenza per oggetti vari». Nel secondo capitolo del Libro della Legge descrive sommariamente il tipo di assistente adatta al ruolo di Donna Scarlatta: «Magnifiche bestie femmine con arti massicci, fuoco e luce negli occhi coperti da masse di capelli fiammeggianti…». In termini tantrici la Donna Scarlatta, rappresentazione di Nuit, è “la Signora dal dolce profumo” del Cerchio Mistico, formato per ottenere oracoli ed essenze. Anticamente, adempirono a simili funzioni sacerdotesse predisposte: come quelle di Delfi e di Eleusi. Nel linguaggio tantrico il risveglio del Potere del Serpente (kundalini) è una forma di controllo della coscienza, che può essere pericolosa se praticata senza un’adeguata iniziazione: «Io sono il Serpente Segreto avvolto alla sorgente: nella mia spirale è la gioia. (…) In me è grande il pericolo, poiché chi non comprende queste rune subirà una grande perdita». Quando l’energia della kundalini (situata alla base della spina dorsale) è in attività, stimola i chakra nel corpo della Donna Scarlatta, generando vibrazioni che influenzano la composizione chimica delle sue secrezioni. Nella letteratura tantrica il corpo della sacerdotessa possiede zone di energia occulta, intimamente correlata con le ghiandole endocrine. Queste generano fluidi e vibrazioni che fuoriescono dall’apertura genitale.

III. Le critiche integraliste del pensiero verso il possibile “uso satanico” del sesso e della ricerca del dio in noi sono presenti oggi sotto varie spoglie. Come verso Crowley in dialettica con Evola. Ciò l’ho rintracciato, per esempio, su un testo uscito sul sito dell’edizione Effedieffe: espressione del tradizionalismo cattolico, che si propone di “combattere la battaglia”, formativa e informativa, per la difesa del Cattolicesimo e della Chiesa. Lo scritto in questione è Il Virus Evola (parte 2, 3 gen. 2015), che assembla realtà romanzate, chiacchiericci, elementi oggettivi talvolta però decontestualizzati. L’estensore è Roberto Dal Bosco, autore anche del libro-crociata Contro il Buddismo. Il volto oscuro di una dottrina arcana. A ciò ho risposto indirettamente con miei testi, tra cui: Salviamo Evola dalle letture degli integralisti su ‘Barbadillo.it’ (2015); Eros nel Virus-Evola: fra immaginazioni integraliste su ‘Studi Evoliani 2013’ (2015). In questi “attraverso” le considerazioni espresse sulle possibili vicinanze sataniche tra Crowley ed Evola. Un possibile collegamento sarebbe la presunta ammirazione per Crowley di Evola, che in Metafisica del Sesso ne parla come di un uomo possedente una forza reale che chi entrava in rapporto con lui avvertiva. Ma risulta assente un’indicazione successiva chiarificatrice: quella che proprio «tale circostanza crea una pregiudiziale nei riguardi dei suoi insegnamenti, nel senso che è difficile stabilire in che misura certi eventuali risultati erano dovuti a procedimenti oggettivi e fino a che punto avevano invece per condizione» il suo particolare magnetismo.  Un’ulteriore assonanza lussuriosa-luceferina, tra i due, è intravista nella comparazione di due quadri: La genitrice dell’universo (1968-70) di Evola con un’immagine del pittore Lorenzo Alessandri, definito para-satanista, che è stata scelta per la copertina de La figlia della Luna, romanzo di Crowley (1929), per l’edizione italiana (Arktos, 1983). Il rapporto, contenutistico e simbolico, ne evidenzia viceversa le diverse visioni.  La donna evoliana è un manifesto visivo delle peculiarità dell’eros femminile: ha le gambe immerse fino alle ginocchia, dentro l’ondulazione orizzontale dell’acqua, simbolo dell’archetipo femminile, opposto a quello verticale del maschile. L’azzurro acqueo trascende schiarendosi verso il cielo: all’interno di un grande sconfinato triangolo, che si amplifica gradualmente verso l’alto, partendo dal triangolo ricavato dalle linee del pube, il cui segno arcaico è quello della Donna e Dea o Grande Madre. Questi triangoli vogliono rappresentar la luminosità della forza ascetica. Il nudo della ragazza dipinta da Lorenzo Alessandri (1927-2000) per il libro di Crowley, con i suoi simboli oscuri e lunari, è l’espressione di un artista fantastico e surrealista che amava attraversare il macabro e l’occulto. Questi giocava spesso con il satanico, forse anche per far lievitare il prezzo dei suoi quadri. La cronaca racconta che fosse fedele di Padre Pio e Madre Teresa di Calcutta e che donasse in beneficenza parti della vendita dei suoi lavori. L’integralismo del pensiero può leggere come satanico il sesso magico, anche se espresso nella pittura.

Vitaldo Conte

Fantastico Dionisiaco: Eros nell’isolamento del Coronavirus – Vitaldo Conte

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Attraversando Immaginari del Fantastico, robot del Futurismo e di oggi, Vitaldix, antologie di letteratura fantastica; con testimonianze di Lidia Reghini di Pontremoli, Giuseppe Siano.

1. Oggi il rapporto dell’essere umano con l’eros è problematico, a causa della prolungata quarantena subita per “difenderci” dal Coronavirus. Leggo sui social il pensiero di alcuni sessuologi sul valore terapeutico dell’autoerotismo: l’ansia e lo stress da isolamento stanno diventando dominanti, infatti, in questo momento. Gli esperti consigliano di dedicarsi al proprio piacere personale, per aiutare il proprio corpo a mantenersi in salute. Così si può combattere lo stress, rafforzando di conseguenza le nostre difese naturali. Ciò fuoriesce da un articolo pubblicato recentemente sul giornale inglese ‘The Sun’: “I risultati riscontrati sui pazienti sono chiari ed è stato confermato che l’eccitazione sessuale e l’orgasmo hanno aumentato il numero dei globuli bianchi e potenziato il sistema immunitario. (…) il climax del piacere, in generale, aiuta anche a rilassarti e a dormire meglio”. L’obiettivo, in questo delicato momento, è quello di mantenersi il più possibile in condizioni di normalità. Questa lettura è confermata dal dipartimento della salute di New York. Io ritengo che l’eros terapeutico possa essere espresso anche attraverso la narrazione fantastica. Forse un possibile vaccino del Coronavirus potrebbe essere quello di far entrare Dioniso nel Fantastico.

2. Voglio “vedere” le segrete istanze dell’erotismo attraverso autori che hanno vissuto, in comparazione con l’attuale situazione, il rapporto dell’eros con l’isolamento immaginario. Che diviene però una suggestione espressiva. Un protagonista è certamente il Marchese de Sade con la sua vita e opera. Ricordo i suoi libertini rinchiusi nel Castello, ne Le 120 giornate di Sodoma, con le loro orge immaginali. Tutta la sua vita-opera, come scrive il filosofo Michel Foucault, “è ispirata dalle immagini della Fortezza, della Cella, del Sotterraneo, del Convento, dell’Isola inaccessibile”. Tra gli altri autori, che attraversano l’isolamento (volontario o involontario), m’interessano: l’ultimo Julius Evola, “recluso” esistenzialmente, con la sua Metafisica del Sesso vissuta anche attraverso i nudi pittorici come trasfigurazione simbolica; l’ultimo Gabriele D’Annunzio “isolatosi” splendidamente al Vittoriale, a Gardone Riviera; Aleister Crowley “chiuso” nella sua Abbazia di Thelema a Cefalù, in Sicilia, per ricercare la donna scarlatta della sua magia sexualis.

3. I racconti del Fantastico anticipano talvolta il futuro, anche quando le loro “visioni” sembrano una follia nel proprio tempo. Queste “apparenze” profetiche accendono il Fantastico di artisti, scrittori, registi, attraverso le loro narrazioni. Il corpo-macchina costituisce un intrigante viaggio nel tempo: come quello che parte dai robot futuristi per arrivare al cyborg di oggi. “Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi Angeli”, scrive Marinetti, che elabora, sin dall’inizio del Futurismo, teorie sull’arte meccanica e l’immaginario dell’uomo-macchina. L’uomo moltiplicato “che noi sogniamo, non conoscerà la tragedia della vecchiaia (…) noi aspiriamo alla creazione di un tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità onnipresente (…). Noi crediamo alla possibilità di un numero incalcolabile di trasformazioni umane, e dichiariamo senza sorridere che nella carne dell’uomo dormono le ali” (L’Uomo moltiplicato e il Regno della Macchina, 1910). Nel romanzo Mafarka il futurista (1909), Marinetti immagina un re africano che riesce nell’impresa di costruire da sé un figlio meccanico, frutto di pura volontà. Queste idee collegano il pensiero futurista con la filosofia di Nietzsche: creare un essere capace di andare oltre l’uomo. Nel 1920 Marinetti si rileva autore libertino e libertario con il testo Elettricità sessuale, in cui un uomo e una donna si sdoppiano in due robot elettrici. Nel 1921 Andrè Deed realizza il film L’uomo meccanico, con cui crea una delle prime rappresentazioni del cinema sul tema del robot come fantascienza, riprendendo le idee espresse da Marinetti.

4. Il Futurismo, con la sua sfida alle stelle, entra nell’attuale narrazione fantastica con molteplici espressioni. Negli ultimi anni numerose sono le pubblicazioni in merito. Un numero-libro della rivista ‘IF’ è dedicato al Futurismo come Fantastico (Ed. Odoya, n. 21, 2017), a cura di Alessandro Scarsella. In questo presento il racconto sulla nascita di Vitaldix, mio avatar di narrazione fantastico-virtuale, attraverso un volo-poema (2009). Con questo celebro il centenario del Futurismo con una rosa rossa in bocca.

5. È uscita recentemente l’antologia di letteratura fantastica Sguardi sull’ignoto (e-book, Ed. Bietti, 2020) a cura di Dalmazio Frau e Andrea Scarabelli: “Sedici finestre aperte sull’Altrove: così potrebbero essere definiti i racconti di quest’antologia… A dominare è sempre e comunque l’elemento fantastico, visto non come evasione dalla Realtà ma come integrazione del reale stesso”. La sua lettura è scaricabile gratuitamente per “alleggerire” l’attuale quarantena per il Coronavirus. Giovanni Sessa recensisce su ‘EreticaMente’ l’antologia: “Vi è… un racconto centrato sulla magia sexualis. Si tratta di Rosa rossa in sguardi di desiderio, di Vitaldo Conte. Dalle sue pagine si evince che la potestas animante la vita è l’eros cosmogonico. Tale energia si manifesta negli sguardi d’amore…”.

6. – Azione. Eccitazione. Desiderio ¬– Sono le componenti che la saggista Lidia Reghini di Pontremoli, nipote del grande Arturo, scrive, in una testimonianza inedita, sulla mia azione performativa di fantastico dionisiaco. “Amiamo muoverci come complici silenziosi nella notte compiendo azioni dissacratorie nella città. Un altro modo di intendere e concepire l'azione performativa come metodo fantastico di sfregio, violenza assoluta oltre gli occhi di Artaud. Alto/basso. Divertiti inseguiamo le ombre dell'ubiquità, attraversando Arturo Reghini, Julius Evola, Aleister Crowley. No! Il sesso non c'entra in un'azione antropologica dentro e fuori il ventre molle dell'inurbano, è piuttosto la risultante di una consapevolezza dionisiaca. Se Leonardo affermava che la pittura è cosa mentale, per noi la performance e l'eros sono cose mentali. Azioni nella città che coinvolgono il corpo e il desiderio, lacerazioni improvvise, l'arte dei folli di Breton. Alle luci dell'alba alcuni luoghi cambieranno per sempre. Noi avremo esaurito il nostro vitalismo panrivoluzionario. Ma per fare questo ci vuole molto, molto coraggio e la forza deflagrante di una risata che irrompe come un grido nella notte. Mentre il gioco al massacro soffia lontano tra gli alberi” (L. Reghini di Pontremoli).

7. Scrive il saggista Giuseppe Siano a proposito de La bellezza di Dioniso nelle maschere performative (tra cui le mie), di prossima pubblicazione sulla rivista ‘Dionysos’ (Ed. Tabula fati, n. 9, 2020): “L'appassionato Vitaldo Conte, nelle vesti di Vitaldix (suo avatar di eventi performativi), è sospinto dalle sue pulsioni di scritture d'amore trobadoriche, che riveste del suo simbolico bianco d'arte. La performance evocativa, che parte dalle sonorità futuriste per rompere con gli schemi del canto poetico e del sentire estetico formalizzato, vuole tradursi in un racconto linguistico. Questo è organizzato con messaggi energetici rituali. Non a caso l'azione performativa ha come scopo di trasmettere messaggi attraverso gesti e sonorità che vogliono evocare una danza rituale dove l'azione prevale sul segno e sulla parola. Il fine è quello di riportare alla luce le forme iniziatiche delle origini, come un Vitaldo Conte Dioniso moderno. Vitaldix mostra, in pieno spirito nietzschiano e della psicoanalisi di Hillman, che si può tracciare un percorso costruito da evocazioni senza ricorrere alle parole e ai segni. (…) La danza vorticosa di Pan, che fa parte del corteo di Dioniso, guida il danzatore in uno stato di trance mistica dove ai prescelti dal dio Dioniso vengono dischiuse le porte di un universo originario caotico e dove la nostra identità viene risucchiata, inglobata e si dissolve, – come in un “buco nero” –, o in un “Tutto“ universale. Si recitava nel rituale dionisiaco “molti portano il tirso ma pochi sono i chiamati da Dioniso”. (…) L’uomo senza forma è l’artista, o l’uomo di cultura, che può accogliere l’esperienza di tante identità nelle sue letture e interpretazioni della vita, da più punti di vista e secondo più modelli d’identificazione di sé. Nell’artista, nell’uomo di cultura, ma anche in semplici persone sensibili, l’emergere delle origini contenute nel messaggio dionisiaco, del Dio Pan danzatore, rimangono come "rumore di fondo". Questo rumore riporta ad un'origine ed è un contatto ripristinato che non può più essere abbandonato. Il rituale evocativo della performance ne è la testimonianza. E non importa che l'uomo viva in questa continua alternanza di perdita della forma e di presenza d'identità da cui Nietzsche rilevò “la nascita della tragedia“ dell'umanità.  (…) Chi vive per l'arte del racconto non fa differenze: narra e danza continuamente con i suoi personaggi, ma anche con le sue maschere senza identità proprio come fa Vitaldix, sorte di Vitaldo Conte Dioniso” (G. Siano).

8. Ritengo che oggi la narrazione fantastica possa costituire uno degli elementi più innovativi delle attuali poetiche di contaminazione transumanista e transfuturista. Queste amano vivere anche in scritti e immagini di Robot invisibili, volendo volare liricamente fra visionarietà e realtà quotidiana. A questo immaginario s’ispirano i testi di attraversamento fantascientifico degli autori dell’antologia Noi robot, a cura di Roby Guerra (e-book, Asino Rosso, 2019), in cui c’è un mio testo. Il titolo s’ispira liberamente al maestro di fantascienza Isaac Asimov, di cui cade nel 2020 il centenario di nascita. Il suo celebre libro Io, Robot (1950) è una raccolta di racconti che ha come protagonisti i robot positronici. I robot umanoidi, alias androidi o replicanti, raggiungono la celebrazione nel 1982 con il film Blade Runner e attraverso le produzioni CyberPunk. A tutto ciò fanno riferimento i futuribili italiani nel loro omaggio alla nuova era robotica. In questa macchina immaginaria “entra”, sempre di più, la dimensione erotica-dionisiaca, anche come narrazione (letteraria e video-filmica).  Nell’ipotesi di un Porno-Futurismo virtuale Roby Guerra intravede la possibile creazione di un archetipo di “oscena bambola” che congiunge, attraversando i tempi, l’autrice del manifesto futurista della Lussuria (1913) Valentine de Saint Point (mia ispiratrice di fanta-narrazione) con Moana (Pozzi), sua possibile erede. I sex robot “vivono” nel mercato del sesso come bambole e umanoidi iperrealisti di seduzione estrema, programmata per clienti sempre più esigenti. Il futurologo e politico inglese Ian Pearson ipotizza che, entro il 2050, gli umani avranno più rapporti sessuali con i robot che tra di loro: per le donne, il turning point potrebbe essere anticipato al 2025.  L’attrazione per le bambole antropomorfe e i sex robot è presente, sempre di più, nel fantastico erotico degli esseri umani, determinando una identità sessuale “altra”, definita dagli esperti digisexual. Questa identità è capace di sollevare problematiche etiche e di riflessione, ma anche di ispirare oggi diverse fanta-espressioni di narrazione e arte, talvolta con la benedizione di Dioniso.

Vitaldo Conte

Che cosa rimane di Julius Evola? – Luca Valentini

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Il 19 Maggio del 1898, esattamente 122 anni fa, nacque una personalità singolare, spesso scomoda della cultura e dell’esoterismo italiani, Giulio Cesare Andrea Evola, in arte Julius. Barone, per alcuni finto Barone, artista dadaista, filosofo nell’accezione arcaica e non certamente moderna del termine, sicuramente un ermetista, un mago, per alcuni un cattivo maestro della destra politica, per altri addirittura un antifascista che rigettò le concezioni zoologiche della razza di Alfred Roserberg o le deviazioni da gangster di un certo squadrismo, grande amatore, per alcuni con tendenze omosessuali, alpinista fino a quando la sorte gli privò dell’uso degli arti inferiori, combattente di retroguardia per alcuni, in prima linea e oltre le linee nemiche per altri: certamente un uomo non semplice da classificare, tirato spesso per la giacchetta da una parte e dell’altra. Tanti testi, tanti articoli pubblicati, diverse interviste in più lingue e pure ci scontra tra i presunti continuatori: tra cattolici che affermano che fosse “un credente a sua insaputa” (fu cremato, con un funerale non cristiano per sua espressa richiesta testamentaria), tra pagani che rivendicano l’imprimatur a rifondare l’antico culto degli Avi (in più articoli anche prima del trapasso espresse chiaramente quanto, dal suo punto di vista, fosse insensata una tale idea) e massoni che (nonostante la notoria avversione del nostro alla libera muratoria) addirittura intitolano una loggia a suo nome, la lotta è davvero aspra e spesso quasi divertente. Poi vi è chi si spaccia esser stato suo segretario personale a 500 km di distanza oppure benevolmente chi, in occasione della deposizione delle sue ceneri, scambia un campo base in montagna con un crepaccio (oppure spera che ci possano credere gli altri) oppure vi sono tutti i discepoli di un Maestro che non è mai esistito (Evola ha sempre rigettato tale definizione e non ha mai avuto una linea tradizionale da trasmettere ad una catena di continuità) per esser stati 2/3 volte nella sua abitazione a fargli visita o semplicemente per esser transitati qualche volta dinanzi al marciapiede sottostante la sua casa romana; e le fantasmagorie potrebbero continuare per pagine e pagine, fino a giungere a coloro che dal Maestro ricevettero l’iniziazione all’Alta Magia … che, per ammissione dello stesso Evola, neanche egli stesso possedeva.

Ma cari lettori di EreticaMente tutto ciò è disquisire su Evola? E’ in realtà perder tempo con l’evolismo o col post-evolismo, perché, come è di moda nella Repubblica degli ipocondriaci e dei delatori, vi sono sempre i pentiti di turno, coloro che osannavanoo il filosofo da vivo, per poi dichiararlo superato un istante dopo la sua morte … ovviamente superato da cosa, da chi, non è dato sapere, come non è dato sapere se vi sia un termometro di tradizionalità o un ufficio del Comune che possa certificare l’ortodossia o meno di Tizio, di Caio e di Evola. Ma questo è, lo ripetiamo, evolismo (a favore e di parte contraria), e non credo appassioni ormai tanti onesti studiosi.

Di Evola si dovrebbe – esprimiamo i nostri convincimenti e quelli della Redazione di EreticaMente, senza la pretesa che siano verità rivelate – analizzare il pensiero, analizzarlo, perché per conoscerlo non reputiamo servano ancora saggi su saggi, è sufficiente leggere lo stesso Evola. Analizzarlo per comprendere quanto esso abbia influito sulla cultura italiana e quanto esso sia in potenza ancora estendibile di successive ricerche, proprio come da egli stesso auspicato. Notiamo che, da questo punto di vista, al di là dell’esemplare opera di Gianfranco De Turris, esempio di galantuomo e di dedizione all’Idea, al di là di qualche esplicitazione nell’arte e nella filosofia sapienziale, si è ancora al “ il Maestro ha detto..”. Evola non ha espresso un pensiero suo ed originale, ha vivificato nel ‘900 le Idee che liberamente scelse di difendere, quelle della Tradizione Indoeuropea, quelle della Sapienza, quelle dello Spirito che aspirano alla sublimazione dell’Uomo dalla sua condizione caduca. Esageriamo se paragoniamo Evola, nato e vissuto nella fase ultima dell’Età Oscura, con Platone che visse e tradusse la crisi della Grecia del V secolo a. C.? Forse … ma al contempo potrebbe rendere l’idea di chi riallacciò il filo della Sapienza (come scrisse il buon Lebano…) in un'epoca di profonda decadenza. E allora, un filosofo morto invalido, paranazista cosa pretendete che possa ancora contare? Nulla risponderete, ma non è così. Gente si agita nel sonno ancora al suo nome e non perché si debba decretare chi sia stato il suo miglior adepto oppure per renderlo addomesticabile dinanzi alla cultura dominante oppure per vendere qualche copia sparuta di qualche testo rattappezzato con la stoffa vecchia in ambienti dove il massimo della vita è rappresentato dal ballerino del Papete. La maggior parte del mondo continua a vivere serenamente, non conoscendo assolutamente le dispute e le disavventure di ambienti ectoplasmatici, lo si sappia! Ed allora cosa turba il sonno di intellettuali di varia estrazione, di preti vestiti da tradizionalisti romani o di neodemocristiani in salsa liberale, che ad Evola continuano a dedicare pagine, pagine e pagine al vetriolo, inchiostro su inchiostro? Tale è un arcano semplice, che si conosce benissimo e che scientificamente nel mondo dell’evolismo si cerca di evitare. Cosa discrimina la certezza che di Evola si continuerà a discutere per i prossimi decenni e forse oltre e nessuno rammenterà il nome dei suoi emulatori e denigratori? La risposta è banale e, come abbiamo riportato altrove, è stata fornita da un’altra grande personalità di spicco del mondo della Tradizione, Pio Filippani Ronconi, quando scrisse ”Parlare di Evola, come degli altri che formavano il Gruppo di UR (Colazza, Onofri, Colonna, Scaligero , Reghini) significa trattare CONCRETAMENTE delle discipline arcane che conducono l’uomo a realizzare la propria essenza più intima, che, poi, è il Cuore del mondo e di ogni cosa. Il resto sono foglie secche” (lettera del 19 Aprile 1984 in risposta a Paolo Andriani). Se chi comanda e sa si preoccupa di un Sapere che ancora, tramite l’insegnamento di tale insigne personalità, può condurre l’essere umano a conoscere la sua interiorità, il mondo del tradizionalismo è rimasto, appunto, alle foglie secche: non prendiamoci in giro, perché ITA EST!

Allora la nostra è una rievocazione triste e pessimista di Evola? Assolutamente NO, perché rimane della sua esperienza storica ed umana l’essenziale, ciò che realmente conta, l’impeto antico verso il Sacro (spesso occultato nelle sue opere più esoteriche, quelle che sono più innominabili rispetto persino ai testi dedicati alla dottrina della razza), il resto sono appunto foglie secche, che possiamo affidare agli spazzini. In un articolo intitolato “Il Sacro” pubblicato sul Corriere Padano (ora ristampato per le Edizioni di Ar) e dedicato al commento dell’opera “La Religione antica nelle sue linee fondamentali” di C. Kerényi evidenziò come “Per il Romano, l’uomo stesso potè essere simbolo e mito, tanto da poter avere la stessa parte e funzione delle immagini mitiche di altre religioni”.

Cosa ci resta di Evola? Ci resta questo, l’Idea … e vi sembra poco? Luca Valentini

Sangue e Spirito: la polarità primordiale della Romanità – Giandomenico Casalino

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…fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza…” (Dante, Inferno, Canto XXVI, verso 119)

Se Julius Evola, durante l’ultimo conflitto mondiale, ideò e progettò una Rivista bilingue (italo-germanica) dal titolo “Sangue e Spirito”, che poi, a causa di vari impedimenti, non vide mai la luce, vi saranno state delle ragioni legate non solo al momento storico che il filosofo stava vivendo ma, essendo Evola spiritualmente platonico e romano, certamente sarà stato mosso, anche e soprattutto, da “qualcosa” di molto più profondo e sottile, quindi consustanziale alla sua visione metafisica e metastorica che gli ha sempre consentito di essere e di agire da autentica voce profetica, proprio nel significato etimologico del termine. E questo “qualcosa” è, manifestamente, la alternativa complessa e radicale al principio “Blut und Boden” (Sangue e Suolo) ispiratore di gran parte della Weltanschauung nazionalsocialista ma, in una dimensione ancora più interna, è l’evocare quella polarità in quanto Azione magica, cioè fattrice e creatrice, quale Paradigma a cui l’Europa, in quella dimensione temporale, avrebbe dovuto guardare con spirito guerriero nonché asceticamente contemplativo. E quale era tale Paradigma se non quello eterno del Fuoco che, quale Spirito, forgia, forma e governa il Sangue che è Vita e quindi Zoè che deve essere Bìos, se non il Mistero divino di Roma quale supremo Principio Fulgureo mondanizzato? Ecco la potente e luminosa natura sapienziale di Evola, non del tutto “apparsa” a qualcuno, atteso che questi ancora osa grugnire sulla cosiddetta “attualità” del filosofo, come se il Sapere e la Gnosi fossero soggetti alle mode ed alle opinioni degli attuali e, purtroppo, dominanti ominidi.

I Greci per dire Vita hanno avvertito la necessità, nella loro straordinaria ricchezza spirituale, di usare due termini, Zoè e Bìos, i quali, semanticamente, hanno risposto e quindi esaudito quel desiderio insito in quella Domanda filosofica fondamentale avente ad oggetto la differenza ontologica che sussiste tra la Vita quale Potenza cosmica (Zoè) e la Vita quale Atto, Forma (Bìos) e quindi, in senso proprio aristotelico, struttura organica e formalmente gerarchica di individuali realtà viventi; ciò vuol significare che l’Anima del Mondo che è, in Alchimia, il Mercurio e nel Timeo di Platone la Chòra, mentre nella meccanica quantistica è il campo gravitazionale relativistico di “qualcosa” che può essere (?) onde, corpuscoli o particelle ma non è alcuna di queste nello stesso tempo e nel medesimo contesto; ma che è, nella sua sostanza simbolica, la Donna, deve, per necessità cosmica e quindi divina, essere formata, in quanto deve essere fermata, come è fermata la vorticosità della Ruota dal Quadrato nel Mandala, dal Principio che effonde ed imprime in essa il Sigillo onde condurre sempre più in Alto quella Potenza-Dýnamis che di atto in atto, da grado a grado, deve passare da Zoè (Vita priva di Forma, irruente e senza limiti [àpeiron], scatenata, come quella rappresentata sui Sarcofagi romani di età imperiale…) a Bìos che è già Vita individuata (principium individuationis) formata, fissata, coagulata e pronta alla Ascesi verso l’Alto cioè verso il più-che-vita che è lo Spirito quale metavita, l’oltre vita, in quanto eternità della stessa perché suo concetto (direbbe Hegel) quindi la sua sublimazione nell’Idea. Pertanto, parlare, evocare o, quantomeno, invocare la polarità Sangue e Spirito è entrare in una dimensione dell’Essere talmente alta ed onnicomprensiva da dover essere simbolizzata solo dal Cielo e quindi dal Divino, poiché essa è l’Opera eterna quale Legge dello Spirito, come ordine necessario (Anànche ) dell’Universo e nei tempi dello stesso, che governa e forma il mondo dei Viventi tanto nel succedersi dei giorni e delle notti come delle stagioni, quanto nel succedersi delle Civiltà e delle Vite così come nello sbocciare del fiore nel tempo e nella forma dovuti: è lo Spirito, è l’Alto, è l’Intelletto quale Nous cosmico, Mente di Zeus che rinnova in eterno il Rito primordiale con il quale il Demiurgo ordinò cioè diede Forma alle Potenze dell’Essere; e se la Mente è la sede delle Idee, quali Archetipi dell’Essere, allora il Mondo dei Viventi che è il Sangue quale simbolo della Vita medesima, come base, “corpo elementare terrestre” o “materia bruta”, non può che essere la Madre dalla quale si nasce ma dalla quale l’Eroe si emancipa come si emancipa dalla Terra dei Padri e dalla sua Legge onde conoscere, esperimentando, la Legge del Cielo in una Ascesi che non è più la Via dei Padri e del Sangue ma la Via degli Dei e dello Spirito!

Ed in tutta la complessa e diversificata epifania del vivente uomo su questo pianeta, quale sublime Forma, quale divino Mistero ha realizzato nel senso di incarnato questo eterno Archetipo cosmico se non Roma? Chi ha creato ex nihilo, con un Atto d’imperio di natura magica, simile a quello del Demiurgo platonico, l’Ordine dello Spirito cioè dell’Intelletto e quindi dell’Eterno, che pur viaggia e si muove nel tempo ma fuori dal tempo e nonostante lo stesso e che impone il suo Arché come Principio, Comando sopra la Legge della Vita, del Sangue, dei Padri, della Madre e della Terra, se non Romolo, quale Pontefice (facitore di ponti) della Virtus solare nella sua corrispondenza magica Nume-Astro-Metallo, che irrompe nel Mondo, operando in guisa tale da imitare, qui sulla Terra, il Rito Cosmico, affermando così la Legge del Cielo e negando quella del Sangue? Roma, quindi, è lo specchio terrestre in cui si riflette lo stesso Ordine dei Cieli, dello Spirito (e nello specchio Amor è Roma…!) ed è l’unico ed eterno Paradigma, tra tutte le Civiltà del mondo, di questa totale, organica, definita e continua Opera di Alchemica lavorazione dell’Anima dei Popoli quale Vita e Sangue, Zoè e Bìos, costumi, tradizioni religiose, leggi e rituali nonché egoismi, violenze e superbie arroganti, madri dell’odio e della violenza, tutte sollevate ma non negate, conservate ma superate per giungere, associando le Genti al suo Destino, nell’ “oltre”, nell’ “aldilà”, nel più – che – vita dello Spirito, nel metafisico che è il Jus civile in quanto Rito giuridico-religioso che dal jus gentium, che è in sostanza il jus sanguinis e cioè il cosiddetto “diritto naturale”, crea magicamente, e cioè nell’Invisibile, per mezzo di Atti e Parole solenni, consacrate nei formulari pontificali, Forme universali quali tipicità giuridiche metarazziali che, essendo Idee, non sono passioni, abitudini, sentimenti, credenze irrazionali e quindi il mondo del “Sangue e Suolo” in quanto dimensione animico-emotiva, espressione delle potenze della Vita, ma sono, come già insegnavano sia Platone che Aristotele, impassibili, chiare, intelligibili, apollineamente luminose e, pertanto, in virtù della loro natura logica e cioè eterna in quanto frutto dello Spirito, “… la loro sovranità che è quella della Legge è simile alla sovranità divina ed è intelligenza senza passioni, mentre la sovranità dell’uomo concede molto alla sua natura animale…” (Aristotele, Politica, III, 16,1278a).

Roma così è, ancor prima di irrompere nel mondo, il Principio cosmico dell’Ordine e della Legge, Paradigma celeste, come la Repubblica di Platone, che deve essere presente e visibile, qui nel mondo degli uomini, e quale eghemònikon, creare e governare il mondo che è la Res Publica, in quanto Juppiter Optimus Maximus come Idea, con il fine di realizzare, nei limiti delle possibilità umane, la Felicitas in terra ad imitazione della beatitudine divina che è nei Cieli. E la Legge dello Spirito in Roma si afferma sulla Legge del Sangue sin dai suoi primordi: da Romolo che uccide il fratello, colpevole di aver infranto l’Ordine effettuale al Rito al Console Tito Manlio Torquato che, nel 361 a.C., nella guerra contro i Latini, fa giustiziare il figlio, poiché aveva violato la legge, sino a Decio Manlio Ausonio, retore e poeta gallo-romano che nel 360 d.C. scrive: “Sono nato in Gallia ma la mia patria è Roma!” e lo stesso Ausonio, sempre in virtù della Legge dello Spirito, da Quinto Aurelio Simmaco, patrizio romano, filosofo, giurista e retore, appartenente ad una grande ed antica famiglia, prefetto dell’Urbe e princeps Senatus, in una epistola indirizzatagli, è definito: “grande maestro di Latinità e Romanità!”; per giungere al poeta Rutilio Namaziano, gallo-romano anch’egli, il quale nella sua opera “De Reditu”, dedicata a Roma, quale eterna Idea dell’Ordine, della Pace e della Giustizia, afferma e glorifica proprio ed esattamente la potenza dello Spirito della Romanità che “ha fatto una Città di ciò che era un Mondo!” e “di quelle che erano molte e diverse genti ha fatto un unico Popolo!”.

Questo è il Mistero di Roma, poiché è Verità ermetica e metafisica in quanto la vittoria dello Spirito sulla Natura, sulla Vita e sul Sangue, sublimandoli, governandoli, traendoli verso l’Alto è Opera divina, è ciò che gli Dei hanno affidato, quale compito divino, al Popolo Romano ed è ciò che lo stesso ha eseguito nel tempo e secondo necessità. Qui risiede la carica profetica di quel pensiero di Evola e della sua evocazione della polarità “Sangue e Spirito”; per la evidente ragione che nella stessa è manifesta la causa metafisica dell’odio e del terrore che il solo Nome di Roma provoca in coloro i quali hanno da sempre ideato e promosso la perversa ideologia del Mondialismo che è il capovolgimento satanico di quell’Ordine dello Spirito; e nella presente età assiale le sue Tenebre avanzano tanto velocemente da apparire inesorabili, quale dominio essoterico della Vita senza forme e limiti come del Sangue nella sua più animalesca espressione, il tutto con il fine dell’imbestiarsi definitivo ed ultimativo dell’uomo e della donna, sul quale “governerebbe”, nella dimensione esoterica, lo Spirito però nell’orientamento dello stesso verso il Basso, quale metafisica delle Tenebre.

Con quella evocazione pronunciata in quel fatidico “momento”, Evola non solo ci ha parlato non del passato ma dell’Eterno, che è Roma, ma ci ha indicato anche il nostro presente ed il futuro medesimo, nonché la necessità biologica e quindi immunitaria che la Vita ed il Sangue dei Popoli si rivoltino nei confronti di tale oscura ideologia che ha in odio la Forma e quindi la Luce, la quale ha per unico fine ciò che la stessa Natura rifiuta: impedire all’uomo di essere tale e cioè divino in quanto vivente al di là della Vita e Spirito oltre la stessa: l’Oro, che occheggia e luccica tra la feccia, vuole e deve essere visto, riconosciuto, pulito dalle impurità e restituito alla sua primordiale dignità, al suo essere Quello, ab aeterno!

Giandomenico Casalino

Storia mitica del Diritto Romano: Evola, Reghini e De Giorgio hanno già vinto! – Giandomenico Casalino

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Cos’era il Mito sino a meno di quarant’anni addietro per la cappa plumbea della cultura dominante e trionfante, che era cristiano-liberal-marxista, se non favolette per bambini, espressione dell’infantilismo psichico dei popoli cosiddetti (sempre dalla suddetta cultura dominante) “infantili” ed anche moralmente “immorali” (questo era il tocco precipuo del giudizio cristiano e della sua pretesa fenomenologia del Mito!...); e cos’è avvenuto da quando Andrea Carandini, insigne archeologo e studioso attento del mondo romano, peraltro di formazione culturale marxista, solitariamente osò scrivere, in La nascita di Roma. Dei, Lari, Eroi e uomini all’alba di una civiltà (Torino, 1997), che, “…il Mito è la realtà e la storia  non è che la sua metafora…”! e come si può logicamente legittimare l’ultima espressione di tale tsunami spirituale e quindi culturale che ha per nome: “Storia mitica del diritto romano” (Bologna 2020), che non è stata ideata, programmata e redatta da Julius Evola, George Dumezil e Karoly Kerenyi, ma da giovani studiosi di Diritto Romano e di antropologia del mondo antico, i quali, sviluppando quell’intuizione avuta nei lontani anni novanta da Carandini, giungono a porre, come  unico criterio ermeneutico e quindi fondativo della medesima logica interna del pensiero giuridico romano, il Mito, poiché non scrivono, come si è pensato e fatto, ad eccezione di poche elette menti, durante gli ultimi due secoli, una storia “economica” o “sociale” o “ morale” del mondo giuridico romano, cioè di questo Popolo di “Giuristi nati” (altro esemplare e recente titolo di un libro, proveniente dai medesimi ambienti e presente nella stessa collana editoriale…), ma riconoscono il Mito, e nella specificità romana, secondo la lezione del Dumezil, non di natura cosmica ma “statale”, come realtà spirituale fondante in quanto creatrice del Jus cioè del Rito giuridico-religioso che è l’Ordine!

Ciò vuol dire che “il ratto delle Sabine”, “l’uccisione della sorella da parte di Orazio”, “Bruto, il Console che uccise i propri figli” lungi dall’essere, come si è bovinamente imposto e creduto per secoli, favolette poco attendibili alle quali i Romani stessi facevano fatica a credere e che erano per i moderni la prova della “povertà” spirituale di questo Popolo di “praticoni” quasi materialisti in quanto solo dei violenti conquistatori; sono, invece, la ratio medesima della Civitas in quanto la stessa è creata, provenendo dal Caos e dalla injusta vis cioè dalla cieca violenza che rende, in senso proprio ermetico, necessaria la coagulazione dello Spirito che è l’anima della Romanità: quindi è una storia delle origini e dei primordi del pensiero giuridico romano dal punto di vista dei Miti fondanti del Jus che è come dire della stessa Roma! A noi, che viviamo e cerchiamo di essere una certa Visione del mondo che nasce, si nutre ed affonda le sue umide radici in questo humus, occorre, forse, altro per rialzare il capo e vedere, con rinnovato orgoglio e secondo il nostro punto di vista, il Mondo quale Forma, Idea, Vita che sono l’Eterno e per acquisire, finalmente, totale, radicata, indistruttibile ed impassibile consapevolezza che noi, in quanto vettori, strumenti, ancorché imperfetti, di tale Kultur (in senso proprio splengleriano…!) siamo e dobbiamo essere sempre più fanaticamente (da fanum, altare del Dio arcaico precivico…) convinti che non solo le Idee da noi difese (come amava affermare Evola…) hanno vinto poiché, essendo il Sole e la Luce, non possono essere oscurate per sempre e ciò per necessaria Legge cosmica (che i Greci chiamano Anànke) ma che ormai, vivendo noi un’epoca (da epoche, che in greco vuol dire proprio sospensione, frattura…) di transizione, questi eventi dello Spirito (e tanti tanti altri su cui già in altre sedi mi sono ampiamente diffuso…!)  non fanno altro che preannunziare, come l’Aurora annuncia l’Alba e questa il Giorno, una nuova ed altra Era che non potrà che avere la natura di una universale Rivoluzione Conservatrice in quanto totale revolvere come Ritorno che, spazzando via i residui di questo oscuro presente, ricongiunga l’Uomo e la Donna alla propria essenziale natura che è situata al di là dell’umano!

E ciò vuol dire procedere innanzi, coniugando la modernità con il Sacro sino a cancellare tutto l’errore canceroso del mondo moderno che è l’ideologia asfittica ed atrofica dell’Umanesimo in quanto innaturale credenza che tutto “inizi e finisca nell’uomo e nella sua mortale finitezza”: questa è la fonte tanto del soggettivismo astratto cartesiano quanto dell’individualismo razionalista ed illuminista, fondamenti ambedue dell’ideologia liberalcapitalista che ha per unico fine l’indefinito incremento del capitale, quale teatro dell’abominio della desolazione che ci allieta da oltre due secoli. Noi di tale Logos questo possiamo e dobbiamo essere tanto consapevoli quanto lo è colui che apre gli occhi al mattino ed avendo coscienza del Giorno, si alza dal giaciglio e ritorna a camminare, affrontando il mondo! Noi dobbiamo, infine, giungere alla ferma consapevolezza che ciò che rimane della ragione liberale è un enorme e planetario cadavere, in avanzato stato di putrefazione,e che i miasmi e gli acidi che lo stesso emana e getta nella Natura vivente che, secondo la nostra Visione elleno-romana, è composta da un Noi di cui fanno parte: piante, animali, pesci, uccelli, uomini, Eroi, Demoni, Potenze sottili animiche quanto spirituali, Dei, cioè il Cosmo vivente, immagine visibile di quello Invisibile; contaminano la stessa, giungendo a distruggere il medesimo concetto di Forma che è la Vita!

Questo è il “dominio” planetario, del tutto apparente, nonché necessariamente transeunte, di tale corpo morto, e nessuno dei contemporanei ha coscienza né percezione che, se restano le vesti, le forme, le strutture esteriori di tale gigantesco cadavere, all’interno esso è solo un brulicante verminaio nel cui dna nessuno crede più, nemmeno i suoi tenebrosi sacerdoti, peraltro, e sino a non molto tempo addietro, intemerati cantori di mielosi peana alla sua paradisiaca mondanità: nelle epoche di “passaggio” (un po’ come accade nei “Riti di passaggio”, come ci ha insegnato Van Gennep) coloro i quali vivono il “passaggio”, non hanno coscienza dello stesso, e restano, anche per secoli, convinti di vivere ancora e per sempre nell’era che ormai è, invece, alle loro spalle, così è stato per la transizione dal mondo Classico greco-romano al cosiddetto evo medio e da questo al cosiddetto rinascimento; a noi ciò non solo non deve essere concesso, ma ne va del nostro onore, proprio nella dimensione apollineo-intellettiva di una virilità spirituale, non solo non prendere coscienza del “passaggio” ma non avere la piena e serene convinzione che l’Era della ragione liberale è finita nel senso che è totalmente evaporata proprio ed esattamente come accade ad una sostanza venefica che da liquida (vedi il concetto di società liquida di Baumant…) diviene gassosa. Quando avremo tale consapevolezza? Quando, in virtù cioè in forza della stessa, parleremo, con rinnovata gagliardia e Gioia, ai Popoli di quanto sia salutare ed organico, bello e gerarchicamente giusto ed armonico, l’albero come l’insetto tanto quanto l’uomo o il fiocco di neve visto, ad ingrandimento, nelle sue divine geometrie? Queste Parole che sono Idee e quindi Vita, sono, per lo effetto, altrettanti Suoni in sinfonia ed Azioni in sinergia con l’Anima di tutti i Viventi nonché con lo Spirito dell’uomo.

E se tutto ciò non fosse ancora sufficiente per il necessario ed immediato Risveglio e se quindi ci fosse ancora bisogno di sentir dire dal Professore Zybertowicz, consigliere culturale del Presidente sovranista polacco Duda, in una intervista rilasciata a Repubblica, pubblicata il 19/06/20 ed intitolata: “Cari illuministi avete perso, ora tocca a noi!” che “La ragione astratta e lo scientismo non sono neutrali e che sono invece funzionali ad una ideologia ed a precisi interessi che sono quelli delle multinazionali; e che l’identità etnico-religiosa di un Popolo va difesa poiché la privazione della stessa provoca ingiustizia e violenza e che da ciò deriva che i cosiddetti “diritti umani” sono un fondamentalismo stupido, folle e contro la natura,  come la pretesa che la coppia possa non essere uomo e donna…!”; e se fosse ancora necessario sapere che il medesimo quotidiano, avvertendo la natura di “de profundis” per il neoliberismo, insita nelle oltraggiose parole pronunciate dal professore polacco, due giorni dopo ha pubblicato un’intervista a Massimo Cacciari, con l’evidente e sfacciata intenzione di chiamare lo stesso ad “avvocato difensore” dell’Illuminismo, intitolandola, infatti, “la Ragione contro il mito del Popolo” e che, invece, ed a sorpresa, il non stupido Cacciari, lungi dal difendere pedissequamente l’indifendibile fisima illuminista, ne “ha evidenziato i comprovati e catastrofici limiti ed astruserie, denunciati peraltro (come egli ha ricordato) sia da Hegel come da Schelling quanto da Nietzsche e da tanti altri filosofi e che si possono sintetizzare nell’aver privato il Politico di qualsiasi legittimazione da parte del Sacro, così consegnandolo ed asservendolo al dominio ideologico e lessicale dell’Economico, categoria sovrana dell’universo borghese e del suo tecnicismo liberale”; concludendo che “attualmente, come sarebbe assurdo pensare di poter tornare al giorno precedente la presa della Bastiglia, così, per tentare di fermare la folle corsa di questa umanità verso l’abisso della sua estinzione, è assolutamente vitale che il Politico torni ad essere fondato e legittimato, nell’ambito della stessa modernità, dal Sacro!”.

E questa è la Via di D’Annunzio a Fiume, di Schmitt e della sua Teologia politica, della Rivoluzione conservatrice tedesca, del Platonismo politico dei Fascismi europei, dell’Evola de Gli uomini e le rovine e quindi della loro visione dello Stato quale idea metaeconomica orientata verso i fini e non verso i mezzi, verso il Pensiero che è utile ciò che è bene e non bene ciò che è utile! E tutto ciò in sostanza ce lo dice Massimo Cacciari! Noi non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo avere bisogno di altro! Poiché se così fosse ciò significherebbe solo che non abbiamo più né Cuore né Mente e la Notte sarebbe veramente sempre più oscura!

Addenda.

Qualche decennio addietro sui muri delle abitazioni di Algeri, apparve questa scritta: “Islamiser la modernitè ne pas moderniser l’Islam!”.

   Giandomenico Casalino

“Eros-Donna Demone della Trasformazione (Lussuria Futurista, Crowley, Evola…)” di Vitaldo Conte: intervista di Luca Valentini

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Attraversando Dioniso Legami (Tiemme Edizioni Digitali) ed Eros Magia Sacro in Julius Evola (Ed. Fondazione J. Evola-Pagine) nel 2020.

 Vitaldo Conte, saggista e scrittore, è coinvolto come autore in due recenti pubblicazioni. Ciò diventa occasione per una intervista su tematiche che ha approfondito in diversi testi. Queste “guardano” la magia e l’alchimia erotico-sessuale con le loro rappresentazioni simboliche. Nell’occasione riguardano la lettura della donna come energia d’eros e demone della trasformazione. Tali argomenti emergono appunto dalle pubblicazioni di Conte prese in considerazione: l’e-book Dioniso Legami / La Lussuria Futurista e il suo saggio incluso nel libro collettaneo Eros Magia Sacro in Julius Evola a cura di G. de Turris, A. Scarabelli, G. Sessa, che raccoglie le relazioni dei partecipanti ai Convegni di Studi sui 60 anni della Metafisica del sesso di Evola (novembre 2018). Questi argomenti sono letti da Conte anche attraverso i linguaggi della creazione.

1 - La tua narrazione di Dioniso Legami è una proposta che parte dal manifesto futurista della Lussuria. Ritieni Valentine de Saint-Point, l’autrice, una presenza meritevole di attenzione e studio?

V.C. Nel Futurismo merita una rilettura opportuna Valentine de Saint-Point (1875-1953) – scrittrice e artista, coreografa e danzatrice –. È autrice dei manifesti futuristi della Donna (1912) e della Lussuria (1913). In quest’ultimo rivendica il valore positivo del piacere e della sensualità, oltre che essere fonte di liberazione spirituale e unione con l’universo, sia per la donna che per l’uomo. La Lussuria «è la ricerca carnale dell’Ignoto, come la cerebralità ne è la ricerca spirituale». La Lussuria, che è una forza, «è il gesto del creare, ed è la creazione». Superando le ipocrisie della morale tradizionale, incapace di vedere le profondità e le bellezze del sesso, l’eros può divenire un’opera d'arte. Nel Manifesto della Lussuria auspica l’avvento di una “superfemmina”: aggressiva figura materna nella difesa della razza; amante luciferina, votata alla lussuria e all’esaltazione del desiderio sessuale, libero dai fardelli sentimentali dell’amore. Il suo ruolo di creatrice di corpi si eleva fino alla capacità di produrre anime. Valentine fu una donna seducente, modella e amante di artisti. Il suo scandalo culturale durò poco nel proseguo dell’esistenza, lunga e imprevedibile. Iniziò a viaggiare, scoprendo l’Islam, a cui si convertì prendendo il nome di Luce spirituale della religione. La sua luce si spense in un progressivo silenzio, morendo, dimenticata e in povertà, nel 1953 in Egitto a Il Cairo. La lussuria diviene dunque mistica.

  2 - Nel tuo viaggio testuale di Dioniso Legami, come indichi nella sinossi, la pulsione desiderante della Lussuria può divenire possibilità di “narrazione”, percorrendo visionariamente i tempi. Può “immaginare” un Porno-Futurismo attraverso l’incontro virtuale di Valentine de Saint-Point con Moana Pozzi, l’indimenticabile diva del Porno italiano. Questa lettura vuole essere una provocazione?

V.C. L’Eros attraversante il Futurismo continua a desiderare naturalmente la Lussuria come Arte-Vita. Vuole rappresentare ancora la pulsione del vivere pericolosamente che trasmuta la bellezza dell’azione in creazione. L’ipotesi, consapevolmente visionaria, del Porno-Futurismo “vive” attraverso la narrazione fantastica dell’estrema pulsione. A questa appartiene l’iconografia virtuale di Valentine/Moana, condivisa con Roberto Guerra. Qui il Porno diviene una possibilità di creazione immaginale, liberandosi dall’imperativo di dover essere oggetto consumistico per l’eccitazione sessuale. Le sue figurazioni desideranti di donne e di bambole cibernetiche ricercano Dioniso nei legami della Lussuria, aspirando a incarnare mistiche d’amore.

  3 - In Dioniso Legami c’è un saggio sul Marchese de Sade, autore della sessualità eccedente. Tu ne sottolinei l’influenza su autori della letteratura e dell’arte, ma anche nell’emergere di tipologie femminili. Perché lo ritieni un censurato “da liberare”?

V.C. Per i duecento anni della morte di de Sade è stata ideata in Francia una mostra al Museo d’Orsay dal titolo Attaccare il Sole (2014-15), attraverso l’immaginario artistico di grandi autori. Molte delle opere esposte hanno come protagonista un’immagine femminile nei suoi aspetti più perturbanti. Lui riteneva che la donna dovesse avere la stessa autonomia dell’uomo. Da questo pensiero sono nati due romanzi che hanno infatti due protagoniste femminili, Justine e Juliette: la prima è la donna del passato, asservita e infelice; la seconda, invece, rappresenta la donna nuova che Sade intravede come «creatura ancora sconosciuta, che procede dall’umanità stessa, che avrà ali e rinnoverà l’universo» (G. Apollinaire). Sade detesta gli esangui carnefici che sublimano ideologicamente il loro desiderio di torturare e uccidere: per lui «il male è sempre contro l’ordine, è sempre eversivo, indomabile, libero. Il male è suprema libertà. (...) La sessualità repressa viene convogliata verso altri obiettivi, spesso si muta in uno strumento micidiale al servizio degli ideali astratti della collettività» (G. Celli). Questo piacere per un’azione distruttiva, nota Julius Evola, vorrebbe infrangere le leggi della natura cosmica, associandosi a una specie di teoria del superuomo. Questa porta all’apice inesorabilmente ciò che è violenza e distruzione: «Noi siamo degli dei!», esclama un suo personaggio.

4 - In Dioniso Legami focalizzi la figura, dominante e rituale, della Donna Scarlatta nel Sesso Magico di Aleister Crowley. Questo discorso lo avevi già anticipato su ‘EreticaMente’ (14 gennaio 2020). L’immagine di questa donna esprime l’indicazione dell’Eros-Donna come Demone della trasformazione?

V.C. Nelle sue “congregazioni” Crowley si circonda di molte donne, che definisce Donne Scarlatte, il cui colore si riferisce al «miglior sangue che è quello della luna, mensilmente». L’immagine della Sacerdotessa consacrata, la Donna Scarlatta, appartiene a un patrimonio iconografico complesso, che include quello ricavato dalla Bibbia (La Bestia e la Meretrice vestita di scarlatto, nell’Apocalisse di Giovanni) o Kalì, la tenebrosa dea del sangue e della distruzione. Essendo rappresentazione di Nuit, è la porta per il Vuoto. Il sesso è per Crowley un mezzo per “aprire” la psiche alle potenti forze primordiali, ai mondi invisibili e ad altri piani della coscienza. Diventa anche il mezzo per raggiungere «una grande Dea, strana, perversa, affamata, implacabile». Per possedere questa Dea, come egli dice, usa indifferentemente l’una o l’altra donna. La formula dell’incarnazione di un dio, secondo antiche tradizioni magiche, passa attraverso l’unione della bestia con la donna. Crowley osserva, al riguardo, che le mitologie contengono il mistero della donna come nucleo centrale del culto. La formula della Bestia, congiunta con la Donna, è in relazione con l’undicesima chiave dei Tarocchi, chiamata Lussuria: questa mostra la Donna Scarlatta. Il suo culto religioso è ripreso dagli adoratori del Sole, soprattutto per estrinsecare pratiche erotiche naturalistiche, in cui Grande Sacerdotessa è la Donna Scarlatta. Questa risulta una seduttiva contaminazione dell’antica tradizione magica di cui, fuori dai luoghi dell’iniziazione, la prostituzione templare è l’unica forma ricordata. Lo scopo dei rituali effettuati da Crowley è diretto a fini spirituali. La Donna Scarlatta, per quanto riguarda l’uso mistico della donna, agisce in trance profonda, in cui l’uso magico avviene a livello di sogno: metodo derivato da un rituale sumero. In termini tantrici la Donna Scarlatta è “la Signora dal dolce profumo” del Cerchio Mistico, formato per ottenere oracoli ed essenze. Anticamente, adempirono a simili funzioni sacerdotesse predisposte: come quelle di Delfi e di Eleusi. Quando l’energia della kundalini (situata alla base della spina dorsale) è in attività, stimola i chakra nel corpo della Donna Scarlatta, generando vibrazioni che influenzano la composizione chimica delle sue secrezioni. Nella letteratura tantrica il corpo della sacerdotessa possiede zone di energia occulta, intimamente correlata con le ghiandole endocrine. Queste generano fluidi e vibrazioni che fuoriescono dall’apertura genitale.

5 - Nel tuo saggio Metafisica del sesso in sguardi di Magia Sexualis, nel libro collettaneo su Evola, tu parli della donna assoluta il cui principio può presentare tipologie diverse, anche attraverso immagini d’arte. Parlane.

V.C. La donna assoluta è totalmente femmina. Per quel che riguarda la molteplice varietà delle immagini, con cui può essere espresso il principio femminile, due risultano i tipi fondamentali: l’afroditico e il demetrico. Questi si presentano in corrispondenza come gli archetipi eterni dell’amante e della madre. Il tipo demetrico talvolta appare in immagini femminili nude, anche in quelle di antiche dee, in piedi o supine. Queste, con le gambe divaricate, mostrano l’organo del sesso per liberare e far fluire il sacrum sessuale attraverso un’energia magica e una fecondità primordiale. I molteplici nomi attribuiti alla Grande Dea, la Madre Terra, la magna Mater Genitrix, sono immagini del principio demetrico e della sua forza incontenibile. Nelle epifanie indù della Grande Dea appaiono varie forme di sposa del maschio divino, che ha il culmine nel principio afroditico della femminilità primordiale, quale forza dissolvente, travolgente, estatica e abissale del sesso: è opposta a quella della femminilità demetrica. Nel mondo mediterraneo le dee hanno questi tratti, come Ishtar: la dea dell’amore, che è contemporaneamente anche la “Grande Prostituta” e la “Prostituta Celeste”. La contemplazione della donna nella sua nudità assoluta, anatomica e spirituale, è uno dei passaggi più importanti della cerimonia misterica ed erotica. Nei riti antichi del Mistero Afroditico il centro del rito è costituito da una donna nuda, distesa sull’altare o facente essa stessa da altare. La posizione talvolta indicata è quella con le gambe fortemente divaricate in modo da mostrare il sesso: l’os sacrum, la “bocca sacra”. La donna dei misteri è sempre nuda. Come scrive Eliade: «La nudità rituale della yogini (…) ha un valore mistico intrinseco». Se davanti alla nudità della donna non si sente sorgere, nelle profondità del proprio essere, la stessa sensazione terrifica che si prova dinanzi alla rivelazione del Mistero cosmico, non può esserci rito. Nei misteri greci la visione delle immagini nude corrisponde al grado supremo dell’iniziazione. La donna scioglie, nella propria nudità, la sostanza del suo stato vergine e abissale. La vista della donna completamente nuda è consentita, nel rito, solo agli iniziati. L’abissalità della femmina divina costituisce l’aspetto Durga. L’inaccessibile ha relazione anche con la qualità fredda, che può coesistere con quella ardente e fascinosa della natura afroditica: come la figura delle Sirene, che sono da considerate sia vergini che incantatrici, con la loro parte inferiore umida e fredda. Si può anche considerare il significato della nudità della donna divina nel suo aspetto Durga, in opposto a quello della nudità dell’archetipo-materno, principio della fecondità. È il nudo abissale afroditico, legato anche alla danza sacra, come quella dei sette veli: il suo fine è raggiungere lo stato di completa nudità dell’essere assoluto e semplice. L’immagine della nudità femminile abissale può anche agire in modo letale: la visione di alcune dee nude uccide o acceca.

 

6 - Nel tuo saggio su Evola parli dei suoi “nudi di donna” che ha espresso come artista. Questi, secondo te, possono essere visti come immagini di un pensiero simbolico sul femminile, anche attraverso lo sguardo. Ritieni lo sguardo un fattore determinante nel magnetismo sessuale?

V.C. Evola esprime, negli anni 1960-‘70, alcuni nudi di donna, che possono essere letti come manifesti visivi delle peculiarità del femminile nell’esperienza alchemica della Metafisica del sesso. Il fondo dell’eros è costituito da un fattore magnetico. Questo principio può attuarsi attraverso lo sguardo con il suo fascinum: termine usato, ieri come oggi, per indicare una specie d’incantamento e di sortilegio che vi transita. Lo stato fluidifico, la forza Tsing, si accende inizialmente attraverso lo sguardo. Nell’amore a primo sguardo e nel cosiddetto colpo di folgore il processo ha un andamento a corto circuito. Questa possibilità può prodursi anche inaspettatamente in un fuggevole incontro, nell’avventura di una notte con una donna sconosciuta e magari con una prostituta che non si rivedrà più, secondo un miracolo che può non ripetersi per tutta la vita, nonostante rapporti affettivi con altre donne. Eros come alchimia è presente nel fluido-energia dello sguardo delle donne dipinte da Evola. Gli occhi de La genitrice dell’universo sono circondati da due globi cerulei (l’azzurro delle acque è trasceso in quello del cielo), all’interno di un grande sconfinante triangolo bianco, che si amplifica da quello ricavato dalle linee del pube. Questi nudi esprimono archetipi e simbologie erotiche, costituenti il mondo segreto del femminile che si anima negli “sguardi” della Magia Sexualis.

Intervista a cura di Luca Valentini


Eros Rosso Rituale: Vitaldo Conte tra de Sade, Crowley, Evola – Cristiano Turriziani

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Esiste un filo rosso che collega invisibilmente le opere del Marchese de Sade a quelle di Aleister Crowley e all’alchimia della Metafisica del sesso di Julius Evola. Una sintesi odierna di questo percorso può essere rintracciata negli scritti di Vitaldo Conte, che attraversaquesti autori nelle sue scritture e azioni rituali. Questi tre “pensatori” sono accomunati dalla solitudineche“investigano” nei testi attraverso le vicende della loro esistenza. Di qui, nell’ambito del sesso magico, si rimanda naturalmente all’impegnativo lavoro del saggista e docente Vitaldo Conte con la sua opera di sdoganamentodi questi “nomi”, senza condizioni di tempo.È un’opera che risulta rara, specialmente quella compiuta nei confronti dell’Evola pittore,avendogli curato una grande mostra nel 2015, a Reggio Calabria (Castello Aragonese), sulla sua Arte come Alchimia, mistica, biografia. L’esperienza teorica e artistica di Vitaldo Conte è sospesa e “legata” alla dicotomia Rosa Rossa – Donna Scarlatta. Questa vive anche nelle azioni estreme di Vitaldix, suo avatar performativo, con la rosa “rossa donna” in bocca che, seppure il vento spari alla velocita di 250 km/ (https://www.youtube.com/watch?v=7G7cjK0bxM4), non si scalfisce né si “frantuma” mai. Non è un caso che il nostro abbia creato – come in Thelema nella Charme des ChauchemarsChioda: un’alcova mistica, dedicata alla Rosa Rossa, nel cuore di Catania, dove venivapraticata una ritualistica del tantra orgonico e dellamagia sexualis. Questa erafatta fluire nei “corpi interiori” di sacerdotesse dedite anche a una panica“narrazione” d’arte, dove il linguaggio inglobante dell’espressione diveniva già“momento/monumento”dell’Erosmistico. Lì come il dio Pan, il satiro dei boschi della creazione attraversava, con ildesiderio, l’impervio bosco per trovare l’energia-luce, perdendosiinquestacon una esperienza quasi para-onirica.

 Vitaldo Conte “gioca” narrativamente con il suo “doppio” incarnato da Evola ne Il ritorno del Barone immaginario (Idrovolante Edizioni, 2021):un’antologia di racconti a cura di Gianfranco de Turris sulla vita romanzata di Evola. Nel suo testo Il quadro segreto (1970) il climax narrativo parte dalla poesia di Julius Ballata in rosso in cui “lame della crudeltà e di voluttà estreme”s’interfacciano con le parole poetiche:“per voi chiusa bellezza nemica fasciata di eleganza/contro cui si infrangono assurde brame”. Queste rappresentano l’indifferenza partecipativa dell’incontro erotico che permette all’essere maschile superiore di poter osservare la violenza e la dolce bellezza della fusione attraverso le polarità sessuali del maschile e femminile. Evola infatti – così come vive nel testo – “ascoltando quella notte il colloquio degli uomini con la donna, oggetto della loro attrazione, immagina un cerimoniale erotico, svoltosi in una ambientazione sadomaso, che si trasmuta in rituale di conoscenza. Ciò ancora una volta può essere espresso (dice il nostro Vitaldo) attraversole parole della Ballata in rosso:“Perché ora siete in mio potere…/Vi hanno portata nella piccola sala chiusa dinanzi alla mia indifferenza seduta…/strappare giù fino al sugello al segreto del vostro essere oscurità chiusa fra le vostre cosce.

La prima compagna della magia sexualis di Evola ad “apparire” nello spazio narrativo è la figura di Maria de Naglowska, conosciuta da lui a Roma all’inizio degli anni Venti,che tradusseil suo poemettoLa parola oscura dall’italiano al francese. Questo evento sugellò la loro “chiave salomonica”, soprattutto perché l’originale in italiano–come è fantasticato nel racconto–doveva essere nascosto presso un cenacolo di cultori dell’esoterismo.In questa constatazione l’eros stesso è riconducibile ed espressoper mezzo del suono della parolapoetica:“Questo incarna l’orgasmo interiore della parola oscura che entrambi avevano ricercato nella traduzione del poemetto. La trasmutazione alchimica cerca nell’eros magico la sua rubedo di cristallizzazione. Non è un divenire ma una immagine rossaferma attraverso lo scatto. E’il passaggio dei versi all’opera pittorica. La voluntas di trasmutazione nel sesso rituale è presente, come scrive Conte nel suo racconto, riferendosi a Evola, nel ”dipingere nudi di donna, nonostante avesse dichiarato in passato di aver concluso il suo percorso artistico dopo l’esperienza futurista e dadaista perché comprende che questi nudi femminili dovranno essere letti come manifesti visivi delle peculiarità della donna nell’esperienza ermetica della Metafisica del sesso, anche se è consapevole che non saranno compresi da molti i loro significati.

 Una esplosione può essere in realtà gestazione di una implosione dissuasiva, che può culminare con la fonè orgiastica del linguaggio.  de Sade-Crowley-Evola furono il principio di questa esplosione. Sade, in particolar modo, è il rappresentante di quel superamento della censura. Che si conclude biologicamente con la sua reclusione forzata e, di conseguenza, con l’esaltazione pansessuale di una solitudine che diviene tempesta di parole. Come viene riportato nel saggio di Vitaldo Conte Il Machese de Sade: il censurato “da liberare” (‘la Biblioteca di via Senato’,2015):“il viaggio può essere molteplice, ma il luogo sadiano è unico: si viaggia per rinchiudersi. Il prototipo di questo luogo è il castello di Silling, nel cuore della Foresta Nera, in cui i quattro libertini de Le 120 giornate si rinchiudono per quattro mesi nel loro serraglio. Questo luogo è ermeticamente isolato dal mondo attraverso numerosi ostacoli. Il castello è il luogo sommo, il teatro della lussuria in cui tutti sono attori e spettatori insieme: uniti nel tutto espresso dalla scrittura. […] Il suo sadismo si restringe ai racconti delle sue opere, nella vita di solitudine passata in prigione e nella casa di salute, benché sano di mente. Negli ultimi anni dell’esistenza, si dedicò alla stesura dei suoi romanzi: «Chiuso in carcere per trent’anni, morì in un manicomio, più lucido e più puro di qualsiasi altro uomo del suo tempo» (P. Eluard).

Continua il nostro Vitaldo Conte, richiamando giustamente Jacques Lacan: “Sade risulta un primo sintomo filosofico e fantastico dello spirito moderno, affermando, nel discorso, il “diritto al godimento” (massima sadiana): «proprio il godimento che viene respinto dalla società e pudicamente (nevroticamente) rimosso (...) per cui esso precipita nell’inconscio come significante rimosso» (J. Lacan)”. E ancora sempre nel testo in questione: “La sua grandezza non è nel celebrare il delitto, ma nel averlo usato per inventare la macchina di un discorso dilatato, fondato su ripetizioni, dettagli, invenzioni, sospensioni, erranze. Il crimine sadiano esiste solo in proporzione alla quantità di linguaggio che vi si investe: non certo perché è sognato o raccontato, ma perché solo il linguaggio lo può costruire. La sua scrittura è il suo supporto.

 Crimine può significare declinazione, cioè dilatazione linguistica, attraverso un “eccesso” di immagini e nelle immagini che dalla stessa provengono. Il virus-V (Vitaldo e/o Vitaldix) opera questo “eccesso“ di immagini nel suo video Ritual (Erotic Art Rose, 2010). Qui i nudi femminili diventano forma di un contenuto “aperto” che viene paradossalmente “racchiuso” nell’ambito della condivisione esterna. Questo infine viene “censurato” perché è considerato un superamento della porno-immagine stessa: a differenza di Sade dove il ricorso alla “legge” inevitabilmente lo rinchiude nel carcere della parola. Mentre la censura coatta di YouTube nei confronti del video di Vitaldo Conte fortifica l’opera “dismessa”, poiché, non facendosi afferrare nei termini della clausura (cosa che invece inevitabilmente avviene nella scrittura sulfurea del Divino Marchese), essa sfugge alla staticità della società stessa, in quanto più liquida e dinamica della comunità teorizzata dal filosofo Baumann.

 Nell’ambito della tempesta di parole, l’eccesso del linguaggio tende alla fonè, di cui, per intenderci, si può parlare in termini di struttura musicale alla Zoltàn Kodaly. L’implosione della coercizione può esplodere poi nel verso recitato o nella ricerca del rumore dell’opera. Questa situazione è riscontrabile nell’opera fonetica di Vitaldo Conte in Vitaldix, attraverso il transeunte del suo dinamismo artistico. L’autore riesce a trasformarla in fonè orgiastica post-umanistica: come nell’azione Ritual Rumore con il bianco bianco, ripetuto e reiterato nell’opera in questione. Vuole essere rinascimento di un’arte futurista che offre allo spettatore una esperienza corporea ed extracorporea in cui tutti i sensi sono coinvolti. L’esperienza dell’orgone reichiano attraversa le vibrazioni del recitato, del parlato, della trasmutazione della parola che riecheggia sino a divenire, nell’apocalisse prometeica, un fuoco che fuoriesce dall’ombra di se stessa. Questa è una grammatica di segni che esprime, sempre di più, una sonorità che diviene significato. Tutto ciò che abbiamo espresso nel testo può essere una “guida” di significazione per le stesse scritture degli autori presi in considerazione. Conte ne è una summa di attraversamenti nell’ambito di un eros linguistico, sospeso tra la macchina e la mimesi della scrittura.

La consacrazione della natura magica dell’Eros è già poièin: è pratica tantrica, risveglio della kundalini, l’energia sessuale primordiale. Ancora una volta l’immagine-suono e il simbolo sembrano trovare nell’esperienza erotica un loro comune tòpos. Che ha necessità però di essere celato dal simbolo non comprensibile alla natura di tutti. Nello stesso tempo però permette a chi vi si avvicina con “gli strumenti del Rito” di scoprire quella stessa natura intrinseca. Questa, a ben vedere, è presente nel Libro della Legge( Liber al vel legis) di Crowley, così come nelle opere di Evola –Metafisica del sesso e Yoga della potenza– e nelle 120 giornate di Sodoma di Sade: mutatis mutandis essa si svela. Il procedimento compie un percorso a ritroso in Vitaldix che fissa la sua Rosa Donna Scarlatta in bocca nel cielo.

 

Cristiano Turriziani

nasce ad Alatri (FR) nel 1977. Si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Cassino con una tesi su D.A.F. de Sade: Per un et(h)ica della perversione nelle componenti filosofiche e psicologiche. Sempre nella stessa facoltà è vincitore del dottorato di ricerca in Psicologia delle Emozioni e della Creatività artistica e letteraria con una tesi sulla Lettura Orgonomica de il Fuoco di Gabriele D’Annunzio. I suoi interessi spaziano dalla filosofia teoretica all’ermeneutica e dalle bioenergie (tra cui in primis l’orgonomia reichiana) all’esoterismo e alla simbologia. Autore di diverse pubblicazioni cartacee e online, è studioso della Tradizione Romana, della Ritualità Orfico-Pitagorica e Pagana.

L’eco della Germania segreta: per un lógos physikós – Giacomo Rossi

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E’ da poco nelle librerie l’ultimo libro di Giovanni Sessa. Si tratta di un volume significativo per la densità di pensiero che emerge dalle sue pagine. Ci riferiamo a, L’eco della Germania segreta. “Si fa di nuovo primavera”, comparso nel catalogo della OAKS editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 225, euro 18,00). Il testo di Sessa è impreziosito dall’introduzione del germanista Marino Freschi, dalla prefazione e dalla postfazione dei filosofi Romano Gasparotti e Giovanni Damiano. Freschi rileva che il mitologema della Germania segreta, riferentesi non solo ad una patria tedesca della Tradizione, ma come coglie Romano Gasparotti, ad un’Europa possibile: «sorse in un momento cruciale della storia della Germania, e si sviluppò sorprendentemente dopo la grave sconfitta del 1918» (p. 11). Circolò soprattutto nel Kreis di Stefan George, negli ambienti della Rivoluzione conservatrice, presente in Ernst Jünger, coinvolse, questa la novità interpretativa proposta da Sessa, autori impensati, quali Karl Löwith e Walter Benjamin. Il primo è noto ai più quale allievo “antinazista” di Heidegger, il secondo è stato relegato dal pensiero “intellettualmente corretto”, nel quadro del neomarxismo novecentesco. Gli autori indagati nel testo sono cinque: oltre a Jünger, Geroge, Löwith e Benjamin, Ludwig Klages, “cosmico monacese” che, nei primi decenni del secolo scorso infiammò il quartiere degli intellettuali di Monaco di Baviera, Schwabing. Che cosa unisce pensatori così diversi? Secondo Sessa, la demitizzazione che, per usare le parole di Gasparotti, da ognuno di loro fu: «messa all’opera a proprio modo, dei canoni dominanti del modernismo fondato sull’idolatria tanto progressista quanto regressiva della storia» (p. 20).

Tale decostruzione antimoderna è centrata sull’idea del Nuovo Inizio, non inteso nell’ingenua prospettiva tradizionalista e palingenetica, il ritorno dell’Età dell’oro, altra faccia dell’idea di progresso moderna, ma pensato quale dischiudersi del gioco tragico della rigenerazione di un Possibile non normabile, non prevedibile, non pianificabile. In tutti questi autori si mostra la riemersione di ciò che Sessa, memore delle prime testimonianze filosofiche d’Europa, quelle dei Sapienti cari a Colli, definisce lógos physikós.

Un sapere che ha al centro dei suoi interessi la Natura, intesa quale forza generatrice e dissolvitrice, unica trascendenza a cui l’uomo, stoicamente, possa far riferimento. Merito di Sessa è di aver letto in modalità originale, cioè facendo riferimento ad una filosofia dell’origine, e al di fuori delle consolidate ermeneutiche storiografiche, i cinque autori ricordati. Lo ha fatto peraltro, non semplicemente in termini storico-filosofici, ma formulando una chiara proposta teoretica. Egli scrive, infatti, che, a questo studio, ha voluto attribuire un compito: «certamente non modesto, […] suggerire una via atta a farci guardare il mondo quale eterna fioritura, eterna primavera dionisiaca» (p. 53). Ed eccolo, allora, ricordare, nel primo capitolo, come la musica di Wagner, momento apicale del ritorno della musica tonale in Europa, presentasse nella propria grammatica una manifestazione dell’idea di tempo pre-cristiana, il tempo sferico o tridimensionale. Ogni nota wagneriana contiene in sé la precedente e rinvia alla successiva, celebrando l’abbraccio dell’ “attimo immenso” e dell’ “eterno”. Sessa rileva, inoltre, servendosi dell’esegesi del mito di Orfeo propria del filosofo Massimo Donà, come, ab origine, nel pensiero ellenico si alludesse ad una possibilità ulteriore, rispetto a quella staticizzante, istituita dal theorein e dal logocentrismo, di esperire il reale: la visione poietica, atta a dinamizzare il reale e a restituirci il perenne essere all’opera delle cose di natura.

 L’autore ci introduce nel pensiero di Klages, filosofia costruita su una delle più potenti elaborazioni novecentesche relative al: «nesso tra vita, pensiero e immagine» (p. 21). Per il tedesco, l’assoluto della vita animata ed animante della physis è immagine, non concetto. L’intera vicenda del modernismo è segnata, nella prospettiva klagesiana, dalla superstizione imposta dallo Spirito, antagonista dell’Anima, ma non nel senso delle prospettive dualiste e oppositive. Infatti, lo Spirito, sintesi del logocentrismo occidentale, altro non è che Anima staticizzatasi per il predominio del principio d’identità, nell’iter gnoseologico che da Parmenide conduce a Carnap, responsabile del fisicidio, della tacitazione delle ragioni della Natura, manifestatosi nella filosofia e nella scienza moderne. L’immagine klagesiana consente il recupero del “canto” di Orfeo, permette di leggere il mondo nel suo costituivo ancora-da-essere, nel suo divenire perennemente nuovo, sempre diverso da sé. Tale sapere può restituire la primavera eterna della vita.

Nella medesima prospettiva, Sessa compie l’esegesi del pensiero-poetante di George. Per il Meister, il fare poetico, di natura ritmico-musicale risacralizza il reale nel senso del sacer, non del sanctus: «sottraendolo a ogni oggettivazione e quindi a ogni conquista, possedibilità, manipolabilità» (p. 22), chiosa Gasparotti. Nella creazione artistica, il soggetto stesso si fa uno con la Natura, coincidendo con i processi metamorfici di quest’ultima. A dire dello scrittore, il più significativo recupero del lógos physikós del Novecento, lo si evince dalle opere di Löwith. Questi fu critico radicale delle filosofie della storia: lo storicismo moderno, nella sua interpretazione, altro non è, se non l’immanentizzazione della visione escatologica-soteriologica di origine ebraico-cristiana.

Lo stesso Heidegger rimase impigliato in tale visione, in quanto pensò tanto l’esser-ci che l’essere, in termini di temporalità. La filosofia “naturalista” di Löwith ha, al contrario, matrice spinoziana: in essa la physis è l’esser-così delle cose, irriducibile, pertanto, a qualsivoglia approccio staticizzante. Anche Jünger, rileva Sessa, fu pensatore che tentò un recupero della dimensione “cosmica” della vita. In particolare, lo si comprende da quanto scrisse in merito alla concezione astrologica del temporalità, nella quale si manifestano continui Nuovi Inizi, tanto imprevedibili quanto imprevisti. L’ultimo capitolo del libro si occupa di Walter Benjamin, che il nostro legge alla luce della categoria dell’ “immemorare”. Benjamin ci ha insegnato che ogni passato custodisce un che di “inespresso”, che può essere riattualizzato, secondo modalità inusitate, nel presente. In tale prospettiva, il messia della tradizione ebraica è esperito dal filosofo quale azione messa in atto dal Possibile, che sovrasta la vita umana. In quanto tale, l’origine può tornare a darsi in modalità sempre nuove o, al contrario, essere definitivamente tacitata. Sessa sostiene che se il pensiero di Benjamin può essere definito materialista, esso non è affatto inquadrabile nel “materialismo storico”, semmai si tratta di “materialismo stoico”.

 In questo volume, l’autore tenta di inaugurare un colloquio teorico tra il pensiero di Tradizione e gli autori su ricordati, il che rappresenta una novità. Ciò spiega la postfazione di Damiano, che esplicita in modalità esemplare il rapporto Evola-Klages. Un libro importante, quindi, che rintraccia una via lungo la quale il tradizionalismo può lasciarsi alle spalle il necessitarismo storico, esito di una lettura scolastica della “dottrina dei cicli”.

Giacomo Rossi  

La via di realizzazione del Sé – Umberto Bianchi

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Una delle grandi tematiche che toccano da vicino l’intero ambito delle cosiddette “scienze iniziatiche”, è rappresentato da quelle che, generalmente, vengono definite  “vie della realizzazione del Sé”, ovverosia le migliori modalità per raggiungere quello stato di perfetta equilibratura interiore che, di queste scienze dovrebbe rappresentare lo scopo finale. Cominciamo con il dire, anzitutto, che tale stato di perfetto equilibrio realizzativo, in tutte queste forme di sapere, trova la propria massima realizzazione nel pervenire, dopo un determinato percorso iniziatico, alla coincidenza del “Sé” dell’iniziato con la sfera del sovrasensibile e, più esattamente, con la dimensione della trascendenza, con l’Assoluto. Ma qui si pone immediatamente un problema di ordine ontologico, costitutivo. Cosa si intende con il voler far coincidere il proprio “Sé” con l’Assoluto? Il disperdersi del proprio “io”, rendendolo parte della sostanza divina, sino a confondersi con essa, come una goccia d’acqua nell’immensità del mare o, invece, all’incontrario, assurgere ad un diverso e superiore stato ontologico, mantenendo intatto quello stesso “io”, sino a farlo assurgere allo status di autonoma entità divina? A prima vista, questa potrebbe sembrare una domanda folle, frutto di una qualche strana paranoia occultista da parte di chi scrive ma, a ben vedere, la domanda ha un suo ben preciso e calibrato fondamento. Questo ci riporta, giuocoforza, alla necessaria distinzione tra misticismo ed esoterismo, ambedue intese quali modalità di pensiero.

Nella prima, il credente si abbandona in modo acritico ad una determinata fede, mirando a raggiungere, attraverso la pratica religiosa, uno stato di estatico abbandono del proprio “sé”, nel mare magnum della sostanza divina, sino ad arrivare al proprio auto annullamento. Al contrario, nel secondo caso,il miste si pone di fronte all’Assoluto con un atteggiamento attivo, volto attraverso il percorso di varie tappe, a pervenire ad una maggior coscienza del proprio sé, tale da conseguire quello stato di superiorità ontologica o “indiamento”, coincidente con la propria divinizzazione. Motivo questo, che da sempre traspare in tutte quelle vie realizzative prospettate dalle varie forme di conoscenza “esoterica”. Una distinzione questa, operata in linea di massima ma che, non sempre è così netta e definita, anzi. In molti casi, si tende a  confondere ed a mischiare queste due modalità di pensiero,creando così non pochi fraintendimenti a riguardo. A questo proposito, non possiamo non citare due autori che, su questa tematica, con i loro chiarimenti, rappresentano tuttora un valido caposaldo da cui partire, per addivenire ad una visione più chiara e nitida, dell’intera “vexata quaestio”. Renè Guenon e Julius Evola, sebbene ambedue rappresentanti di quel pensiero “perennialista” che, dall’inizio del Novecento muoverà i propri decisi passi verso una più decisa elaborazione e strutturazione teoretica, attraverso autori come Coomaraswamy, Steiner, Tilak, Kremmerz, Schuon ed altri ancora, riguardo a quanto stiamo trattando, presentano delle decise e non irrilevanti differenze.

La prima delle quali va a toccare il rilievo e la primogenitura che, dai due, viene data alle due caste che, rispettivamente stanno al vertice della piramide sociale del mondo “tradizionale”, ovverosia i rappresentanti della casta sacerdotale (i brahmini hindu…) ed i rappresentanti della casta regale e guerriera (gli kshatryia, sempre in ambito hindu…). I primi, a causa della loro funzione di naturali depositari del culto, sono titolari di una impostazione dalla doppia valenza, sia mistica che esoterica ed iniziatica, alla quale il Guenon riconosce un carattere di assoluta primogenitura e supremazia rispetto alle altre caste. Al contrario in Evola, invece, la supremazia spirituale, conseguita attraverso la sapienza esoterica, spetta alla casta regale e guerriera che, differentemente con quanto accade con la casta sacerdotale, interpreta questa sapienza con una modalità “regale” e “guerriera”, in grado di produrre quel potenziamento, tale da condurre il proprio “Sé” al contatto diretto con la dimensione del sovrannaturale ed al proprio consequenziale, “indiamento”. A tal proposito, Evola a proposito dell’Ermetismo da lui associato alla pratica alchemica, ci sottolinea il senso del termine “Arte Regia”, appunto usato per queste discipline.

Da questa prima, ma fondamentale linea divisoria tra i due autori, derivano tutta una serie di differenze che non possono esser sottaciute; né tantomeno, può esser sufficiente il fatto che i due autori, dopo un iniziale periodo di diffidenza, si stimassero reciprocamente, sentendosi accomunati nel medesimo fronte di lotta alla Modernità ed alle sue degenerazioni. Guenòn accomuna e conferisce pari dignità alle grandi narrazioni religiose quali, Cristianesimo, Islam, Induismo e via discorrendo, ritenendole tutte espressioni derivate di una unica Tradizione “primordiale”. Evola, invece, ritiene il Cristanesimo, una espressione religiosa tipica della fase di “decadence” del mondo occidentale. E nonostante le quanto mai frettolose e reiterate affermazioni, su un suo appiattimento ed allineamento alle posizioni guenoniane, a tal riguardo, in lui, riguardo alla dottrina cristiana,  permarranno sempre un malcelato senso di diffidenza e disprezzo. Nel suo  famoso “non possiamo non dirci cattolici…”, a trasparire non è tanto una sua tardiva conversione al Cristianesimo, quanto l’ammirazione per lo spirito guerriero che caratterizzò l’Ecclesia Cattolica durante il Medio Evo. Spirito che, lo stesso Evola, definisce abissalmente lontano da quello che, invece, anima e sostiene il Cristianesimo delle origini ed, ancor più, quello della attuale Modernità.

Se Guenon, da ortodosso e rigido studioso delle discipline della Tradizione, vede nell’iniziazione il “sine qua non”, senza il quale non è possibile un serio approccio ad un qualsivoglia percorso iniziatico, all’incontrario Evola a riguardo, si pone in un’ottica di radicale indifferenza per tale momento, ritenendolo quasi superfluo, contando per lui l’impostazione e l’atteggiamento esistenziale da tenersi nei riguardi della Modernità; atteggiamento che, naturalmente, ha il suo naturale presupposto in quell’opera di “realizzazione” e “centratura” del “Sé”, di quella pulsione ad un suo “indiamento”, senza la quale non si può capire il senso dell’intera opera evoliana. Stesso discorso, per quanto attiene le dottrine Hindu. Se Guenon guarda alle Upanishad ed in particolare al Vedanta, incentrato sul graduale raggiungimento dello stato di Atman o Io sovrasensibile, Evola guarda invece al Tantra Yoga o Via della Mano Sinistra, che, attraverso pratiche realizzative “estreme”, tramite un mix di sessualità e di particolari forme di meditazione, ha come scopo il potenziamento del “Sé” del miste.

Comunque sia, alla base di tutti gli esempi qui riportati, sta la sostanziale differenza tra misticismo fideistico e ricerca iniziatica. La qual cosa, però, non deve neanche indurci a pensare che i due atteggiamenti non possano convivere, anzi. La pratica fideistica, il misticismo, costituiscono un ottimo viatico, per addivenire ad una più approfondita ricerca ontologica e ad un lavoro su proprio “Sé” che,  invece, è propria delle ricerca iniziatica. Difatti, generalmente, in quei contesti in cui ci si trova di fronte a consolidate tradizioni religiose, accanto alla pratica fideistica, è tranquillamente presente una forma di conoscenza misterica o sapienziale che dir si voglia. Così come la “paganitas” classica, conobbe i misteri eleusini e l’Orfismo, in egual modo, nell’ambito della contemporaneità, religioni come l’Induismo, il Buddhismo, ma anche lo stesso Islam e l’Ebraismo, presentano al proprio interno, insegnamenti esoterici di vario tipo.

In Occidente, invece, il plurisecolare processo di inaridimento delle fonti spirituali, conseguente alla sua progressiva economicizzazione, ha coinvolto il Cristianesimo, assurto, pertanto, a mera  manifestazione di un quanto mai vuoto e superficiale fideismo. Pertanto, tutte le forme di conoscenza iniziatica, prettamente occidentali, hanno dovuto seguire un percorso totalmente autonomo dall’ambito religioso ufficiale, finendo in qualche caso, con il seguire quell’occidentale  processo di banalizzazione e prosciugamento delle proprie fonti spirituali, come nel caso della Massoneria, nella quale Guenon ripone ancora qualche speranza di rinascita di un autentico spirito iniziatico, mentre, al contrario, Evola, mostra al riguardo un atteggiamento di chiusura e diffidenza. A questo punto, però, viste le differenze tra i due autori, bisognerebbe chiedersi il perché del passaggio di Evola, dalle posizioni di un neo idealismo intriso di niccianesimo, a quelle vicine al rigido perennialismo guenoniano. E’ molto semplice: ad ispirare la scelta di Evola, è stata la considerazione sul rischio dell’approdo  verso uno sterile e materialistico individualismo, rappresentato dalle coordinate di quel neo idealismo, per lui assolutamente insufficienti a dare un carattere di stabilità e perennità alla sua narrazione ideale.

Alla stessa maniera in cui le varie ideologie che si rifanno al materialismo progressista, hanno fatto del “progresso” una categoria di narrazione ideale e metastorica, Evola ha conferito al termine  “tradizione” quella stessa, ma opposta,  valenza di narrazione  metastorica e meta politica. Evola, quindi, non ha rifiutato o rinnegato le proprie precedenti fasi spirituali ed ideali, le ha solo integrate con quel supporto metafisico di cui, invece, nelle prospettive di certo neo idealismo e di certo niccianesimo, non doveva rimanere traccia alcuna. Fermo restando che, come abbiamo già avuto modo di vedere, le posizioni di Evola sulla metafisica, sono tutte all’insegna della supremazia di una “Via Regia”, non fideistica o devozionale, ma improntata ad un radicale lavoro di ricerca e perfezionamento del “Sé”, sino al proprio “indiamento”, così come rappresentatoci in testi come “La Tradizione Ermetica” o nel saggio “La via della realizzazione di sé nei misteri di Mithra”.  A questo proposito, vale ricordare anche quanto l’antroposofo Massimo Scaligero disse a proposito di Evola e della sua particolare idea di iniziazione, tutta frutto della particolare natura di quest’ultimo, che non necessitava di quella gradualità per altri necessaria, proprio in virtù della capacità di quest’ultimo di connettersi direttamente e senza mediazione, a superiori stati di coscienza.

 

Quanto sin qui detto, però, non deve comportare lo sminuire o il deprezzare, il contributo di personaggi del calibro di un Renè Guenon. Piuttosto, ambedue le impostazioni, vanno viste nell’ottica di un’ampia ermeneutica interpretativa, in una logica di necessaria complementarietà. L’esempio del Buddhismo sarà, a questo proposito, calzante. Se Guenon, ( stavolta nell’inedito ruolo di condivisore delle idee nicciane,sic!) ci dice che il Buddhismo rappresenta una versione decadente e pietista dell’Arya Dharma e che, quanto di buono esso possiede, deriva dall’Induismo, d’altro canto, Evola, ne “La dottrina del risveglio”, del Buddhismo esalta la valenza guerriera. Potrà sembrar strano, ma la ragione sta dalla parte di ambedue. Difatti, il Buddhismo nella sua versione più ortodossa, per intenderci quella Therawada, ma anche in quella stessa Mahayana, può esser interpretato all’insegna di una forma di mistico pietismo, tale da avvicinarlo per molto versi, alla dottrina cristiana. D’altro canto, in alcune delle sue versioni estremo orientali, (giapponesi in particolare), come quella Nichiren e quella Zen, possono riscontrarsi delle valenze guerriere, che sembrano distanziarlo di molto dai dettami originali.

Ora, tutto questo, ci mette di fronte al fatto che, contrariamente a quanto i potrebbe credere, la stessa idea di “Tradizione”, così come formulata da questi, ma anche da altri autori, è tutt’altro che un rigido monolite, intriso di un rigido e ritualistico  conservatorismo. Piuttosto, essa prende un aspetto fluido, mobile, conferitole proprio da quella Modernità che, nell’ottica della preminenza dell’ “Io” e delle sue interpretazioni, ha influenzato le valutazioni degli autori che abbiamo or ora, esaminato. E così, come per magia, Tradizione e Modernità vanno a confluire ed interagire in un unico e grandioso disegno. Ora, la sfida che ci aspetta, è proprio quella di  riuscire a pervenire alla realizzazione di una occidentale “via della mano sinistra”, in grado di gestire e superare in maniera radicale, le aporie e le sfide di un modello, quello Tecno-Economico che, fattosi vero e proprio malvagio “deus ex machina”, rischia di disumanizzare l’intero genere umano.

Umberto Bianchi

 

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:

  1. Evola-La Tradizione Ermetica-Edizioni Mediterranee
  2. J.Evola-Lo Yoga della Potenza-Edizioni Mediterranee
  3. R. Guenon-L’uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta-Adelphi Editore
  4. R. Guenon-Il regno della quantità e i segni dei tempi -Adelphi Editore
  5. M. Scaligero-Lo Yoga e la Rosacroce-Edizioni Mediterranee
  6. D. Suzuki-Il Buddhismo Zen-Astrolabio Editore
  7.   S. Nivedita/A. Coomaraswamy-Miti dell’India e del Buddhismo-Laterza.

Evola Eros-Sesso: Pensiero Virus – Vitaldo Conte

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Attraversando l’e-book Vitaldo Conte, Julius Evola (Vita Arte Poesia Eros come Pensiero e Virus), Tiemme Edizioni Digitali, 2021 con testimonianze

Evola: Metafisica del sesso

 

«In quest’opera il termine “metafisica” viene usato in un duplice senso. Il primo senso è quello corrente in filosofia, dove per “metafisica” s’intende generalmente la ricerca dei significati ultimi. Il secondo senso è quello quasi letterale, esso può riferirsi a ciò “che va al di là del fisico”, nel presente caso, nel sesso e nelle esperienze del sesso.» Julius Evola

 

L’interesse di Evola verso i territori metafisici del sesso, “la più grande forza magica della natura”, risulta antecedente alla stesura del suo libro Metafisica del sesso, uscito nel 1958. La sua “lettura” dell’eros ha costituito un ulteriore aspetto per liberare questo autore dall’isolamento in un periodo di rivoluzione sessuale. Ci si meravigliava che un “teorico della tradizione”, un filosofo politico, potesse occuparsi in modo così ampio del sesso, anche se denunciava la “pandemia sessuale” del tempo e della conseguente sua banalizzazione. Era un momento in cui si delineava già la crisi di certezze ideologiche, morali e religiose. Un evento sintomatico, al riguardo, è costituito dall’intervista all’autore su ‘Playmen’ nel 1970. Questa Conversazione senza complessi ha costituito un momento di significativo rilievo, reso possibile da Enrico De Boccard, in quanto il suo nome era ancora un tabù negli ambienti intellettuali, determinando reazioni indignate da parte dei conformismi di destra e sinistra.

(…) Evola porta l’attenzione su la teoria magnetica dell’amore. Secondo il sapere di antiche tradizioni estremo-orientali si desta reciprocamente, nell’essere più profondo di un uomo e di una donna che si frequentano anche senza contatti, una speciale energia o “fluidità” immateriale, detta Tsing. In questa attrazione fluida si stabilisce la loro corrispondenza e complementarietà di Yin e Yang: polarità e principi puri del femminile e maschile. Questa speciale forza, magneticamente indotta, ha per controparte lo stato di vibrazione, di diffusa ebbrezza e di desiderio proprio all’eros umano. La semplice presenza della donna, di fronte all’uomo, suscita dunque il grado elementare della forza Tsing e dello stato corrispondente. Maggiore sarà l’energia di questa polarità nella magia sessuale, crescente in proporzione al grado di sessuazione dei rispettivi sessi, tanto più selvaggia sarà la forza del magnetismo e la quantità di energia liberatesi attraverso l’unione sessuale.

(…) L’amplesso fluidico e l’amore magico entrano nell’eros: non solo come strumento di desiderio o brama sessuale, ma come Amore con qualcosa di più sottile e vasto. I fluidi energetici entrano nella “figurazione” della magia sexualis: nel suo atto di “sprofondare” e nel “sentirsi portare in alto”. L’atto magico “avviene” nello stesso momento in cui tutte le forze e le energie, unite, riescono a toccare la radice del sesso opposto. Quando lo stato di magnetismo cessa, si allontana irrimediabilmente anche la sua attrazione.

Evola – Randolph

I presupposti della magia sexualis operativa possono essere rintracciabili in pratiche protrattesi fino ai tempi moderni, anche all’interno della nostra civiltà. Evola “guarda” come documento di questa indicazione, nel paragrafo finale della Metafisica del sesso, il libro Magia sexualis di Pascal Bewerly Randolph. Questa figura enigmatica di scrittore e occultista dell’800 risulta complessa e ancora segreta. Il suo libro, che uscì in prima edizione a Parigi nel 1931 a cura di Maria de Naglowska, sarebbe stato composto dopo la sua morte, in base a note di un’opera manoscritta a uso personale per gli appartenenti a Eulis Brotherhood, un centro di indirizzo magico-iniziatico. Questo testo, che risulta «in vari punti pregiudicato da interpolazione e da un parziale arrangiamento» (Evola) da parte della curatrice, porta alla luce antichi procedimenti magici tenuti in genere segreti, specie per quel che riguarda l’alchimia erotica.

Randolph, riconoscendo la sessualità come grande forza magica della natura, ritiene che la sua unione, opportunamente canalizzata, possa divenire uno strumento magico operativo: per giungere a risultati di espansione paranormale. L’autore afferma, infatti, che l'universo, nel suo insieme e in ogni sua parte, è sottomesso a influenze fluidiche, che stanno alla base di ogni fenomeno fisico o psichico. L'amore è la sola legge universale che eserciti un'azione irresistibile ovunque si affermi la vita. Si legge anche che l’amplesso sia da considerare come una “preghiera magica” con l’oggetto di questa formulato e immaginato nettissimamente. In questo processo, in cui «tutte le forze e le potenzialità promanano dal femminile di Dio», si ritrova la teoria metafisica della Çakti, il cui particolare insegnamento riguarda la polarità invertita dei due sessi, con le loro polarizzazioni: di segno positivo nell’uomo e negativo nella donna sul piano materiale e corporeo. La medesima polarizzazione è presente nel rispettivo organo sessuale. Mentre sul piano mentale questa polarizzazione s’inverte: come avviene nell’organo delle sue manifestazioni. Nella congiunzione si concretizza una energia scaturita dall'unione delle polarizzazioni opposte: non solo sul piano fisico, ma anche su quello sottile. L'iniziato capace di dominare tale energia potrà servirsene. Randolph espone quindi gli esercizi di preparazione, le tecniche e le operazioni da usare, fino al coito magico, alle sue posizioni e variazioni. Tra gli argomenti del libro troviamo: catene e anelli magici, astrologia, profumi, colori, suoni, quadri e statue viventi, fluidi magnetici. Una parte considerevole del testo è riservata agli specchi magici e alla loro fabbricazione: una tradizione che risulta antica e attestata in maniera molteplice.

Per Evola questi prolungamenti di antiche tradizioni segrete, giunti fino ai giorni nostri, «sembrerebbero corroborare l’ipotesi già affacciata, che in origine, o in alcuni casi, varie posizioni dell’amplesso considerate da trattati di erotica profana o libertina potettero anche avere un significato rituale e perfino magico». Lo stato speciale dell’operatore dovrebbe essere quello dell’autotrascendimento attivo, come scrive lo stesso nella prefazione alla Magia sexuals di Randolph: «Si tratta di superare, con l’una o l’altra tecnica, i limiti della coscienza puramente individuale legata all’organismo fisico e al suo mentale. È una specie di esaltazione, controparte attiva di ciò che nei mistici è l’estasi. Ebbene, già da Platone fu riconosciuta la possibilità che l’Eros metta l’uomo in tale stato, al segno che egli assimilò chi è trasportato dall’Eros al veggente, all’iniziato dionisiaco, al profeta, al vate». Superando le semplici sensazioni e la concupiscenza carnale, l’apice dell’orgasmo può determinare uno stato di “apertura” e “contatto” con il sovrasensibile, la cui stessa natura può rendere possibili azioni a carattere magico e sovranormale. Così la Magia sexualis diviene Metafisica del sesso.

Virus Evola

 Gli integralismi verso le aperture dell’eros e le ricerche del dio in noi, ritornano oggi sotto varie spoglie. Come “rintraccio” in un testo uscito sul sito dell’edizione ‘Effedieffe’, espressione del tradizionalismo cattolico, che si propone di “combattere la battaglia”, sia formativa che informativa, per la difesa del Cattolicesimo e della Chiesa. Lo scritto, a cui mi riferisco, è Il Virus Evola (parte 2, 3 gen. 2015). Ho letto il sopraindicato testo come indicazione del suo contesto integralista.

Un esempio di decontestualizzazione è la presunta ammirazione di Evola verso Crowley come collegamento satanico: in Metafisica del sesso ne parla sì come di un uomo possedente una forza reale che chi entrava in rapporto con lui avvertiva. Ma risulta assente un’indicazione successiva: che proprio «tale circostanza crea una pregiudiziale nei riguardi dei suoi insegnamenti, nel senso che è difficile stabilire in che misura certi eventuali risultati erano dovuti a procedimenti oggettivi e fino a che punto avevano invece per condizione» il suo particolare magnetismo.

Nello stesso scritto si cita l’articolo – Il barone Evola e Moana Pozzi, la pornostar che sdoganò il filosofo nero – di R. Berio (‘Secolo d’Italia’, 15 sett. 2014), che scrive: «Da ideologo nero ad autore prediletto da Moana Pozzi (...). Moana lo citava con una frase che in realtà era stata a sua volta resa celebre da Giorgio Almirante: “Vivi come se dovessi morire subito, pensa come se non dovessi morire mai”». L’Associazione Moana Pozzi, attraverso Mauro Biuzzi, ne ha preso umoristica distanza, segnalando l’articolo con una menzione speciale al PremioMoanaPozzi, in quanto il rapporto descritto è quello di «una coppia italiana davvero impresentabile e futurista, meglio di Mori/Celentano e anche degli Addams. Imbattibile!». Il motto, come spiegato nell’introduzione a La filosofia di Moana (1991), è di Seneca che lei aveva tratto da un articolo di Evola. L’Eros-Virus-Evola ha il potere di liberare dunque anche le morbosità immaginali degli integralisti.

Evola-Eros come mia narrazione fantastica

  1. Julius Evola, dopo aver scritto Metafisica del sesso nel 1958, ripensa, talvolta, alla sua esistenza passata, soprattutto alle pratiche magiche della sessualità. Queste vivono ora nelle figure simboliche del suo stesso pensiero. Le immagini che emergono, in quel momento dell’esistenza, sono di coloro che avevano ispirato il suo testo. Sono incarnate da donne conosciute, ma anche sconosciute, talvolta trasfigurate nel corpo dei suoi simboli alchemici. I loro occhi continuano a vibrare per incontrare il suo sguardo riflessivo.
  2. (…) In una notte d’estate, dalla finestra aperta della sua camera, sente in lontananza voci di alcuni uomini che dialogano con una donna. A un certo punto le voci si trasmutano come nelle sonorità di una ballata. Julius intuisce che quella donna è diventata la protagonista unica di quel collettivo desiderio maschile. Avverte che una carica selvaggia accende quell’attrazione, come accade nella sua Ballata in rosso, scritta quarant’anni prima, di cui ripete, con voce sommessa, alcuni versi: Lame della crudeltà e di voluttà estreme nella mia ballata in rosso per voi / stasera.

(…) Julius, ascoltando quella notte il colloquio degli uomini con la donna, oggetto della loro attrazione, immagina un cerimoniale erotico, svoltosi in un’ambientazione sadomaso, che si trasmuta in rituale di conoscenza. Questo può essere espresso ancora attraverso le parole della sua Ballata in rosso: Perché ora siete in mio potere… / Vi hanno portata nella piccola sala chiusa dinanzi alla mia indifferenza seduta…. / strappare giù fino al suggello al segreto del vostro essere oscurità chiusa fra le vostre cosce.

  1. “Julius, Julius, guardami…” riecheggia una voce femminile, in una notte d’inverno, durante un altro suo viaggio di visioni, mentre osserva le donne che avevano incarnato il suo percorso di eros alchemico.

Quella voce femminile, pregna di presenza magica, vuole entrare nel suo colloquio di immagini. Appartiene alla russa Maria de Naglowska che conobbe a Roma agli inizi degli anni Venti. Questo rapporto di arte e pensiero lo riporta all’origine del suo percorso espressivo, quando s’incontrò ventenne Maria, più grande di lui di età. Con lei tradusse dall’italiano in francese il poemetto La parola oscura del paesaggio interiore, che interpretò alle Grotte dell’Augusteo di Roma, nell’autunno del 1921, in una manifestazione Dada. Il manoscritto originario in italiano del poemetto, per loro volontà, doveva essere nascosto presso un cenacolo di cultori dell’esoterismo.

Maria de Naglowska era interessata alle potenzialità femminili della magia sexualis. Come poetessa e persona coinvolta nelle pratiche occultistico-esoteriche, aveva la sensibilità adatta per entrare in quella ricerca poetica di assonanze e richiami sensoriali. Lei partecipava nel creare insieme a lui quel linguaggio in cui l’orgasmo interiore esprimeva le sonorità vibrazionali della poesia. Maria s’identificava con M.lle Lilan, una delle quattro voci dialoganti nel poemetto, che era una voce femminile. Julius si rivede, in una successiva serie d’immagini, in una stanza bianca con un letto bianco, dove emerge il rosso dei cuscini e della coperta che crea una alchemica accensione visiva. Qui è abbracciato con Maria, dopo essersi guardati a vicenda, per diverso tempo, senza alcun contatto fisico. Lei è nuda. Lo sguardo e la nudità, in quel loro rapporto, diventano un modo per amplificare e far trascendere il loro stesso desiderio verso un eros magico. Il loro colloquio è espresso attraverso il suono della parola. Questo incarna l’orgasmo interiore della parola oscura che entrambi avevano ricercato nella traduzione del poemetto.

Nota. Da AA.VV., Il ritorno del Barone immaginario, antologia sulla vita romanzata di Julius Evola a cura di Gianfranco de Turris, Idrovolante Edizioni, 2021.

Testimonianze

“D- L'Evola erotico del tuo racconto Il quadro segreto (1970), pubblicato nell’antologia (sulla sua vita romanzata) Il ritorno del Barone immaginario, può esprimere una continuità con la tua teorizzazione sul Porno-Futurismo?

V.C. L’Eros come il Porno può divenire una possibilità di narrazione immaginale-fantastica, liberandosi dall’imperativo di dover suscitare consumistiche eccitazioni. Le sue figurazioni desideranti possono incarnare mistiche d’amore. Le letture di Evola verso queste tematiche mi hanno molto intrigato. Ho trovato seducente la sua estrema Ballata in rosso, espressa come poesia. I suoi tre nudi dipinti (negli anni 1960-70) possono essere “letti” come manifesti visivi delle peculiarità del femminile nell’esperienza alchemica della Metafisica del sesso, il suo famoso libro del 1958. Ho presentato queste espressioni di Evola nell’esposizione Eros Parola d’Arte attraverso poster, lettere e documentazione, a Lecce (Biblioteca Prov.le ‘Bernardini’) nel 2010.”

Da Intervista a Vitaldo Conte di Roby Guerra (‘Corriere di Puglia e Lucania’, 2021)

“L’Evola-pensiero può divenire, talvolta, virus: di contagio o di opposizione per battaglie ideologiche precostituite. Julius, come scrive Conte, è da proteggere però oggi dalle nuove infiltrazioni. Come quella determinata dal fatto che il suo lavoro artistico, raggiungendo nelle aste valutazioni ragguardevoli, possa favorire (come sta accadendo) l’affiorare frequente di  sue opere “false”.

La presunta pericolosità di questo innominabile “cavaliere nero” è amplificata dalle sue erranze culturali, che possono destabilizzare le canoniche catalogazioni sociali, ponendosi sempre fuori-schema. Molteplici sono infatti le sue presenze: pittura e poesia; filosofia e politica; dottrine orientali e simbolismo occidentale; esoterismo e tecniche iniziatiche; ecc. Le sue alchimie comprendono la spiritualità trascendente come il magnetismo della Metafisica del sesso (titolo del suo famoso libro)”.

Auguste Bruni (‘Fyinpaper’, 2021)

Vitaldo Conte

L’e-book è su: https://books.google.it/books?id=eKUsEAAAQBAJ&pg=PT3&lpg=PT3&dq=julius+evola+vita+arte+poesia+eros+come+pensiero+e+virus&source=bl&ots=optStP-Ehp&sig=ACfU3U2FZ59zxOU4ckTIIwv4FSlLB7Xaxg&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwj7vqOI97LwAhWRMewKHbkJD2IQ6AEwEnoECB4QAw#v=onepage&q=julius%20evola%20vita%20arte%20poesia%20eros%20come%20pensiero%20e%20virus&f=false

Evola contro Wagner – Umberto Bianchi

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Quella su Wagner e sulla sua interpretazione dei miti germanici, è un’antica polemica che, nel corso degli anni è stata periodicamente rintuzzata e riaccesa, a seconda dell’obiettivo politico-ideologico e culturale, che si voleva raggiungere. Dai tempi delle romantiche scazzottate dinnanzi ai teatri dell’Opera di mezza Italia a fine Ottocento, tra verdiani e wagneriani, agli interventi a gamba tesa dello stesso D’Annunzio, sino alle polemiche da parte dell’area culturale tradizionalista. E sarà proprio su queste ultime che qui, ci si intende soffermare, proprio perchè, oltre da ad esser le più recenti, cronologicamente parlando, sono forse le più “tranchant”, emesse come sono, da quelli che, della koinè” tradizionalista sono tra gli autori autori più rappresentativi, quali uno Julius Evola o un Renè Guenon. L’occasione per una più approfondita riflessione al riguardo, è stata offerta da uno degli ultimi incontri “online”, a cura di “Ereticamente Sapienza”, incentrato proprio sul commento al “Parsifal” di Wagner ed alle tematiche ad esso connesse, inclusa, per l’appunto,  quella dell’interpretazione di autori come Evola. Diciamocelo pure. Dal punto di vista filologico, quella evoliana e tradizionalista in genere, è una critica che ha un suo fondamento. Wagner dette un’ interpretazione del mito in chiave romantica, animata da una forte carica di sensuale passione, rivestita di panteismo e naturalismo che, alla fine, si risolve  in una ritrovata fede nel cristianesimo. La qual cosa, sicuramente non coincide e devia alquanto dall’originario spirito di quella narrazione, collocato invece in una atemporale dimensione, le cui vicende e personaggi, altri non sono che simboli teofanici che rimandano  continuamente alla presenza di una dimensione del sovrannaturale , ovunque presente. Una dimensione che poco o nulla ha a che fare con quella forma di  naturalistica escatologia, che invece, in Wagner, alla morte degli Dei vede succedere l’era degli uomini, stavolta animati da una nuova fede religiosa.  E qui veniamo alla “nota dolens”  dell’intera questione. Una critica appropriata da un punto di vista formale, ma totalmente inappropriata da uno più propriamente sostanziale.

Wagner ebbe la capacità e l’abilità di raccogliere i vari mitologemi dell’area culturale sud germanica e di riunirli in un’unica raccolta all’insegna di un comun denominatore, rappresentato dalla necessità di dare un’anima alle popolazioni germaniche, da poco riunificate sotto un’unica bandiera nazionale, grazie all’opera di Bismarck. Un’operazione questa, sicuramente, ben lontana dall’originaria ottica del mito, ma sicuramente in linea con le istanze romantiche, che animavano i vari risorgimenti nazionali nell’Europa del 19° secolo e di cui l’opera wagneriana, rappresentò una delle più fulgide espressioni. Ferma restando la natura “deviante” dell’opera wagneriana dall’originario contesto, mitico, non si può dire , in questo, che il grande autore sia stato solo. Di re-interpretatori del mito o addirittura di creatori di nuovi, la storia ne è piena a bizzeffe. Potremmo ricordarci di quanto fatto da Platone con il mito di Er o da Virgilio con l’Eneide. Il raccogliere gli elementi mitici di una precedente tradizione e poi rielaborarli al fine della propria narrazione non è pertanto cosa nuova, ma non è da tutti. Virgilio ha dato una ulteriore base mitica alle più lontane origini di Roma e dei Romani, creando un’opera letteraria immortale.

La medesima cosa ha fatto Wagner, conferendo un’identità nazionale ai tedeschi e creando addirittura un mito nuovo, su una base musicale. Nel far questo, il grande compositore tedesco ha ricevuto l’incondizionato sostegno e la più fervida ammirazione di un Nietzsche che, in lui, vedeva una prima, concreta, realizzazione del suo lungo e tormentato percorso elaborativo. Wagner avrebbe dato piena concretezza ed anima a quel principio “dionisiaco”, dal Nietzsche tanto decantato, simbolo di quell’anelito all’irrazionalità della potenza vitale, immersa in un continuo e caotico divenire, così in contrasto con l’algida e solare armonia apollinea. Il grande filosofo tedesco, sarà il primo a sparigliare le carte al marmoreo e quasi arcadico, neoclassicismo dei Winkelmann e dei Canova. Sarà il primo, a dare un cappello di sistematicità a quelle istanze di irrazionalità, provenienti dall’ambito vitalista e da quello romantico, (tanto da finir con l’essere accusato, dallo stesso Heidegger, di essere un “metafisico”, sic!). Dioniso è l’incessante scorrere della vita, è l’irrefrenabile ciclo di alternanza tra quella stessa vita e la morte, è l’inebriamento e l’offuscamento dell’apollinea “ratio”, nel nome di quella vertiginosa caduta nei sensi, che tanto caratterizza la musica di Wagner.

E così da iconica narrazione, rivestita di significati archetipi, da totem spirituale, il mito in Wagner si fa vita, divenire, incessante trasformazione. All’era degli Dei, succede quella degli uomini. All’antica fede, ne succede una nuova, all’insegna di un simbolo, il Santo Graal, anch’egli qui a simboleggiare quel lavoro di “reinterpretatio” del mito, compiuto nell’opera musicale. Ed anche qui, però bisognerebbe valutare con molta prudenza il significato, la natura della conversione di Wagner al cristianesimo. Ben lungi dall’assumere la valenza di un ripiegamento verso uno stantio e bigotto fideismo, quella del grande compositore germanico ci sembra, piuttosto, essere un’altra sua particolare “interpretatio” della fede cristiana, riletta in una chiave ariana e “solare”, all’insegna di un simbolo di rinascita; quasi un anticipo dello steineriano cristocentrismo. Questo grandioso affresco mitopoietico, fa da sfondo alla nascita della coscienza del popolo germanico. Ne diviene il mito trascinante ed il regime nazionalsocialista ne farà la punta di diamante, il leit motiv, della propria narrazione ideologica, legando definitivamente a sé, il destino di sessanta milioni di tedeschi, nell’ambito di una colossale operazione di indottrinamento metapolitico, mai vista prima d’allora.  Per questo, le critiche evoliane e guenoniane, corrette da un punto di vista filologico, non colgono nel segno da un punto di vista più ampio, metastorico e filosofico. Come abbiamo già avuto modo di vedere, quello della rielaborazione del mito, è un lavorio che procede instancabile, coevo alla storia spirituale del genere umano. Abbiamo detto Platone con la filosofia, ma anche Virgilio e Dante con la poesia e sinanco Madame Blavatskji con l’esoterismo o Tolkien con la narrativa, assieme a tanti altri,  furono, ognuno a modo proprio, artefici di queste reinterpretazioni. Una questione di ermeneutica in senso più ampio, questa, dalla quale neanche lo stesso Evola è stato immune. Come nel caso delle scienze ermetiche , di cui l’autore dà un’interpretazione tutta all’insegna del contrasto tra una via fideistica e sacerdotale ed una più propriamente iniziatica e guerriera. L’errore non sta però nella persona di Evola, quanto piuttosto nell’impostazione di fondo di certo tradizionalismo, così come formulata da Renè Guenon e che finisce con il trascinare, nella spirale dell’accademismo, proprio autori come Evola che in precedenza, tanto l’avevano condannato, ravvisandolo sia nei protagonisti del pensiero neoidealista, che in quello romantico.

Quando il pensare la Tradizione si irrigidisce nell’accademismo, nel regno dei puntigliosi “distinguo”, allora si fa “tradizionalismo”, guscio marmoreo e rigido, in cui solo albergano parole e concetti vuoti, senza più oramai attinenza alcuna con una realtà invece, viva, in continua trasformazione. Nietzsche, padre putativo della Modernità, concepì un uomo in grado di farsi mito di sé stesso, in un continuo anelito all’autosuperamento, all’interno del perenne girare della ruota del Samsara. Wagner tradusse tutto questo, in una musica divina. E l’Europa divenne il primo laboratorio per la nascita del Superuomo…

Umberto Bianchi

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